Cicerone: De divinatione I


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LIBRO PRIMO

I 1. C'è un'antica opinione , risalente ai tempi degli eroi leggendari e rafforzata dal consenso del popolo romano e di tutte le genti, secondo cui esistono uomini dotati di una capacità di divinazione - chiamata dai greci mantiké -, cioè in grado di prevedere il futuro e di acquisirne la conoscenza. Capacità eccezionale e salutare, se davvero esiste, grazie alla quale la natura di noi mortali potrebbe avvicinarsi di molto alla potenza degli dèi! E come in altri casi noi Romani riusciamo molto meglio dei Greci, così anche a questa straordinaria dote i nostri antenati dettero un nome tratto dalle divinità, mentre i Greci, come spiega Platone, ne derivarono il nome corrispondente dalla follìa. 2. Non conosco, in verità, alcun popolo, dai più civili e colti fino ai più incivili e barbari, che non creda che il futuro si manifesti con segni premonitori, e che esistano alcuni capaci di comprenderli e di spiegarli in anticipo. Incominciamo dalle testimonianze più antiche. Per primi gli Assiri, abitando vasti territori pianeggianti e potendo perciò vedere il cielo aperto fino all'orizzonte in ogni direzione, osservarono continuamente i passaggi e i moti delle stelle, e, dopo averli annotati, tramandarono ai posteri quale significato avessero per ciascun individuo. Tra gli Assiri, si ritiene che in particolare i Caldèi - nome di una gente, non della loro arte - con l'incessante osservazione delle stelle abbiano fondato una scienza che permetteva di predire che cosa sarebbe accaduto a ciascuno e con quale destino ciascuno era nato. La stessa maestria si crede che abbiano acquisito anche gli Egiziani, nel corso di un tempo lunghissimo, con una successione di moltissimi secoli. Inoltre, gli abitanti della Cilicia e della Pisidia e quelli, confinanti con loro, della Panfilia (tutte popolazioni, che io stesso ho governato) credono che il volo e il canto degli uccelli servano a predire con la massima certezza il futuro. 3. E la Grecia, quanti abitanti inviò a fondare colonie in Eolia, in Ionia, in Asia, in Sicilia, in Italia senza aver prima consultato l'oracolo di Delfi o quello di Dodona o quello di Ammone? E quale guerra fu mai intrapresa dai Greci senza aver consultato gli dèi?

II Né è stato mai praticato un solo genere di divinazione, sia per affari di Stato sia per prendere decisioni private. Anche non tenendo conto degli altri popoli, il nostro a quanti tipi di divinazione è sempre ricorso! Innanzi tutto il padre della nostra città, Romolo, non solo fondò Roma dopo aver preso gli auspicii, ma, a quanto si narra, fu egli stesso un ottimo àugure. Dopo di lui, gli altri re consultarono sempre gli àuguri; e dopo la cacciata dei re nessuna decisione riguardante lo Stato, in pace come in guerra, veniva presa senza essere prima ricorsi agli auspicii. E siccome credevano che la scienza degli arùspici avesse grande importanza sia nel cercar di ottenere buoni eventi e nel ricevere buoni consigli, sia nell'interpretare i prodìgi e nell'allontanare con espiazioni la loro forza malefica, attingevano tutta questa dottrina dall'Etruria, perché nessun genere di divinazione venisse trascurato. 4. E poiché le anime umane, quando non le governano la ragione e il sapere, sono eccitate spontaneamente in due momenti particolari, cioè negli accessi di follìa e nei sogni, i nostri antenati, ritenendo che la capacità divinatoria che si manifesta nella follìa fosse interpretata soprattutto nei versi sibillini, istituirono un collegio di dieci interpreti di tali libri, scelti fra i cittadini. Riguardo a questo genere di divinazione, credettero spesso di dover dare ascolto anche alle profezie annunciate ad alta voce in stato di esaltazione dagl'indovini e dai vati: per esempio, a quelle di Cornelio Culleolo nella guerra di Gneo Ottavio contro Cinna. Ma neppure il sommo consesso, il Senato, trascurò i sogni, se per la loro importanza sembravano necessari a prendere decisioni riguardanti lo Stato. Ancora ai nostri tempi Lucio Giulio, console insieme con Publio Rutilio, per decreto del Senato restaurò il tempio di Giunone Sospita in seguito a un sogno di Cecilia, figlia di Cecilio Baliarico.

III 5. Gli antichi, a mio parere, credettero alla veridicità della divinazione più perché impressionati dall'avverarsi delle profezie che per argomentazioni razionali. Quanto ai filosofi, sono stati raccolti i loro sottili ragionamenti per dimostrare che la divinazione corrisponde al vero. Tra essi (mi rifaccio ai più antichi), Senofane di Colofone fu il solo che, pur credendo all'esistenza degli dèi, negò ogni fede nella divinazione. Tutti gli altri, eccettuato Epicuro che sulla natura degli dèi disse cose assurde, approvarono la divinazione, ma non nella stessa misura. Socrate e tutti i socratici, Zenone stoico e i suoi seguaci, si attennero alla dottrina dei filosofi più antichi, e dello stesso parere furono l'Accademia antica e i peripatetici; già prima di essi, Pitagora aveva attribuito alla divinazione grande autorità (egli stesso, anzi, si considerava un àugure), e Democrito, filosofo di grande valore, in molti passi delle sue opere dichiarò di credere alle previsioni del futuro. Invece il peripatetico Dicearco considerò veritieri soltanto i sogni e le profezie gridate in accessi di follìa, negò fede a ogni altro genere di divinazione; mentre il mio intimo amico Cratippo, che io considero pari ai peripatetici più grandi, egualmente credette a quei due tipi di profezie, e ripudiò tutti gli altri. 6. Ma dopo che gli Stoici ebbero difeso in generale ogni divinazione (poiché Zenone nelle sue opere aveva, per così dire, sparso qua e là i semi di questa dottrina e Cleante li aveva alquanto sviluppati), ecco farsi avanti un uomo d'ingegno acutissimo, Crisippo, il quale espose tutta la dottrina della divinazione in due libri, e poi in un altro libro trattò degli oracoli, in un altro ancora dei sogni; dopo di lui scrisse un libro sulla divinazione Diogene di Babilonia, suo discepolo, due Antipatro, cinque il mio Posidonio. Ma dagli Stoici si discostò il maggior pensatore di quella scuola, Panezio, maestro di Posidonio, discepolo di Antipatro; tuttavia egli non si spinse fino a negare la validità della divinazione, ma dichiarò soltanto di dubitarne. Ciò che fu lecito di fare fino a un certo punto a lui, stoico, tra l'aspro dissenso degli altri stoici, gli stessi stoici non concederanno a noi di farlo fino in fondo? Tanto più che ciò di cui Panezio dubita, è considerato più chiaro della luce del sole dagli altri seguaci della stessa scuola. 7. Ma questo titolo di merito dell'Accademia ha la conferma del giudizio e della testimonianza di un filosofo di grande valore.

IV Io stesso mi sono chiesto quale giudizio si debba dare sulla divinazione, poiché Carneade aveva avuto un lungo contrasto con gli Stoici, discutendo con acutezza e facondia, e ho temuto di dare il mio assenso con troppa facilità a una dottrina falsa o non sufficientemente approfondita. Mi sembra dunque che la cosa migliore sia mettere a confronto più e più volte, con attenzione, gli argomenti a favore e quelli contrari, come ho fatto nei tre libri "Sulla natura degli dèi". In effetti, se in ogni questione è disonorevole la precipitosità nell'aderire a una tesi e l'uscire dalla retta via, tanto più lo è dove si tratta di giudicare quanta autorità dobbiamo attribuire agli auspicii, ai riti, alla religione. C'è infatti il pericolo di cadere o in un'empia aberrazione, se trascuriamo queste cose, o in una superstizione da vecchiette, se le accettiamo.

V 8. Di questi problemi ho discusso spesso, ma con particolare impegno proprio recentemente, quando mi trovavo con mio fratello Quinto nella mia villa di Tusculo. Un giorno eravamo saliti al Liceo per passeggiare (così sono solito chiamare il piano superiore del ginnasio). Egli mi disse: «Ho letto per intero, poco tempo addietro, il terzo libro del tuo "Sulla natura degli dèi", nel quale la polemica che tu fai portare avanti da Cotta ha messo in crisi la mia opinione, non l'ha tuttavia completamente annientata.» «Giustissimo,» risposi; «in verità Cotta svolge la sua discussione in modo da confutare gli argomenti degli Stoici, senza per questo distruggere la religione degli uomini.» E Quinto: «Cotta lo dichiara, anzi lo ripete più volte, allo scopo, credo, di non esser preso per un trasgressore dei principii comuni a tutti; ma a me sembra che, per troppo zelo di polemizzare con gli Stoici, finisca col negare completamente gli dèi. 9. Beninteso, non sento il bisogno di replicare al suo discorso: la religione è già stata difesa a sufficienza nel secondo libro da Lucilio Balbo, la cui trattazione tu stesso consideri più vicina alla verità, come dichiari alla fine del terzo libro. Ma c'è un argomento che è stato tralasciato in quei tre libri, perché, suppongo, tu hai ritenuto che fosse più opportuno indagarlo e discuterne a parte: la divinazione, cioè la predizione e il presentimento di quei fatti che si considerano effetto del caso. Se sei d'accordo, vediamo quale potere essa abbia e quale natura. Io sono di questa opinione: se sono veritieri quei generi di divinazione che ci sono stati tramandati e che pratichiamo, allora gli dèi esistono; e se, a loro volta, gli dèi esistono, vi sono persone capaci di predire il futuro.»

VI 10. «Tu difendi la roccaforte degli Stoici, Quinto,» io risposi, «se davvero c'è reciproca dipendenza tra questi due enunciati; se c'è la divinazione, ci sono gli dèi, e se gli dèi ci sono, c'è la divinazione. Ma né l'uno né l'altro enunciato vien dato per vero con tanta facilità quanto tu credi. Da un lato, il futuro può essere indicato da eventi naturali, senza l'intervento della divinità; dall'altro, anche ammesso che gli dèi esistano, può darsi che essi non abbiano concesso al genere umano alcuna capacità di divinazione. » E Quinto: «Ma il fatto stesso che vi siano generi di divinazione chiari ed evidenti, a mio giudizio costituisce una prova sufficiente dell'esistenza degli dèi e della loro provvidenza nei riguardi delle cose umane. Ti esporrò volentieri il mio parere su tutto ciò, a patto che tu sia libero da altre occupazioni e non abbia qualcosa da preferire a questa nostra conversazione.» 11. «Per la filosofia,» risposi, «io ho sempre l'animo ben disposto, caro Quinto; e poiché adesso non ho nient'altro a cui possa dedicarmi volentieri, tanto più sono desideroso di sentire il tuo parere sulla divinazione.» «Non dirò nulla di nuovo,» incominciò Quinto, «né opinioni mie divergenti da quelle altrui: io seguo una dottrina antichissima e, per di più, confermata dal consenso di tutti i popoli e di tutte le genti.

Due sono i generi di divinazione, l'uno che riguarda l'arte, l'altro la natura. 12. Quale popolo c'è, d'altronde, o quale città, che non rimanga impressionata dalla predizione degli indagatori delle viscere di animali o degli interpreti dei prodìgi e dei lampi o degli àuguri o degli astrologi o di coloro che estraggono le sorti (questi che ho elencato si riferiscono all'arte), ovvero dai presagi dei sogni e delle grida profetiche (questi due si considerano naturali)? Io credo che di tutto ciò vadano indagati i risultati piuttosto che le cause. C'è, difatti, una dote naturale che, o dopo lunga osservazione degl'indizi profetici, o per qualche istinto e ispirazione di origine divina, preannuncia il futuro.

VII La smetta perciò Carneade di provocarci (come faceva anche Panezio) chiedendosi se è stato Giove a ordinare alla cornacchia di gracidare da sinistra, al corvo da destra. Questi fenomeni sono stati osservati da tempo infinito, si è tenuto conto di ciò che accadeva dopo che si erano manifestati certi segni. Del resto, non c'è nulla che, nel lungo scorrere del tempo, non possa essere chiarito e messo in evidenza mediante il ricordo dei fatti e la consultazione dei documenti scritti. 13. È lecito constatare con lieta meraviglia quali specie di erbe e di radici atte a curare le morsicature delle bestie, le malattie degli occhi, le ferite, siano state scoperte dai medici, senza che la ragione abbia mai spiegato il motivo della loro efficacia: eppure la loro utilità ha dato credito all'arte medica e allo scopritore. Osserviamo un po' quei fenomeni che, pur appartenendo a un genere diverso, sono tuttavia alquanto affini alla divinazione: «E anche il mare gonfio indica spesso l'appressarsi dei venti, quando all'improvviso e fin dal profondo si solleva, e gli scogli biancheggianti, battuti dalla spuma nivea dell'acqua salata, gareggiano con Nettuno nel mandar lugubri voci, o quando un fitto stridore, proveniente dall'alta vetta d'un monte, si accresce, respinto indietro dalla barriera degli scogli

VIII Di questi presagi sono pieni i tuoi "Prognostica". Ebbene, chi potrebbe scoprire le cause dei presagi? Vero è che lo ha tentato, a quel che vedo, lo stoico Boeto, il quale riuscì in parte a spiegare i fenomeni marini e celesti. 14. Ma chi saprebbe dire con qualche probabilità di certezza il perché avvengano questi altri fatti? "Del pari la grigia fòlaga, fuggendo dal gorgo profondo del mare, col suo grido annunzia che incombono orribili tempeste, ed effonde dalla tremula gola alte voci. Spesso anche l'acrèdula fa sgorgare dal petto una nenia tristissima e persiste nel suo canto mattutino: persiste nel suo canto e lancia dalla bocca continui lamenti, appena l'aurora fa cadere la fredda rugiada. E non di rado la nera cornacchia, scorazzando per la spiaggia, immerge la testa e fa spruzzare i flutti sul collo."

IX 15. Vediamo che questi indizi non si smentiscono quasi mai, eppure non sappiamo perché ciò accada."Anche voi, nutrite di acqua dolce, vedete i segni della tempesta, quando vi apprestate a lanciare vani richiami a gran voce, e con stridule grida turbate le fonti e gli stagni." Chi potrebbe immaginare che le ranocchie prevedano la tempesta? Ma è insito nelle ranocchie un potere di presagire qualcosa: un potere difficilmente negabile in quanto tale, anche se non ben comprensibile alla ragione umana. "E i buoi che incedono lenti, con lo sguardo rivolto al cielo luminoso, aspirano dalle narici l'umido vapore dell'aria." Non domando il perché, dal momento che constato che il presagio si avvera. "Inoltre, sempre verde e sempre carico di bacche, il lentisco, che è solito arricchirsi di un triplice frutto, tre volte spandendo intorno la sua messe preannuncia i tre tempi dell'aratura." 16. Nemmeno questo chiedo, perché quel solo albero fiorisca tre volte o perché con la fioritura indichi che è tempo di arare; mi accontento di sapere che cosa accada, pur ignorando perché accada. In difesa di ogni genere di divinazione, dunque, darò la stessa risposta che ho dato per quei presagi che ho menzionato.

X Quale utilità ha la radice del Convolvolo come purgante, quale efficacia ha l'Aristolochia contro il morso dei serpenti? (questa pianta si chiama così dal nome del suo scopritore, il quale la trovò in seguito a un sogno); io vedo che ciò è possibile, e mi basta; perché sia possibile, non so. Allo stesso modo non sono in grado di capir bene a quale legge razionale obbediscano i segni annunciatori dei venti e delle piogge, di cui ho parlato prima; ma riconosco, io ammetto, constato il loro potere e il risultato che ne consegue. Parimenti, so che significato abbia la fenditura nelle viscere degli animali sacrificati, o la fibra; la causa di questi presagi, non la conosco. E in tutta la nostra vita ci troviamo in questa condizione: poiché quasi tutti credono agli indizi delle viscere. E possiamo forse dubitare del valore profetico dei fulmini? Fra i tanti esempi di tali miracoli, questo è soprattutto degno di ricordo: l'immagine di Summano, che allora era di argilla, posta in cima al tempio di Giove Ottimo Massimo, fu colpita da un fulmine, né si riusciva a ritrovare in alcun luogo la testa della statua. Gli arùspici dissero che era caduta nel Tevere, e fu trovata esattamente nel punto che da essi era stato indicato.

XI 17. Ma di quale autorità, di quale testimone migliore di te potrei servirmi? Ricordo anche a memoria - e li ricordo con gioia - i versi che la musa Urania recita nel secondo libro del tuo "Consolato":

"Innanzi tutto Giove, infiammato dal fuoco etereo, ruota e rischiara con la sua luce tutto il mondo, e mira a penetrare il cielo e la terra con la sua mente divina che, chiusa e celata nelle cavità dell'etere eterno, preserva fin nell'intimo i sensi e la vita degli uomini. E se vuoi conoscere i movimenti e i percorsi vaganti delle stelle che si trovano nella zona delle costellazioni, e che, a quanto dicono ingannevolmente i greci e secondo il nome che essi han loro attribuito, vanno errando, ma in realtà si muovono con velocità regolare entro un'orbita determinata, vedrai che tutto ciò ha il contrassegno della mente divina. 18. Giacché, in primo luogo, sotto il tuo consolato, quando compisti i riti lustrali sulle alture nevose del monte Albano e con copioso latte onorasti le Ferie Latine, tu stesso vedesti movimenti alati di astri e congiunzioni male auguranti di stelle che splendevano ardendo; vedesti le comete tremolanti di splendente fuoco. E pensasti a grandi sconvolgimenti in una strage notturna, poiché le Ferie latine erano cadute press'a poco in quel tempo nefasto in cui la luna, addensando la sua luce, aveva nascosto il suo volto splendente e tutt'a un tratto era scomparsa nella notte cosparsa di stelle. E che dire della fiaccola di Febo, annunziatrice di triste guerra, che volava con ardore di fuoco a guisa di immane colonna, dirigendosi verso la parte dove il cielo precipita, verso il tramonto? O quando un cittadino, colpito dal terribile fulmine a ciel sereno, abbandonò la luce della vita, o quando la terra tremò col corpo gravido di vapori? E già nelle ore della notte si vedevano vari spettri terribili, e annunziavano guerra e sommosse, e gl'indovini qua e là effondevano dal petto invasato molte profezie che minacciavano tristi eventi; 19. e quei fatti che, dopo lungo trascorrere di tempo alfine accaddero, il padre degli dèi, egli stesso, li preannunziava al cielo e alla terra, ripetendo l'annunzio con segni continui ed evidenti.

XII Ed ecco che tutti gli eventi che un tempo, sotto il consolato di Torquato e di Cotta, aveva profetato l'arùspice lidio della gente etrusca, tutti insieme, stabiliti dal fato, li porta a termine l'anno del tuo consolato. Ché il Padre altitonante, ergendosi sull'Olimpo stellato, colpì col fulmine il colle una volta a lui caro e il suo tempio, e appiccò il fuoco alla sua dimora sul Campidoglio. Allora l'antica e venerata effigie bronzea di Natta si abbatté al suolo, e scomparvero le tavole delle leggi di vetusta, sacra autorità, e la vampa del fulmine distrusse le immagini degli dèi. 20. Qui c'era la silvestre nutrice marzia della gente romana, che con le turgide mammelle alimentava di rugiada vitale i piccoli nati dalla stirpe di Marte. Essa allora, colpita insieme coi fanciulli dal fulmine fiammeggiante, cadde e, divelta dalla base, vi lasciò l'impronta dei piedi. Chi in quel tempo, leggendo e rileggendo gli scritti e i documenti dell'arte divinatoria, non ricavava dalle carte etrusche lugubri presagi? Tutti avvertivano che una grande sciagura per tutta la città, un flagello stava per scatenarsi, per opera di una famiglia nobile; e annunziavano anche, con parole sempre ripetute, la rovina delle leggi e ordinavano soprattutto di sottrarre dalle fiamme i templi degli dèi e la città, e di guardarsi da una strage e da un massacro orribile. Dicevano che queste cose erano immutabilmente fissate da un tremendo destino, a meno che, prima, una sacra immagine di Giove, fatta con arte, collocata su un'alta colonna, non fosse rivolta verso la chiara luce d'oriente. Soltanto allora il popolo e il santo senato avrebbero potuto scoprire queste trame occulte, se la statua di Giove, rivolta verso il sorgere del sole, avesse potuto di lì vedere le sedi dei senatori e del popolo. 21. Questa effigie, eseguita con gran ritardo e attesa per molto tempo, finalmente sotto il tuo consolato fu collocata sulla sua alta sede; e in uno stesso momento, stabilito e fissato dal destino, Giove faceva risplendere il suo scettro in cima alla colonna, e la rovina della patria, preparata col ferro e col fuoco, veniva rivelata dalle parole degli Allobrogi ai senatori e al popolo.

XIII A ragione, dunque, gli antichi, dei quali voi custodite gli insegnamenti, e che con moderazione e virtù governavano popoli e città, - a ragione anche i vostri compatrioti, la cui religiosità e il cui ossequio ai numi superò tutti e di gran lunga li vinse la loro sapienza, onorarono più che mai gli dèi insigni per potenza. Questi insegnamenti, d'altronde, li intesero a fondo, con una indagine attenta, coloro che trascorsero lieti in nobili studi il tempo libero da fatiche quotidiane, 22. e che, nell'ombrosa Accademia e nel luminoso Liceo, diffusero le splendide dottrine del loro ingegno fecondo. Strappato ad essi fin dal primo fiorire della giovinezza, tu fosti collocato dalla patria in mezzo al faticoso mondo delle virtù attive. E tuttavia, dando un po' di tregua alle ansiose preoccupazioni della vita civile, hai consacrato a quegli studi e a noi il tempo che la patria ti lascia libero."

Tu dunque, che hai fatto quel che hai fatto e hai scritto con la massima esattezza i versi che or ora ho recitato, hai il coraggio di opporti a ciò che io sostengo sulla divinazione? 23. Perché vai chiedendo, Carneade, per qual motivo queste cose avvengano o con quale arte possano essere comprese? Io confesso di non saperlo, ma affermo che tu stesso devi riconoscere che avvengono. "Per puro caso", dici tu. Ma davvero può accadere per caso ciò che ha in sé tutti i caratteri della verità? Quattro dadi, lanciati a caso, danno il "colpo di Venere"; ma se lancerai quattrocento dadi, e otterrai il colpo di Venere per tutte e cento le volte, crederai che ciò sia dovuto al caso? Dei colori schizzati a caso su una tavola possono produrre i lineamenti di un volto; ma crederai che schizzando colori a caso si possa ottenere la bellezza della Venere di Coo? Se una scrofa col suo grifo avrà tracciato sul terreno la lettera A, la crederai per questo capace di scrivere l'Andromaca di Ennio? Carneade immaginava che nelle cave di pietra di Chio, in seguito alla spaccatura di un macigno, fosse venuta in luce per caso la testa di un piccolo Pan: sono disposto a credere che si trattasse di una qualche forma somigliante, ma certamente non tale da potere essere giudicata opera di Scopa. Le cose, non c'è dubbio, stanno così: il caso non può mai imitare perfettamente la realtà.

XIV 24. "Ma," si obietta, "talvolta cose che sono state predette non accadono." Rispondo: "Quale arte è immune da questa eventualità?" Mi riferisco, s'intende, a quelle arti che si basano su congetture e sono opinabili. Forse non si deve considerare come un'arte la medicina? Eppure in molti casi cade in errore. E quelli che guidano le navi, non sbagliano mai? Non accadde forse che le truppe achee, con tanti comandanti di navi, ripartissero da Ilio "guardando, lieti per la partenza, i pesci guizzanti in mare," come dice Pacuvio, "né venissero presi da sazietà di godersi lo spettacolo?". Ma " frattanto, quando il sole già sta per calare, il mare incomincia ad agitarsi, il buio raddoppia, il nero della notte e quello dei nembi acciecano lo sguardo..." Dunque il naufragio di tanti famosissimi condottieri e sovrani ha tolto ogni credito all'arte di pilotare le navi? Oppure l'arte militare non vale niente, per il fatto che poco tempo fa un comandante è si è dao alla fuga lasciando l'esercito sconfitto? O la capacità e l'avvedutezza nel governare lo Stato non esistono, perché in molti errori incorse Gneo Pompeo, in parecchi Marco Catone, in qualcuno anche tu? Uguale è il caso dei responsi degli arùspici, e ogni genere di divinazione è opinabile: si basano su congetture, oltre le quali non è possibile spingersi. 25. Può darsi che talvolta la congettura sia ingannevole, ma spessissimo conduce alla verità: il suo inizio, difatti, si perde nella notte dei tempi, e siccome innumerevoli volte, dopo che si erano manifestati gli stessi presagi, accadevano quasi sempre gli stessi eventi, si è costituita l'arte divinatoria con l'osservare e col registrare più volte le stesse cose.

XV Quale valore, poi, hanno i vostri auspicii! I quali, in verità, attualmente vengono ignorati dagli àuguri romani (non te ne avere a male se lo dico), mentre sono ancora in vigore presso gli abitanti della Cilicia, della Panfilia, della Pisidia, della Licia. 26. Non ho bisogno di rammentare il nostro ospite, il re Deiòtaro, uomo illustre ed eccezionale, il quale non fa mai nulla se non dopo aver preso gli auspicii. Una volta egli aveva progettato e iniziato un viaggio. Ammonito dal volo sfavorevole di un'aquila, tornò indietro; ebbene, la stanza nella quale avrebbe sostato se avesse proseguito il suo percorso, crollò la notte seguente. 27. Da lui stesso ho sentito dire che più volte ritornò sui suoi passi dopo aver già compiuto un percorso di molti giorni. E di Deiotaro è particolarmente straordinario ciò che ora dirò. Dopo essere stato punito da Cesare con la perdita della tetrarchia, del regno, di un'ingente somma di denaro, continua a dire che non si lagna di quegli auspicii che gli si rivelarono favorevoli quando partì per unirsi all'esercito di Pompeo, perché le sue armi difesero l'autorità del senato, la libertà del popolo romano, la dignità del suo comando, e perciò gli uccelli per ammonimento dei quali egli seguì la via del dovere e della lealtà gli dettero un buon consiglio: la sua gloria doveva valere di più che i le sue proprietà. Lui sì che, a mio parere, ha seguito con spirito di verità l'arte augurale! I nostri magistrati, invece, praticano auspicii forzati: è inevitabile che, offerto il cibo, un pezzetto di esso cada dalla bocca del pollo mentre sta mangiando. 28. Ma quanto alla prescrizione dei vostri libri, secondo cui è favorevole l'auspicio se dalla bocca dell'uccello cade a terra un pezzo del cibo, voi considerate particolarmente favorevole anche questo auspicio che ho definito forzato. Perciò molti augurii, molti auspicii sono stati del tutto dimenticati o trascurati per negligenza del collegio; di ciò si rammarica Catone, il nostro vecchio saggio.

XVI Nemmeno negli affari privati, se avevano una certa importanza, si era soliti fare alcunché, nei tempi andati, senza ricorrere agli auspicii. Tuttora ciò è indicato dagli "auspici delle nozze", i quali, andato in disuso il loro compito, mantengono solo il nome. Come ora all'osservazione delle viscere (sebbene anche questa pratica sia alquanto meno seguita rispetto ad un tempo), così allora erano soliti, in questioni importanti, chiedere consiglio al volo degli uccelli. Perciò, se non ricerchiamo con cura i presagi favorevoli, andiamo soggetti a quelli malauguranti e infausti. 29. Per esempio Publio Claudio, figlio di Appio il Cieco, e il suo collega Lucio Giunio persero ingenti flotte, perché avevano preso il mare con auspicii contrari. Ugualmente ciò accadde ad Agamennone, il quale, poiché gli Achei avevano incominciato "a schiamazzare tra loro e a denigrare apertamente l'arte degli scrutatori di viscere, ordina di salpare col plauso delle truppe e con l'ostilità dei presagi." Ma a che scopo rievocare fatti remoti? Che cosa sia accaduto a Marco Crasso lo sappiamo, per avere trasgredito il divieto dei presagi infausti. In questa circostanza Appio, tuo collega e bravo àugure (come spesso mi hai detto), con scarsa cognizione di causa, in qualità di censore, indirizzò una nota di biasimo a Gaio Ateio, ottima persona ed egregio cittadino, perché (questa la motivazione) aveva annunziato auspicii falsi. Sia pure, ammettiamo che quello fosse il suo dovere di censore, se giudicava che Ateio avesse trasgredito quel divieto; ma non fece il suo dovere di àugure, dal momento che aggiunse per iscritto che per quella causa il popolo romano aveva subìto una gravissima sciagura. Se, infatti, fu quella la causa della sciagura, la colpa non va attribuita a chi la predisse, ma a chi non obbedì alla dissuasione. Che la dissuasione fosse giusta, come disse Appio, àugure e censore nello stesso tempo, fu dimostrato dagli eventi; se fosse stata falsa, Appio non avrebbe saputo addurre alcuna altra causa della sciagura. E in realtà le predizioni infauste, come gli altri auspicii, presagi, segni, non ci dicono le cause per cui qualcosa avverrà, ma ci annunziano che qualcosa di male avverrà se non si correrà ai ripari. 30. La premonizione di Ateio, dunque, non creò la causa della sventura, ma, mostrando il segno infausto, avvertì Crasso di che cosa sarebbe avvenuto se egli non avesse rinunciato ai suoi progetti. Dunque o quell'ammonimento non valeva niente, o, se valeva (e di ciò Appio era persuaso), la colpa doveva essere non di chi aveva ammonito, ma di chi non aveva obbedito.

XVII E quel vostro lituo, che è la più autorevole insegna degli àuguri, da dove vi è stato tramandato? Fu con esso che Romolo tracciò le regioni del cielo quando fondò la città. Questo lituo di Romolo - cioè un bastoncino curvo e leggermente piegato nella parte superiore, che derivò questo suo nome dalla somiglianza col lituo, tromba di guerra - era conservato nella curia dei Salii, sul Palatino, e, quando essa fu distrutta dalle fiamme, fu ritrovato intatto. 31. E ancora: c'è qualche scrittore antico che non racconti come, molti anni dopo Romolo, sotto il regno di Tarquinio Prisco, sia stata fatta da Atto Navio una ripartizione delle regioni celesti mediante il lituo? Costui era un povero ragazzo che portava al pascolo le scrofe. Si dice che, avendone perduta una, fece voto a un dio che, se l'avesse ritrovata, gli avrebbe offerto la più bella uva di una vigna che c'era lì. Trovata la scrofa, dicono, sostò in mezzo alla vigna, rivolto verso sud, e divise la vigna in quattro parti. Tre parti ricevettero dagli uccelli segni sfavorevoli; avendo allora distribuita in regioni la quarta parte restante, trovò (lo tramandano gli scrittori) dell'uva di meravigliosa grandezza. La cosa si seppe: tutto il vicinato si rivolgeva a lui per chieder consigli; egli aveva acquistato grande rinomanza e prestigio. 32. Avvenne quindi che il re Tarquinio Prisco lo mandasse a chiamare. Desideroso di mettere alla prova le sue doti di àugure, il re gli disse che stava pensando ad un progetto: gli chiese se questo si poteva realizzare. Atto, dopo avere compiuto il rito augurale, gli rispose che era possibile. Tarquinio allora disse che aveva pensato alla possibilità di tagliare una cote con un rasoio, e ordinò ad Atto di provare a far ciò. Ed ecco che una pietra, portata nel comizio, alla presenza del re e del popolo fu spaccata con un rasoio. In seguito a ciò Tarquinio assunse Atto Navio come àugure, e il popolo andava a chiedergli consiglio per il da farsi. 33. Quanto a quella pietra e al rasoio, furono deposti in una fossa scavata nel comizio, e tutt'intorno fu innalzato un parapetto: così si narra. Neghiamo pure tutto ciò, bruciamo gli annali, diciamo che son tutte finzioni, dichiariamo che tutto è possibile tranne che gli dèi si curino delle cose umane. Ma ciò che tu stesso hai scritto su Tiberio Gracco non conferma la dottrina degli àuguri e degli arùspici? Egli per sbadataggine aveva collocato la tenda augurale violando le leggi divine, perché aveva attraversato il pomerio senza prendere gli auspicii; e presiedette i comizi per eleggere i nuovi consoli. Che cosa accadde allora, è noto, e tu stesso lo hai tramandato nella tua opera. Ma Tiberio Gracco, àugure egli stesso, avvalorò l'autorità degli auspicii confessando il proprio errore, e ne risultò molto accresciuto il prestigio della dottrina degli arùspici, i quali, fatti venire in senato poco dopo che si erano iniziati i comizi, dichiararono che colui che aveva presieduto i comizi non aveva agito secondo le regole.

XVIII 34. Io sono dunque d'accordo con quelli che hanno sostenuto l'esistenza di due generi di divinazione, l'uno partecipe dell'arte, l'altro estraneo all'arte. Applicano le regole dell'arte coloro che interpretano per congettura i fatti nuovi, conoscono quelli vecchi per le osservazioni fatte in passato. Sono invece totalmente privi d'arte coloro che presagiscono il futuro non con ragionamenti e congetture, in base ai segni osservati e registrati, ma in seguito a non so quale eccitazione psichica, per un moto dell'animo libero e sciolto dal raziocinio: ciò accade spesso in sogno, talvolta a quelli che gridano profezie in stato di esaltazione, come Bacide in Beozia, come Epimenide a Creta, come la Sibilla eritrea. Di questo genere sono da considerare anche i responsi degli oracoli, non quelli che vengono dati mediante sorti "pareggiate", ma quelli che vengono pronunciati per ispirazione e afflato divino. Tuttavia nemmeno le sorti sono da disprezzare, se sono anche autorevoli per la loro antichità, come quelle che, a quanto ci assicurano, sono state estratte dal terreno; se poi, tratte a caso, accade che formino un discorso di senso compiuto, credo che ciò possa attribuirsi a intervento divino. Gli interpreti di tali sorti, così come i filologi sono interpreti dei poeti, sembrano, più di tutti, vicini alla natura di quegli dèi che essi interpretano. 35. Che cattiveria è questa, dunque, di volere invalidare con cavilli cose che attingono forza dalla loro antichità? "Non trovo una causa di questi fatti," ripetono. Probabilmente la causa è latente, sepolta nell'oscurità della Natura: infatti la divinità non ha voluto che io sapessi queste cose, ma soltanto che me ne servissi. Dunque me ne servirò, e non mi lascerò indurre a credere che, quanto ai presagi delle viscere, l'Etruria tutta sragioni, né che quel popolo si sbagli riguardo ai fulmini, né che interpreti erroneamente i prodigi, poiché tante volte i rumori e i boati sotterranei e i terremoti hanno predetto al nostro Stato e alle altre genti molti fatti gravi e veri. 36. E ancora: questo famoso parto di una muta, che viene deriso, non è stato dichiarato dagli arùspici eccezionale parto di sventure, proprio perché in un organo genitale sterile si era formato un feto? E Tiberio Gracco figlio di Publio, che fu due volte console e censore e àugure di grande autorità e uomo saggio e cittadino esemplare, non chiamò forse gli arùspici perché aveva trovato in casa sua una coppia di serpenti? Ce ne ha lasciato notizia scritta suo figlio Gaio Gracco. Gli arùspici risposero che, se avesse lasciato andar via il serpente maschio, entro breve tempo sarebbe morta sua moglie; se la femmina, sarebbe morto lui, Considerò più giusto morire lui, già arrivato vicino al termine della vita, piuttosto che sua moglie, figlia ancor giovane di Publio Scipione Africano: lasciò andar via il serpente femmina, e infatti pochi giorni dopo morì.

XIX Deridiamo pure gli arùspici, chiamiamoli imbroglioni e sciocchi, calpestiamo la loro dottrina che pur fu dimostrata vera da un uomo di somma sapienza e da ciò che in effetti gli accadde. Condanniamo anche i Babilonesi e coloro che, osservando gli astri dall'alto del Caucaso, coi loro calcoli indagano i movimenti delle stelle. Condanniamo, dico, per stoltezza o leggerezza o malafede, questi che, per loro stessa dichiarazione, conservano le registrazioni scritte riguardanti 470.000 anni, e sentenziamo che mentiscono e non temono il giudizio che su di loro pronunceranno i secoli futuri. 37. Ma, si dirà, i barbari sono infidi e mentitori. È intessuta di menzogne anche la storia dei greci? Chi non sa - parlo della divinazione naturale - i responsi dati da Apollo delfico a Creso, e poi ancora agli Ateniesi, agli Spartani, ai Tegeati, agli Argivi, ai Corinzi? Crisippo raccolse innumerevoli oracoli, ciascuno con copiose testimonianze e documenti. Poiché li conosci, non sto a enumerarli. Questa cosa sola voglio affermare: l'oracolo di Delfi non sarebbe mai stato così frequentato e così famoso, né arricchito di così splendidi doni di tutti i popoli e i re, se in ogni tempo non si fosse sperimentata la veridicità dei suoi responsi. 38. "Ma," dicono, "già da tempo non si comporta più così." Ebbene, come adesso gode minore fama perché la verità delle sue profezie è meno importante, così allora non avrebbe raggiunto una fama così grande se non in virtù della sua eccezionale veridicità. Può darsi, del resto, che quel potere proveniente dalla terra, che investiva di afflato divino la mente della sacerdotessa, si sia affievolito col passare del tempo, allo stesso modo in cui vediamo che certi fiumi sono svaporati e si sono inariditi, o hanno cambiato direzione e si sono avviati per un itinerario diverso dal precedente. Scegli pure l'ipotesi che preferisci (poiché si tratta di una questione molto incerta), a condizione che rimanga fermo ciò che non può esser negato se non vogliamo sovvertire tutta la storia: per molti secoli quell'oracolo fu verace.

XX 39. Ma lasciamo da parte gli oracoli, veniamo ai sogni. Nel trattare di essi Crisippo, classificando molti sogni anche di scarsa importanza, segue lo stesso sistema a cui si è attenuto poi Antipatro, cioè indaga quelli che, spiegati mediante l'interpretazione di Antifonte, rivelano, con certezza, l'acume dell'Interprete; ma meglio sarebbe stato ricorrere ad esempi di maggior peso. La madre di Dionisio, di quello che fu tiranno di Siracusa, a quanto si legge in Filisto, uomo dotto e accurato e vissuto in quegli stessi tempi, mentre era appunto incinta di Dionisio sognò di aver partorito un piccolo satiro. Gli interpreti dei prodigi, che allora in Sicilia si chiamavano Galeoti, le dissero (ce lo testimonia ancora Filisto) che il figlio che essa stava per dare alla luce sarebbe stato l'uomo più famoso della Grecia e avrebbe avuto una fortuna costante 40. Vuoi che ti rammenti le leggende narrate dai poeti nostri o dai greci? Anche in Ennio quella famosa vestale narra:

"E appena la vecchia, frettolosa, ebbe portato una lucerna con mani tremanti, essa così dice piangendo, svegliatasi spaurita dal sonno: 'O figlia di Euridice, che nostro padre amò, io sento tutto il mio corpo privo di forza e di spirito vitale. Mi pareva, in sogno, che un uomo bello mi rapisse portandomi per ameni filari di salici e per rive e per luoghi mai visti. E così, poi, sola mi sembrava di vagare, sorella mia cara, e di avanzare a passi incerti e di cercare te, ma di non poter raggiungerti nella mia mente: nessun sentiero guidava sicuro il mio piede. 41. Poco dopo, ecco, mi sembra che il padre mi rivolga queste parole: - O figlia, dapprima dovrai sopportare affanni, poi la tua fortuna riemergerà da un fiume -. Come ebbe detto ciò, sorella mia, il padre ad un tratto scomparve, né si mostrò al mio sguardo benché nel mio cuore lo desiderassi: a nulla valse che più volte io tendessi le mani all'azzurra volta del cielo e lo invocassi con tenere parole. Or ora il sonno mi ha abbandonato lasciando il mio cuore afflitto.'"

XXI 42. Anche se tutto ciò è invenzione poetica, non si discosta da tanti altri tipi di sogni realmente accaduti. Ammettiamo pure che sia inventato quel sogno dal quale Priamo rimase turbato, perché

"la madre, Ecuba, mentre era incinta, sognò che partoriva una fiaccola ardente. In seguito a ciò il padre, il re Priamo in persona, preso da timore in cuor suo per questo sogno, afflitto da ansie che si effondevano in sospiri, compiva sacrifici di vittime belanti. Quindi, implorando pace, chiede un responso, scongiura Apollo di fargli sapere a che cosa accennino presagi di sogni così gravi. Allora con voce divina Apollo rispose dall'oracolo: il bambino che per primo nascesse tra breve a Priamo, si guardasse bene dall'allevarlo: sarebbe stato rovina a Troia, sciagura a Pergamo."

43. Ammettiamo pure, ripeto, che queste siano leggende immaginarie, e ad esse aggiungiamo anche il sogno di Enea, che, come ben sai, negli Annali scritti in greco da Fabio Pittore è narrato in modo che tutto ciò che fu poi compiuto da Enea e che gli accadde corrisponda esattamente alle cose a lui apparse mentre era immerso nel sonno.

XXII Ma vediamo eventi meno remoti. Che dire del sogno di Tarquinio il Superbo, che egli stesso narra nel Bruto di Accio?

44. "Dopo che, al cadere della notte, ebbi abbandonato il corpo al sonno, rilasciando nel sopore le membra stanche, mi apparve in sogno un pastore che spingeva verso di me un gregge lanoso di straordinaria bellezza; mi pareva che da quel gregge venissero scelti due arieti consanguinei e che io immolassi il più imponente dei due; poi il fratello dell'ucciso puntava le corna, si avventava per colpirmi e con quell'urto mi abbatteva. Io allora, prostrato a terra, gravemente ferito, alzavo supino gli occhi al cielo e vedevo un fatto immenso e straordinario: il disco fiammeggiante del sole, effondendo i suoi raggi, si dileguava verso destra invertendo il suo cammino nel cielo."

45. Ebbene, vediamo quale fu l'interpretazione di quel sogno da parte degl'indovini:

"O re, le cose che nella vita gli uomini sogliono fare, le cose che pensano, curano, vedono, e che da svegli compiono e alle quali s'affaccendano, non c'è da meravigliarsi se accadono a qualcuno in sogno; ma in una circostanza così straordinaria non senza motivo le visioni si presentano. Sta dunque attento, che colui che tu stimi sciocco al pari di una bestia, non abbia una mente munita di ingegno, al di sopra del gregge, e non ti sbalzi dal trono. Ché quello che ti è apparso riguardo al sole, dimostra che avverrà per il popolo un mutamento assai vicino nel tempo. Possa tutto ciò volgersi in bene per il popolo! Il fatto che l'astro più potente abbia intrapreso il suo corso verso destra da sinistra, è un faustissimo augurio che lo Stato romano sarà eccelso."

XXIII 46. Ebbene, torniamo ora a fatti di paesi stranieri. Eraclìde Pontico, uomo dotto, uditore e allievo di Platone, scrive che alla madre di Falàride sembrò di vedere in sogno le immagini degli dèi che essa stessa aveva consacrato nella sua casa. Una di queste, l'immagine di Mercurio, sembrava versasse del sangue dalla coppa che teneva con la mano destra; appena aveva toccato terra, il sangue ribolliva, sì che tutta la casa era un lago di sangue. Questo sogno della madre fu confermato dall'efferata crudeltà del figlio. C'è bisogno che io citi dai Libri persiani di Dinone la profezia che i maghi rivelarono a Ciro, quel famoso antico re? Scrive Dinone che, in sogno, parve a Ciro che il sole gli si posasse ai piedi; tre volte Ciro cercò di toccarlo con le mani, ma invano: il sole, girando su se stesso, gli sfuggiva e si allontanava. I maghi - venerati in Persia come una stirpe di sapienti e di dotti - da questo triplice tentativo di afferrare il sole trassero la profezia che Ciro avrebbe regnato per trent'anni. E così avvenne: giunse fino all'età di settant'anni, e il suo regno incominciò quando ne aveva quaranta. 47. C'è senza dubbio anche nei popoli barbari una capacità di presentimento e di divinazione. L'indiano Callano, recandosi alla morte, nell'atto di salire sul rogo ardente, esclamò: "Oh, splendida separazione dalla vita! Come accadde a Ercole, dopo che sarà incenerito questo corpo mortale, la mia anima ascenderà al regno della luce." E siccome Alessandro gli chiese di dire se desiderava qualcosa prima di morire, egli rispose: "Grazie: fra poco ti rivedrò." E così avvenne: pochi giorni dopo Alessandro morì a Babilonia. Mi sto allontanando per un poco dai sogni, ai quali presto ritornerò. Si sa che, nella stessa notte in cui fu distrutto dalle fiamme il tempio di Diana Efesia, Olimpiade diede alla luce Alessandro, e appena si fece giorno i maghi si misero a gridare che nella notte allora trascorsa era nata la rovina, la sciagura per l'Asia.

XXIV 48. Basti ciò quanto agli indiani e ai maghi; ritorniamo ai sogni. Celio Antipatro scrive che Annibale, desideroso di portar via una colonna d'oro che si trovava nel tempio di Giunone Lacinia, ma dubbioso se fosse d'oro massiccio o soltanto dorata all'esterno, la fece trapanare e, accertatosi che era tutta d'oro, decise di asportarla. Durante il sonno gli apparve Giunone e lo ammonì a non farlo, minacciandolo che, se l'avesse fatto, essa gli avrebbe fatto perdere anche l'unico occhio con cui vedeva bene. Quell'uomo sagace non trascurò l'ammonimento e, con quella parte d'oro che era stata tolta nella trapanazione, fece fare una piccola effigie d'una giovenca e la fece collocare in cima alla colonna. 49. Un altro episodio è riferito nella storia, scritta in greco, di Sileno, da cui lo attinse Celio (Sileno narrò con grande accuratezza le imprese di Annibale). Dopo la presa di Sagunto, Annibale sognò che era chiamato da Giove nel concilio degli dèi. Giunto là, si sentì ordinare da Giove di portar guerra all'Italia, e gli venne dato come guida un dio del concilio. Seguendo le indicazioni di costui, incominciò a mettersi in marcia con l'esercito. Quel dio, allora, gli ordinò di non voltarsi a guardare indietro. Ma Annibale non riuscì a resistere a lungo, e, cedendo alla voglia di vedere, si voltò. Vide una belva enorme e orrenda, cinta da serpenti, la quale, dove passava, abbatteva ogni albero, ogni virgulto, ogni casa. Annibale, stupefatto, chiese al dio che lo guidava che significava un mostro di quella sorta; e il dio rispose che quella era la devastazione dell'Italia e gli ordinò di continuare il cammino, senza curarsi di ciò che avveniva dietro, alle sue spalle. 50. Nella Storia di Agatocle si legge che ad Amilcare cartaginese, mentre assediava Siracusa, parve di udire una voce che gli diceva: "Domani cenerai a Siracusa." Appena spuntata l'alba del giorno dopo, nel suo accampamento sorse una grande rissa fra i soldati cartaginesi e quelli siculi. I siracusani se ne accorsero, fecero un'irruzione improvvisa nell'accampamento e presero vivo Amilcare: così i fatti confermarono la verità del sogno. Di esempi analoghi è piena la storia, è addirittura ricolma la vita quotidiana. 51. Esempio più illustre che mai, Publio Decio figlio di Quinto, il primo della famiglia dei Decii che fu eletto console, quando era tribuno militare sotto i consoli Marco Valerio e Aulo Cornelio e il nostro esercito era incalzato dai Sanniti, poiché affrontava con eccessiva temerità i pericoli del combattimento e lo ammonivano a esser più prudente, disse - lo narrano le storie - che in sogno gli era parso di affrontare una morte gloriosissima nel folto della mischia. E quella volta rimase incolume e liberò l'esercito dalla morsa dei Sanniti; ma tre anni dopo, quando fu console, offrì se stesso in sacrificio agli dèi e, indossate le armi, si lanciò contro l'esercito dei Latini. Grazie al suo impeto, i Latini furono sconfitti e annientati; e la sua morte fu così gloriosa, che suo figlio volle incontrarne una uguale.

XXV 52. Ma, se sei d'accordo, passiamo ai sogni dei filosofi. Si legge in Platone che Socrate, trovandosi in carcere, disse al suo amico Critone che gli sarebbe toccato di morire tre giorni dopo: aveva visto in sogno una donna bellissima che, chiamatolo per nome, gli aveva detto un verso press'a poco così, simile a uno di Omero: "Il terzo giorno di bel tempo ti farà giungere a Ftia." E si trova scritto che ciò accadde proprio come era stato detto. Senofonte, discepolo di Socrate (che uomo e di quanto valore!), nel racconto dell'impresa militare che compì sotto Ciro il Giovane, riferisce i suoi sogni, che mirabilmente si avverarono. 53. Diremo che Senofonte dice il falso o è fuori di senno? E Aristotele, uomo d'ingegno eccezionale e direi quasi divino, s'inganna o vuole ingannare gli altri quando narra l'episodio che ora riferirò? Eudemo di Cipro, suo intimo amico, durante un viaggio verso la Macedonia, arrivò a Fere, città della Tessaglia, assai rinomata a quei tempi, ma oppressa dalla feroce tirannide di Alessandro. In quella città, dunque, Eudemo si ammalò così gravemente, che tutti i medici disperarono della sua salvezza. Gli apparve in sogno un giovane di bellissimo aspetto, e gli disse che di lì a poco sarebbe guarito, che entro alcuni giorni il tiranno Alessandro sarebbe morto, e lui, Eudemo, sarebbe ritornato in patria dopo cinque anni. Scrive Aristotele che i primi eventi accaddero subito: Eudemo guarì, il tiranno fu ucciso dai fratelli di sua moglie. Verso la fine del quinto anno, poi, quando quel sogno dava a Eudemo la speranza che dalla Sicilia sarebbe ritornato a Cipro, egli cadde in combattimento sotto le mura di Siracusa. Il sogno, quindi, fu interpretato nel senso che l'anima di Eudemo, liberatasi dal corpo, era ritornata alla sua vera patria. 54. Ai filosofi aggiungiamo un uomo dottissimo, Sofocle, poeta davvero divino. Era stata sottratta dal tempio di Ercole una coppa d'oro massiccio. Sofocle, in sogno, vide proprio Ercole che gli disse chi aveva commesso il furto. Una prima e una seconda volta non si curò del sogno. Ma poiché la stessa apparizione si ripeteva, salì all'Areòpago e denunciò il fatto. Gli Areopagiti ordinarono che fosse arrestato quel tale di cui Sofocle aveva fatto il nome; costui, sottoposto a interrogatorio, confessò e restituì la coppa. In seguito a ciò quel tempio fu chiamato il tempio di Ercole Rivelatore.

XXVI 55. Ma a che scopo dilungarsi sui Greci? Non so perché, mi piacciono di più le cose nostre. Questo episodio lo raccontano tutti gli storici, come Fabio, come Gellio, ma per ultimo Celio. Durante la guerra latina, mentre avvenivano per la prima volta i ludi votivi massimi, improvvisamente tutti i cittadini furono chiamati alle armi; perciò, essendo stati interrotti quei ludi, furono celebrati i "ludi sostitutivi". Prima che essi incominciassero, quando già gli spettatori si erano seduti, uno schiavo fu trascinato per tutto il circo, costretto a portar la forca, mentre intanto lo si percuoteva con le verghe, Poco dopo un Romano della campagna vide in sogno presentarglisi un tale che gli disse che nei ludi il capo dei danzatori sacri non gli era stato ben accetto, e gli ordinava di far noto ciò al Senato. Quel tale non osò obbedire al sogno. Una seconda volta egli ricevette in sogno quest'ordine e fu ammonito a non sfidare la potenza di colui che gli appariva; ma nemmeno allora osò obbedire. Dopo di ciò suo figlio morì, e in sogno per la terza volta si ripeté quell'ammonizione. Allora egli, già fiaccato, riferì il fatto agli amici, e per loro consiglio fu portato in lettiga nella Curia; e dopo che ebbe raccontato ai senatori il sogno, poté tornarsene a casa a piedi sano e salvo. Accertata la veridicità del sogno, il senato indisse nuovamente quei ludi: così si narra. 56. Un altro esempio: Gaio Gracco raccontò a molti - lo riferisce il medesimo Celio - che nel periodo in cui aspirava alla questura gli apparve in sogno il fratello Tiberio e gli disse che indugiasse pure quanto voleva, ma sarebbe morto della stessa morte che era toccata a lui. Celio scrive che, prima che Gaio Gracco fosse eletto tribuno della plebe, egli aveva sentito dire ciò da lui stesso, e che lo aveva detto a molti altri. Che sogno si può citare più veritiero di questo?

XXVII Chi, poi, può negar fede a quei due sogni che sono tante volte citati dagli Stoici? Il primo riguarda Simonide: egli vide il cadavere di uno sconosciuto abbandonato a terra, lo seppellì, e si proponeva poi d'imbarcarsi; quel tale a cui egli aveva dato sepoltura gli apparve in sogno e lo dissuase dal suo proposito: se si fosse imbarcato, sarebbe perito in un naufragio. Simonide allora tornò indietro, gli altri che si erano imbarcati perirono. 57. L'altro sogno, famosissimo, è il seguente: due Arcadi, amici intimi, viaggiavano insieme e arrivarono a Mègara. Uno dei due prese alloggio in casa d'un taverniere, l'altro presso un suo ospite. Cenarono e andarono a dormire. A notte già inoltrata quello dei due che dormiva presso l'ospite vide in sogno l'altro che lo pregava di recargli soccorso, perché il taverniere si apprestava a ucciderlo. In un primo momento egli balzò su, atterrito dal sogno; poi, riavutosi dallo spavento, pensò che a quell'apparizione non si dovesse dar peso, e tornò a letto. Di nuovo, allora, gli apparve in sogno l'amico, e lo pregò che, non avendogli recato aiuto quando era ancora vivo, almeno non lasciasse invendicata la sua morte; il suo cadavere era stato buttato dal taverniere su un carro, e vi era stato sparso sopra del letame; gli chiedeva di trovarsi alla porta della città all'alba, prima che il carro uscisse verso la campagna. Emozionato da questo sogno, egli si recò di buon mattino alla porta, fermò il carrettiere, gli domandò che cosa c'era nel carro. Quello, atterrito, scappò via; il morto fu tratto fuori; il taverniere, venuto in luce il suo delitto, fu condannato a morte. Quale sogno si può considerare più profetico di questo?

XXVIII 58. Ma a che scopo continuare con altri esempi, per di più esempi antichi? Spesso io ti ho raccontato un mio sogno, spesso me ne hai raccontato uno tuo. Io, quando ero, come proconsole, governatore della provincia d'Asia, vidi in sogno te che andavi a cavallo verso la riva di un gran fiume; tu ti lanciavi d'un tratto e, scivolato giù nel fiume, non ricomparivi più, mentre io, atterrito, ero preso da paura. Poi, all'improvviso, tu riemergevi con aspetto lieto e, su quello stesso cavallo, risalivi l'altra sponda del fiume, e noi ci abbracciavamo. Era facile l'interpretazione di questo sogno, e in Asia gli esperti mi predissero ciò che poi in effetti accadde. 59. Ed eccomi al tuo sogno: l'ho udito da te direttamente, ma ancor più spesso me l'ha racontato il nostro Sallustio. Quando, in quell'esilio glorioso per noi, rovinoso per la patria, tu ti trovavi in una casa di campagna del territorio di Atina e per gran parte della notte eri rimasto sveglio, verso l'alba, finalmente, ti abbandonasti ad un sonno greve e profondo. E sebbene il tempo stringesse, tuttavia Sallustio ordinò che si facesse silenzio e non permise che ti svegliassero. Quando poi ti svegliasti verso le otto del mattino, gli narrasti un sogno: ti era sembrato che, mentre vagavi mestamente in un luogo deserto, Gaio Mario, coi fasci ornati di alloro, ti domandasse perché eri addolorato; e avendogli detto che eri stato con la violenza cacciato via dalla patria, egli ti strinse la mano, ti esortò a star di buon animo, ordinò al littore più vicino a lui di condurti al tempio da lui fatto costruire e ti disse che in quello avresti trovato la salvezza. Sallustio narra di avere allora esclamato che il destino ti riserbava un ritorno prossimo e glorioso, mentre tu stesso apparivi rasserenato da quel sogno. Anche a me fu ben presto riferito che tu, quando apprendesti che nel tempio edificato da Mario era stata presa quella splendida decisione del senato sul tuo richiamo dall'esilio su proposta del console di allora, uomo eccellente e ragguardevolissimo, e che il decreto era stato accolto con incredibili grida di gioia e applausi dal popolo assiepato nel teatro, dicesti che nulla sarebbe potuto accadere di più presàgo di quel sogno che avevi avuto presso Atina.

XXIX 60. "Ma molti sogni sono fallaci." Piuttosto, forse, sono per noi di difficile comprensione. Ma ammettiamo che ve ne siano di fallaci: contro quelli veri che cosa diremo? E risulterebbero veri molto più spesso se ci disponessimo al sonno in perfette condizioni. Ora, ripieni di cibo e di vino, vediamo in sogno cose alterate e confuse. Rammenta le parole di Socrate nella Repubblica di Platone. Egli dice: "Poiché nel sonno quella parte dell'anima che appartiene alla sfera razionale è assopita e debole, quella invece in cui risiede un istinto ferino e una rozza violenza è abbrutita dal bere e dal cibo eccessivo, questa si sfrena e si esalta smoderatamente mentre dormiamo. Ad essa, perciò, si presentano visioni d'ogni genere, prive di senso e di ragionevolezza: si ha l'impressione di unirsi carnalmente con la propria madre o con qualsiasi altro essere umano o divino, spesso con una bestia; di trucidare addirittura qualcuno e di macchiarsi empiamente le mani di sangue; di fare molte altre cose impure e orrende, senza ritegno né pudore. 61. Ma chi, conducendo una vita e una dieta salubre e moderata, si lascia andare al sonno quando quella parte dell'anima che partecipa della ragione è attiva e vigorosa e saziata dal cibo dei buoni pensieri, e l'altra parte dell'anima che è alimentata dai piaceri non è né sfinita dalla fame né gravata da troppa sazietà (l'una e l'altra di queste due condizioni, o che l'organismo sia privo di qualcosa o che ne sovrabbondi, suole offuscare l'acutezza della mente), e infine anche la terza parte dell'anima, nella quale risiede l'ardore delle passioni, è calma e docile, - allora accadrà che, essendo tenute a freno le due parti intemperanti dell'anima, la terza parte, quella del senno e della ragionevolezza, brilli e si disponga a sognare piena di vigore e di acume: quel tale, allora, avrà nel sonno apparizioni tranquille e veritiere." Ho tradotto proprio le parole di Platone.

XXX 62. Daremo retta, dunque, piuttosto a Epicuro? Ché Carneade, per il gusto di polemizzare con tutti, dice ora una cosa, ora l'altra. Epicuro no, dice quel che pensa; ma non pensa mai niente di bello, niente di onorevole. Costui, dunque, lo anteporrai a Platone e a Socrate? I quali, anche se non dimostrassero appieno le loro dottrine, egualmente supererebbero per autorità quei filosofastri. Platone, dunque, prescrive che ci si abbandoni al sonno col corpo in condizioni tali da non arrecare nessun motivo di errore o di turbamento all'anima. Per la stessa ragione si ritiene che anche ai pitagorici fosse vietato di mangiar fave, poiché questo cibo produce una grande flatulenza, dannosa alla tranquillità della mente che ricerca la verità. 63. Quando, dunque, nel sonno l'anima è sottratta all'unione col corpo e al contagio che ne deriva, allora si ricorda del passato, scorge il presente, prevede il futuro: ché il corpo del dormiente giace come quello d'un morto, mentre l'anima è desta e viva. E in questa condizione si troverà tanto più dopo la morte, quando sarà del tutto uscita dal corpo. Perciò, all'approssimarsi della morte, è molto più dotata di capacità profetica. Quelli che sono affetti da malattia grave e mortale questo anzitutto prevedono, l'imminenza della loro morte. Ad essi di solito appaiono le immagini dei morti, e in quei momenti più che mai desiderano di meritarsi lode, e se sono vissuti in modo sconveniente, allora soprattutto si pentono. 64. Che i morenti abbiano capacità divinatoria lo dimostra anche Posidonio adducendo quel famoso caso: uno di Rodi, in punto di morte, fece i nomi di sei coetanei e disse quale di essi sarebbe morto per primo, quale per secondo, e così di seguito tutti gli altri. In tre modi, del resto, Posidonio ritiene che gli uomini sognino per impulso divino: nel primo, perché l'anima prevede da sé, essendo unita da parentela con gli dèi; nel secondo, perché l'aria è piena di anime immortali, nelle quali i segni della verità appaiono, per così dire, chiaramente impressi; nel terzo, perché gli dèi stessi parlano coi dormienti. E che le anime predicano il futuro avviene più facilmente all'appressarsi della morte, come ho detto or ora. 65. Si comprende così quell'episodio di Callano, a cui ho accennato prima, e quello dell'Ettore omerico, che, morente, predice ad Achille la morte vicina.

XXXI Né l'uso avrebbe consacrato a caso quella parola "presagire", se a essa non corrispondesse proprio alcuna realtà: "Me lo presagiva il cuore, uscendo di casa, che sarei venuto inutilmente." Sagire, difatti, significa aver buon fiuto; donde si chiamano sagae le vecchie fattucchiere, perché pretendono di saper molto, e "sagaci" son detti i cani. Perciò chi ha la sensazione (sagit) di qualcosa prima che accada, si dice che "presagisce", ossia sente in anticipo il futuro. 66. C'è dunque nelle anime una capacità di presagire infusa dall'esterno e penetrata per opera della divinità. Se questa capacità s'infiamma con più veemenza, si chiama "follìa profetica", quando l'anima svincolatasi dal corpo è eccitata da un impulso divino:

(Ecuba) "Ma come mai, d'un tratto, sei apparsa in preda al furore, con gli occhi fiammeggianti? Dov'è più quella saggia, virginale modestia di poco prima?" -

(Cassandra): "Madre mia, di gran lunga la migliore donna delle nobili donne troiane, io sono assalita da deliri profetici, e Apollo mi istiga a dire, folle, contro la mia volontà, il futuro. Mi vergogno dinanzi alle fanciulle mie coetanee; ho rossore di ciò che faccio perché disonoro mio padre, uomo eccelso; di te, madre mia, ho compassione; di me stessa mi dolgo. Tu hai partorito a Priamo figli eccellenti, tranne me: è questo che mi addolora: che io sia di danno, essi di aiuto, io riottosa, essi obbedienti!"

Oh, brano di poesia dolce, espressivo, delicato! 67. Ma esso non riguarda da vicino il nostro argomento; quello che c'interessa il poeta l'ha espresso in quest'altro passo: come la follìa, di solito, predìca il vero:

"Eccola, eccola la torcia avvolta nel sangue e nelle fiamme! Per molti anni rimase occulta. Cittadini, recate soccorso e spegnetela!" Non è più Cassandra che parla, ma il dio che è penetrato in un corpo umano. "E già nel vasto mare una flotta veloce vien costruita; essa trascina uno sciame di sciagure; arriverà, feroce, un esercito su navi volanti con le vele, riempirà le nostre spiagge."

XXXII 68. Può sembrare che io spacci per verità finzioni sceniche. Ma proprio da te ho udito un fatto dello stesso genere, non inventato ma effettivamente avvenuto. Gaio Coponio, uomo eminente per saggezza e cultura, nel tempo in cui comandava la flotta di Rodi con la carica di pretore, venne da te a Durazzo e ti disse che un rematore di una quinquireme dei Rodiesi aveva vaticinato che entro meno di trenta giorni la Grecia sarebbe stata immersa in un bagno di sangue, sarebbero avvenute rapine a Durazzo, molti marinai avrebbero dovuto imbarcarsi e fuggire per mare e, nell'allontanarsi, si sarebbero volti a guardare il tristissimo spettacolo degli incendi; soltanto alla flotta rodia sarebbe stato concesso un prossimo ritorno e rimpatrio. Neppure tu sfuggisti ad un grave turbamento, e Marco Varrone e Marco Catone, uomini dotti, che si trovavano lì anch'essi, rimasero gravemente atterriti. Pochissimi giorni dopo arrivò Labieno fuggiasco da Farsàlo, e dopo che ebbe recato l'annunzio della disfatta dell'esercito, in breve tempo si avverarono le altre cose che erano state vaticinate. 69. Il grano sottratto ai depositi e sparso qua e là aveva ricoperto tutte le strade e i vicoli, e voi, atterriti, vi imbarcaste senza indugio, e nella notte, guardando verso la città, vedevate le navi da carico in preda alle fiamme, incendiate dai soldati perché non avevano voluto seguirvi. Quando, infine, foste abbandonati dalla flotta rodia, vi accorgeste che l'indovino aveva detto il vero. 70. Ho esposto il più brevemente che ho potuto le predizioni del sogno e dell'eccitazione divina, che, come avevo detto, sono estranee all'"arte". Di entrambi questi tipi di divinazione unica è la motivazione, alla quale suole richiamarsi il nostro Cratippo: le anime umane derivano e sono tratte in parte dall'esterno - e da ciò si comprende come vi sia al di fuori di noi un'anima divina, dalla quale è derivata l'umana -; ma quella parte dell'anima umana che consiste in sensazione, in movimento, in desiderio non è separata dall'influsso del corpo; quella, invece, che è partecipe della razionalità e dell'intelligenza è più che mai piena di vitalità quando è distanziata il più possibile dal corpo. 71. Pertanto, dopo avere citato esempi di vaticinii e sogni veridici, Cratippo suole argomentare in questo modo:

"Se senza occhi non può svolgersi la funzione e il còmpito degli occhi, e tuttavia può accadere talvolta che gli occhi non adempiano bene al loro còmpito, chi anche una volta sola ha usato gli occhi in modo da scorgere le cose come sono in realtà, possiede il senso della vista capace di percepire la realtà. Allo stesso modo, dunque, se, non esistendo la divinazione, non può svolgersi né la funzione né il còmpito della divinazione stessa, e tuttavia può accadere talvolta che qualcuno, pur dotato di capacità divinatorie, erri e non veda la realtà, è sufficiente a dimostrare l'esistenza della divinazione che anche una volta sola un fatto sia stato divinato in circostanze tali da non sembrare che ciò possa in alcun modo attribuirsi al caso. Ma ci sono esempi innumerevoli di questo genere: bisogna dunque ammettere che la divinazione esiste."

XXXIII 72. Quanto a quei segni profetici che vengono spiegati mediante interpretazione oppure risultano osservati e registrati in coincidenza con ciò che accade in séguito, essi, come ho detto sopra, vengono chiamati non naturali ma artificiali; in questo campo rientrano gli arùspici, gli àuguri, gli altri interpreti. Questi generi di divinazione sono negati dai peripatetici, difesi dagli stoici. Alcuni sono basati sui documenti e sulla dottrina, qual è esposta nei libri aruspicini, fulgorali e rituali degli etruschi, nonché nei vostri libri augurali; altri invece vengono spiegati dagli indovini sull'istante, per interpretazione immediata, come in Omero Calcante, che dal numero dei passeri aveva predetto il numero degli anni della guerra di Troia, o come leggiamo nelle Memorie di Silla - e tu stesso fosti presente al fatto - : mentre egli nel territorio di Nola compiva un sacrificio dinanzi al pretorio, dal di sotto dell'altare sbucò all'improvviso un serpente, e allora l'arùspice Gaio Postumio lo esortò a muovere all'offensiva con l'esercito. Silla gli diede ascolto, e dinanzi alla città di Nola espugnò l'accampamento dei Sanniti, ben fornito di armi e vettovaglie. 73. Anche a proposito di Dionisio fu fatta una profezia poco prima che salisse al trono. Viaggiava per il territorio di Lentini e fece scendere in un fiume il suo cavallo; travolto dai gorghi, questo sprofondò nelle acque. Dionisio, dopo lunghi e vani sforzi di farlo venir su, si allontanò amareggiato, come narra Filisto. Ma dopo aver camminato per un poco, a un tratto udì un nitrito e si allietò vedendo il cavallo vivo e fremente, sulla cui criniera si era posato uno sciame d'api. La conseguenza di questo prodigio fu che Dionisio divenne tiranno di Siracusa appena pochi giorni dopo.

XXXIV 74. E ancora: quale presagio toccò agli Spartani poco prima della battaglia di Leuttra, quando nel tempio di Ercole le armi risonarono e la statua di Ercole si coprì tutta di sudore! E contemporaneamente, come narra Callistene, a Tebe nel tempio di Ercole i battenti delle porte, chiusi da sbarre, si aprirono da sole all'improvviso, e le armi che erano appese alle pareti furono trovate sul pavimento. E ancora nel medesimo tempo, mentre presso Lebadìa si svolgeva un rito in onore di Trofonio, i galli in tutta quella contrada incominciano a cantare così insistentemente da non smetterla più. Gli àuguri della Beozia dissero allora che la vittoria sarebbe spettata ai Tebani, perché i galli sogliono tacere quando son vinti, cantare quando hanno vinto. 75. Frattanto gli Spartani ricevevano molti preannunci del disastro nella battaglia di Leuttra. C'era a Delfi una statua di Lisandro, il più famoso degli Spartani; sulla testa della statua comparve all'improvviso una corona di erbe spinose e selvatiche; e le stelle d'oro che erano state poste a Delfi dagli Spartani dopo la famosa vittoria navale riportata da Lisandro, che segnò la rovina degli Ateniesi, giacché si diceva che in quella battaglia Càstore e Pollùce erano apparsi dalla parte della flotta spartana, - le stelle d'oro che ho detto, dunque, poste a Delfi come insegne di quegli dèi, caddero giù poco prima della battaglia di Leuttra e non si ritrovarono più. 76. Ma il prodigio più grave, ancora a danno degli Spartani, fu quest'altro: quando chiesero un responso a Giove dodonèo per sapere se avrebbero vinto, e i messi ebbero collocato al suo posto il recipiente in cui si trovavano le sorti, una scimmia, che il re dei Molossi aveva molto cara, scompigliò e buttò qua e là le sorti e tutti gli altri oggetti che erano stati portati per compiere il sorteggio. Si narra che allora la sacerdotessa preposta all'oracolo disse che gli Spartani avrebbero dovuto pensare alla loro salvezza, non alla vittoria.

XXXV 77. E nella seconda guerra punica Gaio Flaminio, console per la seconda volta, non trascurò i presagi del futuro, con grande sventura della repubblica? Dopo che ebbe compiuto la cerimonia di purificazione dell'esercito, avendo intrapreso la marcia in direzione di Arezzo per condurre le sue legioni contro Annibale, ecco che egli stesso e il suo cavallo caddero all'improvviso senza alcuna ragione dinanzi alla statua di Giove Statore; gli esperti giudicarono che questo segno doveva dissuaderlo dal dare battaglia, ma egli non si fece alcuno scrupolo di ciò. Poi, quando prese gli auspicii mediante il tripudium, fu consigliato dal pullario a rimandare il giorno del combattimento. Flaminio allora gli domandò: "Se nemmeno in seguito i polli avranno voglia di mangiare, che cosa ritieni che si dovrà fare?" Il pullario rispose che si sarebbe dovuto stare ancora fermi. E Flaminio: "Belli davvero questi auspicii! Quando i polli avranno fame si potrà dar battaglia, quando saranno sazi non si potrà far più nulla." Ordinò dunque che si svellessero dal suolo le insegne e lo si seguisse. Il portatore dell'insegna del primo manipolo di astati non riuscì a smuovere l'insegna, nemmeno con l'aiuto di parecchi altri; Flaminio, quando ciò gli fu annunziato, secondo il. suo solito non si curò del prodigio. E così in quelle tre terribili ore l'esercito fu trucidato e Flaminio stesso fu ucciso. 78. È importante anche quello che aggiunge Celio: proprio nel tempo in cui si svolgeva quella disastrosa battaglia, vi furono in Liguria, in Gallia, in parecchie isole e in tutta l'Italia terremoti così forti che molte città furono distrutte, in molte località avvennero frane e sprofondamenti del suolo, i fiumi invertirono il loro corso, il mare penetrò nei corsi d'acqua.

XXXVI Gli esperti sono capaci di prevedere spesso con certezza il futuro. A quel famoso Mida frigio, ancora bambino, delle formiche ammucchiarono in bocca, mentre dormiva, chicchi di grano. Fu predetto che sarebbe divenuto ricchissimo; e la predizione si avverò. Ma a Platone, da piccolo, delle api si posarono sulle labbra mentre dormiva in culla. Gli indovini dettero il responso che egli sarebbe stato dotato di straordinaria dolcezza di eloquio: così la sua eloquenza futura fu prevista quando era ancora un neonato. 79. E Roscio, da te tanto amato e ammirato, mentiva egli stesso o mentiva per lui tutta Lanuvio? Era ancora in culla ed era allevato nel Solonio, che è una località campestre presso Lanuvio. Di notte, la sua nutrice si svegliò (una lampada accanto faceva luce), e vide che il bambino addormentato era avvolto entro le spire di un serpente. Atterrita da quella vista, lanciò un grido. Il padre di Roscio riferì la cosa agli arùspici, i quali risposero che nessuno al mondo sarebbe stato più insigne, più famoso di quel bambino. E questa scena Pasitele la cesellò in argento e il nostro Archia la narrò in poesia. Che cosa aspettiamo, dunque? Che gli dèi immortali s'intrattengano con noi nel fòro, per la strada, in casa? Certo, essi non si presentano a noi direttamente, ma diffondono per lungo e per largo il loro influsso; e ora lo immettono negli antri sotterranei, ora lo infondono in anime umane. La forza della terra ispirava la Pizia a Delfi, la forza della sua stessa indole incitava la Sibilla. E non vediamo dunque quanto varii siano i tipi di terra? Ve ne sono di mortiferi, come Ampsancto in Irpinia e i Plutonia che io ho visto in Asia; vi sono plaghe, alcune pestifere, altre salubri; in alcune nascono uomini di ingegno acuto, in altre ottuso; tutto ciò dipende sia dalla diversità dei climi, sia dalle differenti esalazioni dei terreni. 80. Avviene anche che spesso per qualche apparizione, spesso per voci profonde o canti, l'animo umano subisca una particolare eccitazione; spesso anche per ansia e timore, come quella "con l'animo sconvolto, come invasata o scossa dal furore dei riti bacchici, su per i colli, invocando il suo Teucro".

XXXVII E anche quell'esaltazione dimostra che nell'anima c'è una forza divina. Democrito, in effetti, sostiene che nessuno può essere un grande poeta senza una specie di follìa, e la stessa cosa dice Platone. La chiami pure follia, purché ne venga fatto un elogio come nel "Fedro". D'altronde, i discorsi di voi oratori nei processi, i vostri gesti stessi, possono essere veementi, elevati, eloquenti, se anche l'animo di chi parla non è alquanto commosso? In verità, spesso ho veduto in te, o, per passare a un genere meno solenne, nel tuo amico Esopo un tale ardore di espressioni del volto e di movimento, che si sarebbe detto che una forza misteriosa lo avesse tratto fuori dalla piena consapevolezza di sé. 81. Spesso anche si presentano alla vista delle immagini che non hanno realtà alcuna, ma ne hanno l'apparenza. Ciò, si narra, accadde a Brenno e ai Galli suoi soldati, quando quel re scatenò un'empia guerra contro il tempio di Apollo delfico. Dicono che allora la Pizia parlò solennemente così dall'oracolo: "A questo provvederò io, e con me le bianche vergini." Accadde allora che delle vergini sembrassero avanzarsi armate, e che in realtà l'esercito dei Galli fosse sepolto sotto la neve.

XXXVIII Aristotele riteneva che anche i veri e propri ammalati di pazzia furiosa e i cosiddetti "atrabiliari" avessero nelle loro anime qualcosa di profetico e divinatorio. Ma io non direi che questa qualità vada attribuita ai biliosi e ai frenetici: la divinazione è dote di anime integre, non di corpi ammalati. 82. Che davvero la divinazione esista si dimostra con questa argomentazione degli stoici: "Se gli dèi esistono e non fanno sapere in anticipo agli uomini il futuro, o non amano gli uomini, o ignorano ciò che accadrà, o ritengono che non giovi affatto agli uomini sapere il futuro, o stimano indegno della loro maestà preavvertire gli uomini delle cose che avverranno, o nemmeno gli dèi stessi sono in grado di farle sapere. Ma non è vero che non ci amino (sono, infatti, benèfici e amici del genere umano), né è possibile che ignorino ciò che essi stessi hanno stabilito e predisposto, né si può ammettere che non ci giovi sapere ciò che accadrà (ché, se lo sapremo, saremo più prudenti), né essi ritengono che ciò non si confaccia alla loro maestà (niente è, difatti, più gratificante che fare il bene), né possono essere incapaci di prevedere il futuro. 83. Dunque, dovremmo concludere, gli dèi non esistono e non predìcono il futuro. Ma gli dèi esistono; dunque predìcono. E se dànno indizi, non è ammissibile che ci precludano ogni mezzo di interpretare tali indizi (ché darebbero gli indizi senza alcun frutto), né, se essi ci forniscono quei mezzi d'interpretazione, è possibile che non vi sia la divinazione. Dunque c'è la divinazione."

XXXIX 84. Di questa argomentazione si servono Crisippo, Diogene e Antipatro. Che motivo c'è, dunque, di rimanere incerti sull'assoluta verità di ciò che ho esposto, se dalla mia parte stanno la ragione, l'avverarsi dei presagi, i popoli, le genti, i Greci, i barbari, i nostri stessi antenati, se insomma a queste cose si è sempre creduto, se vi hanno creduto i più grandi filosofi, i poeti, gli uomini sapientissimi che istituirono gli stati e fondarono le città? Forse, non bastandoci la concorde autorità degli uomini, aspettiamo che parlino le bestie? 85. Del resto, chi sostiene che i generi di divinazione di cui parlo non hanno alcun valore, obietta soltanto questo: che appare difficile dire quale sia il procedimento razionale, quale la causa di ciascuna divinazione. Che motivo può addurre l'arùspice per cui un polmone che presenta una fenditura, anche se le viscere sono in complesso di buon augurio, debba far sospendere il tempo di un'azione e farla rinviare a un altro giorno? Che motivo ha l'àugure di sentenziare che un corvo che gràcida da destra, una cornacchia da sinistra, sono di buon augurio? Che motivo ha l'astrologo di dire che l'astro di Giove o di Venere in congiunzione con la luna è di buon auspicio per la nascita dei bambini, mentre gli astri di Saturno o di Marte sono infausti? E ancora, perché la divinità ci ammonisce mentre dormiamo, non si cura di noi quando siamo svegli? Che ragione c'è per cui Cassandra veda il futuro in stato di folle esaltazione, e non sia in grado di far ciò Priamo trovandosi perfettamente in senno? 86. Tu chiedi perché ciascuna di queste cose avvenga. Curiosità del tutto legittima; ma qui non di questo si tratta: si discute se quei fatti avvengano o no. Sarebbe come se, dicendo io che la calamita è una pietra che alletta e attrae a sé il ferro, ma non sapendo dire perché ciò avvenga, tu negassi senz'altro il fatto. È ciò che fai riguardo alla divinazione, che constatiamo di persona, di cui sentiamo parlare e leggiamo, la cui dottrina ci è giunta dai nostri antenati. E già prima dell'inizio della filosofia, che risale a tempi recenti, l'opinione comune non ebbe alcun dubbio quanto a ciò; e quando si fece avanti la filosofia, nessun filosofo dotato di un minimo di autorità la pensò altrimenti. 87. Ho menzionato Pitagora, Democrito, Socrate; tra i più antichi non ho dovuto far eccezioni per nessuno tranne per Senofane. Ho aggiunto l'Accademia antica, i peripatetici, gli stoici. Dissente solo Epicuro; ma che cosa c'è di più turpe del fatto che il medesimo Epicuro sostiene che non esiste alcuna virtù disinteressata?

XL Chi, d'altra parte, non rimane impressionato dall'antichità dei fatti testimoniati e garantiti da documenti di gran valore? Omero dice che Calcante fu l'àugure di gran lunga migliore di tutti, e che guidò le navi greche fino a Ilio, grazie alla sua conoscenza degli auspicii, credo bene, non a quella dei luoghi. 88. Anfiloco e Mopso furono re degli Argivi, ma anche àuguri, e fondarono città greche sulla costa della Cilicia. E ciò fecero prima di loro Anfiarao e Tiresia, non gente bassa e ignota, non simili a quelli di cui parla Ennio, "che per bisogno di guadagnare inventano false profezie", ma uomini famosi e valenti, che interpretando il volo degli uccelli e i segni premonitori dicevano il futuro. Del secondo di essi Omero dice che anche negl'inferi è l'unico ad aver senno, gli altri errano al pari di ombre; quanto poi ad Anfiarao, la fama acquistatasi presso i greci gli procurò tanto onore, che fu considerato un dio e gli si chiedevano oracoli che emanassero dal suo suolo, là dove era stato sotterrato. 89. E Priamo, il re dell'Asia, non aveva due figli capaci di divinazione, Eleno e Cassandra, il primo mediante gli augurii, l'altra per uno stato di esaltazione e follìa divina? Profeti di questo secondo genere furono presso di noi in tempi antichi (ne abbiamo menzione scritta) certi fratelli Marcii, di famiglia nobile. E Poliido corinzio, non predisse la morte - lo narra Omero - al figlio che partiva per la guerra di Troia, e molte altre cose ad altri? In generale, nei tempi antichi i sovrani erano anche maestri di arte augurale: consideravano come una dote regale la divinazione al pari della sapienza nel governare. Ne è testimone la nostra città, nella quale dapprima furono àuguri i re, poi alcuni privati cittadini, muniti di questa stessa carica sacerdotale, governarono la repubblica con l'autorità che promanava dalle credenze religiose.

XLI 90. Questi procedimenti divinatorii non sono trascurati nemmeno dai barbari. In Gallia vi sono i Druidi: ne ho conosciuto uno anch'io, l'èduo Divizíaco, tuo ospite e ammiratore, il quale dichiarava che gli era nota la scienza della natura, chiamata dai greci physiología, e in parte con gli augurii, in parte con l'interpretazione dei sogni, diceva il futuro. Tra i Persiani, interpretano gli augurii e profetano i maghi, i quali si riuniscono in un luogo sacro per meditare sulla loro arte e per scambiarsi idee, il che anche voi eravate soliti fare nel giorno delle None; 91. né alcuno può essere re dei Persiani se non ha prima appreso la pratica e la scienza dei maghi. È facile, d'altronde, vedere famiglie e genti dedite alla divinazione. In Caria c'è la città di Telmesso, nella quale l'arte degli arùspici si distingue particolarmente; così pure Èlide nel Peloponneso ha due determinate famiglie, quella degli Iàmidi e quella dei Clìtidi, famose più di tutte per l'aruspicìna. In Siria i Caldei eccellono per conoscenza degli astri e per acutezza d'interpretazione. 92. L'Etruria conosce profondamente i presagi tratti dai luoghi colpiti dal fulmine, e sa interpretare il significato di ciascun prodigio e di ciascuna manifestazione portentosa. Giustamente, perciò, al tempo dei nostri antenati, quando il nostro Stato era fiorente, il senato decretò che dieci figli di famiglie eminenti, scelti ciascuno da una delle genti etrusche, fossero fatti istruire nell'aruspicìna, per evitare che un'arte di tale importanza, a causa della povertà di quelli che la praticavano, scadesse da autorevole disciplina religiosa a oggetto di traffico e di guadagno. Quanto, poi, ai Frigi, ai Pisidii, ai Cilici, al popolo arabo, essi obbediscono scrupolosamente ai segni profetici dati dagli uccelli; e sappiamo che lo stesso è avvenuto per lungo tempo in Umbria.

XLII 93. E a me sembra che l'opportunità di praticare i diversi generi di divinazione sia derivata anche dai luoghi che erano abitati dai vari popoli. Gli Egiziani e i Babilonesi, che abitavano in distese di campi pianeggianti, poiché nessuna altura poteva ostacolare la contemplazione del cielo, posero tutto il loro studio nella conoscenza degli astri. Gli Etruschi, poiché, sommamente religiosi, immolavano vittime con zelo e frequenza particolare, si dedicarono soprattutto all'indagine delle viscere; e siccome, per l'aria pregna di vapori, erano frequenti nella loro patria i fulmini, e per lo stesso motivo si verificavano molti fatti straordinari provenienti in parte dal cielo, altri dalla terra, alcuni anche in seguito al concepimento e alla generazione degli esseri umani e delle bestie, acquistarono una grandissima perizia nell'interpretare i prodigi. Il cui significato, come tu sei solito dire, è dimostrato dalle parole stesse foggiate sapientemente dai nostri antenati: poiché fanno vedere (ostendunt), prognosticano (portendunt), mostrano (monstrant), predicono (praedicunt), vengono chiamati apparizioni miracolose (ostenta), portenti (portenta), mostri (monstra), prodìgi (prodigia). 94. Gli Arabi, i Frigi e i Cilici, poiché sono soprattutto dediti alla pastorizia, percorrendo le pianure d'inverno e le montagne d'estate, hanno perciò notato più agevolmente i diversi canti e voli degli uccelli; e per lo stesso motivo hanno fatto ciò gli abitanti della Pisidia e quelli di questa nostra Umbria. E ancora, tutti i Carii e in particolare gli abitanti di Telmesso, di cui ho detto sopra, siccome vivono in plaghe ricchissime ed estremamente fertili, nelle quali per la fecondità del terreno molte piante e animali possono formarsi e generarsi, osservarono con accuratezza gli esseri abnormi.

XLIII 95. Chi, del resto, non vede che in ogni Stato bene ordinato gli auspicii e gli altri tipi di divinazione hanno sempre goduto altissimo credito? Quale re c'è mai stato, quale popolo che non ricorresse alle predizioni divine? E questo non solo in tempo di pace, ma anche, molto di più, in guerra, perché tanto maggiore era la posta in giuoco e in più grave rischio la salvezza. Lascio da parte i nostri, i quali non intraprendono nulla in guerra senza aver esaminato le viscere, nulla fanno in pace senza aver preso gli auspicii; vediamo gli stranieri. Gli Ateniesi in tutte le pubbliche deliberazioni ricorsero sempre a certi sacerdoti divinatori che essi chiamano mánteis, e gli Spartani posero a fianco dei loro re un àugure come consigliere, e vollero, parimenti, che un àugure partecipasse alle riunioni degli anziani (così chiamano il consiglio statale); e così pure, in tutte le questioni importanti, chiedevano sempre responsi a Delfi o ad Ammone o a Dodona. 96. Licurgo, che dette la costituzione allo Stato spartano, volle confermare le proprie leggi con l'approvazione di Apollo delfico; e quando Lisandro le volle riformare, ne fu impedito dal divieto del medesimo oracolo. Non basta: i governanti degli spartani, non ritenendo sufficienti le cure che davano al governo durante il giorno, andavano a giacere, per procurarsi dei sogni, nel tempio di Pasifae, situato nella campagna vicina a Sparta, perché consideravano veritiere le profezie avute in sogno. 97. Ecco, ritorno alle cose nostre. Quante volte il senato ordinò ai decemviri di consultare i libri sibillini! In quanto importanti e numerose occasioni obbedì ai responsi degli arùspici! Ogni volta che si videro due soli, e tre lune, e fiamme nell'aria; ogni volta che il sole apparve di notte, e giù dal cielo si sentirono dei rumori sordi e sembrò che la volta celeste si fendesse, e in essa apparvero dei globi. Fu anche annunziato al senato una grossa frana nel territorio di Priverno, quando la terra s'abbassò fino ad una profondità immensa e la Puglia fu squassata da violentissimi terremoti. E da questi portenti erano preannunciate al popolo romano grandi guerre e rovinose sedizioni, e in tutti questi casi i responsi degli arùspici concordavano coi versi della Sibilla. 98. E ancora, quando a Cuma sudò la statua di Apollo, a Capua quella della Vittoria? E la nascita di un andrògino non fu un prodigio funesto? E quando le acque del fiume Atrato si tinsero di sangue? E che dire del fatto che più volte cadde giù una pioggia di pietre, spesso di sangue, talvolta di terra, una volta anche di latte? E quando sul Campidoglio fu colpita dal fulmine la statua di un Centauro, sull'Aventino porte delle mura e uomini, a Tùsculo il tempio di Càstore e Pollùce, a Roma il tempio della Pietà? In tutte queste circostanze gli arùspici non dettero responsi conformi a ciò che poi accadde, e nei libri sibillini non furono trovate le stesse profezie?

XLIV 99. Non molto tempo fa, durante la guerra màrsica, in seguito a un sogno di Cecilia, figlia di Quinto, il tempio dedicato a Giunone Sospita fu fatto ricostruire dal senato. Sisenna aveva dimostrato che quel sogno corrispondeva mirabilmente, puntualmente, coi fatti; poi, inaspettatamente, credo per influsso di qualche epicureo, si mette a sostenere che non bisogna credere ai sogni. Eppure contro i prodìgi non obietta nulla, e narra che all'inizio della guerra màrsica le statue degli dèi sudarono, e scorsero fiumi rossi di sangue, e che il cielo si spaccò, e si udirono voci misteriose che annunziavano pericoli di guerra, e a Lanuvio alcuni scudi furono rosicchiati dai topi: agli arùspici questo parve un presagio funestissimo. 100. E che dire di ciò che leggiamo negli annali? Durante la guerra contro Veio, essendo cresciute oltre misura le acque del lago Albano, un nobile di Veio passò dalla nostra parte e disse che, secondo i libri profetici che i Veienti conservavano, Veio non poteva esser presa finché il lago non fosse giunto a traboccare; ma se le acque, fuoriuscendo, si fossero scaricate in mare secondo il loro deflusso spontaneo, sarebbe stata una rovina per il popolo romano; se invece fossero state incanalate in modo da non poter raggiungere il mare, sarebbe stata la vittoria per i nostri. In seguito a ciò i nostri antenati scavarono quel mirabile canale di scarico dell'acqua del lago Albano. Ma quando i Veienti, spossati dalla guerra, mandarono ambasciatori al senato per trattare la resa, allora uno di essi - si narra - disse che quel disertore non aveva avuto il coraggio di dire tutto al senato: ché in quegli stessi libri profetici posseduti dai Veienti si diceva che di l' a poco Roma sarebbe stata conquistata dai Galli: e in effetti, come sappiamo, ciò avvenne sei anni dopo la presa di Veio.

XLV 101. Spesso anche si narra che nelle battaglie si udirono le voci dei Fauni, e, nel corso di tumulti, parole che predicevano il vero, provenienti chissà da dove. Tra i molti esempi di questo genere, bastino due soli, ma di gran rilievo. Non molto prima che la città fosse presa dai Galli, si udì una voce proveniente dal bosco sacro a Vesta, che dai piedi del Palatino scende verso la Via Nuova: la voce ammoniva che si ricostruissero le mura e le porte; se non si provvedeva, Roma sarebbe stata presa dai nemici. Di questo ammonimento, che fu trascurato allora, quando si era in tempo a evitare il danno, fu fatta espiazione dopo quella terribile disfatta: dirimpetto a quel luogo, fu consacrato ad Aio Loquente un altare, che tuttora vediamo protetto da un recinto. L'altro esempio: molti hanno scritto che, dopo un terremoto, una voce proveniente dal tempio di Giunone sul Campidoglio ammonì che si sacrificasse in segno di espiazione una scrofa gravida: perciò la Giunone a cui era dedicato quel tempio fu chiamata Moneta. Questi fatti, dunque, annunciati dagli dèi e sanzionati dai nostri antenati, li disprezziamo? 102. Ma i pitagorici consideravano assiduamente non solo le voci degli dèi, ma anche quelle degli uomini, chiamate òmina. E siccome i nostri antenati ritenevano che esse avessero valore profetico, ogni volta che dovevano compiere un atto importante incominciavano col dire: "Sia questa cosa buona, fausta, felice e fortunata"; e nelle pubbliche cerimonie religiose si ordinava che i presenti "facessero silenzio", e, nel proclamare le ferie, che "si astenessero da liti e risse". Così pure, nel fondare con un rito di purificazione una colonia, colui che la fondava sceglieva, perché conducessero le vittime al sacrificio, persone dai nomi di buon augurio; e così faceva il comandante quando purificava l'esercito, il censore quando purificava il popolo. Alla stessa norma si attengono i consoli nella leva: che il primo soldato arruolato abbia un nome di buon augurio. 103. Tu sai bene che, quando sei stato console e comandante militare, hai osservato queste norme con grande scrupolo. Anche riguardo alla centuria che votava per prima nei comizi, i nostri antenati ritennero che per il suo nome essa costituisse un buon auspicio di elezioni conformi alla legge.

XLVI Ed io ti rammenterò ben noti esempi di òmina. Lucio Paolo, console per la seconda volta, essendogli toccato l'incarico di condurre la guerra contro il re Perse, quando in quello stesso giorno, sull'imbrunire, ritornò a casa, nel dare un bacio alla sua bambina Terzia, ancora molto piccola a quel tempo, si accorse che era un po' triste. "Che è successo, Terzia?" le chiese; "perché sei triste?." E lei: "Babbo," disse, "è morto Persa." Egli allora, abbracciandola forte, disse: "Accetto il presagio, figlia mia." Era morto un cagnolino che si chiamava così. 104. Ho udito raccontare io stesso da Lucio Flacco, flàmine marziale, che Cecilia, moglie di Metello, volendo far sposare la figlia di sua sorella, si recò in un tempietto per ricevere un presagio, secondo l'uso degli antichi. La nipote stava in piedi, Cecilia era seduta; per molto tempo non si sentì nessuna voce; allora la ragazza, stanca, chiese alla zia che le permettesse di riposarsi un poco sulla sua sedia. E Cecilia: "Certo, bambina mia, ti lascio il mio posto." E il detto si avverò: Cecilia morì poco dopo, e la ragazza sposò colui che era stato il marito di Cecilia. Lo capisco fin troppo bene: queste cose si possono disprezzare o si può anche riderne; ma disprezzare i segni inviati dagli dèi e negare la loro esistenza, è tutt'uno.

XLVII 105. E degli àuguri, che dire? È materia di tua pertinenza; a te, dico, deve spettare la difesa degli auspicii. Quando eri console, l'àugure Appio Claudio ti annunziò - avendo giudicato ambiguo l'"augurio della salvezza" - che vi sarebbe stata una guerra civile funesta e tempestosa. E pochi mesi dopo scoppiò, e tu la soffocasti in ancor più pochi giorni. Quell'àugure io lo stimo altamente, perché egli solo, dopo molti anni, non si limitò a ripetere le solite formule augurali, ma mantenne in vita l'arte della divinazione. I tuoi colleghi lo deridevano, lo chiamavano àugure di Pisidia o di Sora: essi credevano che negli augurii non vi fosse nessun presentimento, nessuna conoscenza della realtà futura; erano stati accorti, dicevano, quelli che avevano inventato le credenze religiose per darle a intendere agli ignoranti! Ma la realtà è ben diversa: né quei pastori di cui Romolo fu il re, né Romolo in persona poterono essere tanto smaliziati da inventare delle parvenze di religione per trarre in errore la moltitudine. Ma la difficoltà e la fatica d'imparare hanno reso eloquenti i fannulloni: meglio fare forbiti discorsi sul valore nullo degli auspicii, che apprenderne con cura l'essenza. 106. Che c'è di più profetico di quell'auspicio che si legge nel tuo Mario? Della tua testimonianza mi piace servirmi più che di ogni altra: "Allora, d'improvviso, l'alata ministra di Gìove altitonante, ferita dal morso del serpente, lo strappa a sua volta dal tronco dell'albero, trafiggendo con gli artigli spietati il rettile semivivo, guizzante a gran forza col collo variegato. Essa dilania e insanguina col becco il serpente che si divincola; poi, ormai saziata l'ira, ormai vendicato l'aspro dolore, lo lascia cader giù spirante, lo fa precipitare nelle onde già ridotto a brani; ed essa si rivolge dal lato dove il sole tramonta verso il lato donde sorge splendente. Appena Mario, àugure della volontà divina, ebbe visto l'aquila che volava scorrendo per il cielo con le ali veloci, ed ebbe inteso il fausto presagio della propria gloria e del proprio ritorno, ecco che il Padre stesso degli dèi tuonò dalla parte sinistra del cielo. Così Giove confermò lo splendido presagio dell'aquila."

XLVIII 107. E quell'augurio ottenuto da Romolo fu un augurio da pastore, non da esperto cittadino, non inventato per dar soddisfazione alle credenze degli ignoranti, ma ricevuto da persone fededegne e tramandato ai posteri. Or bene, Romolo àugure, come leggiamo in Ennio, e suo fratello àugure anche lui, "procedendo con gran cura, e desiderosi di regnare, si accingono all'auspicio e all'augurio. +Sul monte+ **** Remo si dedica all'auspicio e da solo attende che appaia qualche uccello; dal canto suo, Romolo dall'aspetto divino osserva il cielo sull'alto Aventino, attende la stirpe degli altovolanti. Gareggiavano per decidere se dovessero chiamare la città Roma o Rémora; tutti attendevano ansiosamente chi sarebbe stato il sovrano. Aspettano, come quando il console sta per dare il segnale nella corsa dei carri, tutti guardano avidamente le aperture dei cancelli, 108. attenti al momento in cui lascerà uscire dalle dipinte imboccature i carri: allo stesso modo il popolo aspettava coi volti pallidi nell'attesa degli eventi, chiedendosi a quale dei due sarebbe toccata la vittoria nella gara per il gran regno. Frattanto il sole lucente si calò nelle profondità della notte. Ed ecco, la fulgida luce riapparve raggiante, spinta fuori nel cielo; e nello stesso tempo, lontano, dall'alto, volò un uccello bellissimo, di buon augurio, da sinistra. Appena sorge l'aureo sole, scendono dal cielo dodici corpi sacri di uccelli, si posano su luoghi fausti e bene auguranti. Da ciò Romolo comprese che a lui era stata data la preferenza, che in seguito all'auspicio gli era assicurato il seggio regale e il territorio."

XLIX 109. Ma, per ritornare al punto da cui ha preso le mosse il mio discorso, anche se io non fossi per nulla in grado di spiegare perché avviene ciascuno di questi fatti, e dimostrassi soltanto che i fatti che ho menzionato avvengono, sarebbe debole la mia replica a Epicuro e a Carneade? Ebbene, che diremo se esiste anche la spiegazione, facile quella delle profezie ottenute mediante l'arte, alquanto più oscura, in verità, quella delle profezie derivanti da esaltazione divina? Le profezie ricavate dalle viscere, dai fulmini, dai portenti, dagli astri si basano sulla registrazione di osservazioni costanti; e in ogni campo la lunga durata, accompagnata da lunga osservazione, ci procura straordinarie conoscenze. Queste si possono ottenere anche senza l'intervento e l'impulso degli dèi, quando, con frequenti esperienze, si arriva a capire che cosa accada in conseguenza di ciascun segno e quale sia il valore di premonizione di ciascun fenomeno. 110. L'altra forma di divinazione, l'ho già detto, è quella naturale. Essa, con sottili ragionamenti riguardanti la scienza della natura, va riferita all'essenza degli dèi, dalla quale, secondo i pensatori più dotti e sapienti, noi abbiamo tratto le nostre anime, come se le avessimo aspirate o bevute; e poiché il Tutto è compenetrato e riempito di spirito eterno e di intelligenza divina, avviene necessariamente che le anime umane subiscano l'effetto della loro affinità con le anime divine. Ma, nello stato di veglia, le nostre anime devono occuparsi delle necessità della vita, e quindi si disgiungono dalla comunanza con la divinità, impedite come sono dai legami corporei. 111. Soltanto poche persone sono capaci di astrarsi dal corpo e di innalzarsi, mettendo in opera tutte le loro energie, fino alla conoscenza delle cose divine. Le profezie di costoro non dipendono da afflato divino, ma da ragionamento umano: essi prevedono i fenomeni che avverranno per cause naturali, come le alluvioni o quella deflagrazione del cielo e della terra che un giorno avverrà; altri fra costoro, avendo pratica di cose politiche, sanno prevedere con molto anticipo il sorgere di una tirannide, come sappiamo che fece l'ateniese Solone. Questi li possiamo chiamare "prudenti", cioè "preveggenti", ma certamente non dotati di divinazione. Lo stesso si può dire di Talete di Mileto, il quale, per mettere a tacere i suoi denigratori e per mostrar loro che anche un filosofo, se gli aggrada, può far guadagni, comprò - si racconta - tutti gli olivi del territorio di Mileto prima che incominciassero a fiorire. 112. Si era forse accorto, per certe sue osservazioni scientifiche, che gli olivi avrebbero dato un ottimo raccolto. Fu anche Talete che, a quanto si dice, previde per primo un'eclissi di sole, che in effetti avvenne sotto il regno di Astiage.

L Molte previsioni giuste le fanno i medici, molte i naviganti, molte anche i contadini, ma nessuna di esse io chiamo divinazione: nemmeno quella famosa previsione con cui il filosofo della natura Anassimandro avvertì gli Spartani di lasciare la città e le case e vegliare armati nei campi, poiché era imminente un terremoto: e in realtà tutta la città fu rasa al suolo e il contrafforte estremo del monte Taigeto fu divelto come la poppa di una nave. Nemmeno Ferècide, il famoso maestro di Pitagora, dovrà essere considerato come un profeta anziché come un filosofo della natura, per aver detto che erano imminenti dei terremoti dopo che ebbe esaminato dell'acqua attinta da un pozzo perenne. 113. La divinazione naturale, l'anima umana non la compie se non quando è talmente sciolta e libera da non avere assolutamente alcun legame col corpo. Ciò accade soltanto ai vaticinanti e ai dormienti. Perciò questi due generi di divinazione sono ammessi da Dicearco e dal nostro Cratippo, come ho detto. Se essi li ammettono perché derivano dalla natura, diciamo pure che sono i più importanti, purché non gli unici; ma se ritengono che l'osservazione dei segni profetici non valga nulla, sopprimono molti indizi utili per la condotta della vita. Ma poiché concedono qualcosa e non di poco conto [le profezie in stato di esaltazione e i sogni], non c'è alcun motivo, per noi, di discutere violentemente con essi, tanto più che vi sono quelli che non ammettono alcuna divinazione! 114. Dunque quelli le cui anime, sprezzando il corpo, volano via e trascorrono fuori, infiammati ed eccitati da una sorta di ardore, vedono senza dubbio le cose che dicono nei loro vaticinii. Anime di questo genere, capaci di non rimanere attaccate ai corpi, sono infiammate da molte cause. Vi sono, per esempio, quelle che subiscono l'eccitazione di qualche voce melodiosa o dei canti frigi. Molte sono esaltate dalla vista dei boschi e delle foreste, molte dai fiumi o dai mari; e la loro mente, in un accesso di follia, vede il futuro molto prima che accada. A questo tipo di divinazione si riferiscono quei famosi versi: "Ahimè, guardate! Qualcuno ha giudicato un giudizio memorabile fra tre dèe; e per quel giudizio arriverà una donna spartana, una delle Furie." Allo stesso modo molte profezie sono state spesso fatte da vaticinanti, e non solo in prosa, ma anche "coi versi che un tempo cantavano i Fauni e i vati." 115. Similmente i vati Marcio e Publicio cantarono oracoli, a quanto si dice; e allo stesso modo furono profferiti gli enigmi di Apollo. Credo anche che dalle fenditure della terra uscissero esalazioni che inebriavano le menti e le inducevano a effondere oracoli.

LI E questo è il modo di profetare dei vati, non dissimile, invero, da quello dei sogni. Ciò che accade ai vari da svegli, accade a noi quando dormiamo. Nel sonno l'anima è in pieno vigore, libera dai sensi e da ogni preoccupazione che la frastorni, poiché il corpo giace come se fosse morto. E poiché l'anima esiste da sempre e ha avuto rapporti con altre innumerevoli anime, vede tutto ciò che esiste nell'universo, purché, grazie a un cibo leggero e a bevande modiche, si trovi nella condizione di essere essa desta mentre il corpo è immerso nel sonno. Questo è il genere di divinazione di chi sogna. 116. E qui si fa valere un'importante interpretazione dei sogni [dovuta ad Antifonte], e anche degli oracoli e dei vaticinii: un'interpretazione basata non sulla natura, ma sull'arte: ché vi sono interpreti di queste profezie, come i filologi sono interpreti dei poeti. Giacché, come la natura divina avrebbe creato invano l'oro e l'argento, il rame, il ferro, senza poi insegnare il modo di arrivare ai loro giacimenti, e senza alcuna utilità avrebbe dato al genere umano le messi della terra e i frutti degli alberi, se non ne avesse insegnato la coltivazione e la conservazione, e a nulla servirebbe il legname, se non sapessimo l'arte di fabbricare con esso tante cose, allo stesso modo con ogni beneficio che gli dèi hanno dato agli uomini è stata congiunta un'arte grazie alla quale quel beneficio potesse essere goduto. Dunque anche ai sogni, ai vaticinii, agli oracoli, poiché presentavano molte oscurità e ambiguità, furono fornite le spiegazioni degli interpreti. 117. In qual modo, poi, i vati o quelli che sognano vedano le cose che ancora non esistono in alcun luogo, è oggetto di un'ardua discussione. Ma se indaghiamo ciò che dovrà essere discusso preliminarmente, la soluzione diverrà più facile. Tutto questo problema, difatti, fa parte di quel più vasto argomento riguardante la natura degli dèi, che tu hai spiegato con gran chiarezza nel libro secondo della tua opera. Se ci atterremo a quei princìpi, rimarrà accertato ciò di cui fa parte la questione che stiamo indagando adesso. Si trattava di questo: gli dèi esistono; il mondo è governato dalla loro provvidenza; essi si curano delle cose umane, non solo nel loro insieme, ma anche per ciò che riguarda i singoli individui. Se teniamo fermi questi punti, che a me non sembrano confutabili, senz'altro è necessario che gli dèi facciano sapere il futuro agli uomini.

LII 118. Ma bisogna precisare in che modo ciò avvenga. Gli Stoici non ammettono che la divinità si occupi delle singole fenditure del fegato delle tante vittime o dei singoli canti degli uccelli (ciò non sarebbe decoroso né degno degli dèi né possibile in alcun modo), ma ritengono che il mondo sia stato formato fin dall'inizio in modo che determinati eventi fossero precorsi da determinati segni, alcuni nelle viscere, altri nel volo degli uccelli, altri nei fulmini, altri nei prodigi, altri negli astri, altri nelle visioni in sogno, altri ancora nelle grida degli invasati. Coloro che sanno comprendere bene questi segni, di rado s'ingannano; le profezie e le interpretazioni compiute inesattamente vanno a vuoto non per difetto della realtà, ma per imperizia degli interpreti. Posto e concesso questo principio, che esiste una forza divina la quale dà regola alla vita umana, non è difficile supporre in che modo avvengano quelle cose che, come vediamo, avvengono senza dubbio. Per esempio, a scegliere una vittima può esserci guida un intelletto divino che pervade tutto il mondo; e proprio nell'istante in cui stai per immolare la vittima può avvenire nelle sue viscere un mutamento, in modo che qualcosa manchi o sia di troppo: bastano alla natura pochi istanti per aggiungere o mutare o togliere qualcosa. 119. A impedirci di dubitare di ciò, una prova decisiva è data da quel che accadde poco prima della morte di Cesare. Quando compi un sacrificio in quel giorno in cui per la prima volta sedette su un seggio dorato e si mostrò in pubblico con una veste purpurea, tra le viscere della vittima, che era un bove ben pasciuto, non si trovò il cuore. Credi dunque che possa esistere un animale dotato di sangue che non abbia il cuore? Dalla stranezza di questo fatto egli non fu sbigottito, sebbene Spurinna gli dicesse che c'era da temere che egli perdesse il senno e la vita: l'uno e l'altra, infatti, hanno origine dal cuore. Il giorno dopo, in un'altra vittima non si trovò la parte superiore del fegato. Questi segni gli erano mandati dagli dèi immortali. perché prevedesse la propria morte, non perché la evitasse. Dunque, quando nelle viscere non si trovano quelle parti senza le quali l'animale destinato al sacrificio non avrebbe potuto vivere, bisogna concluderne che le parti mancanti sono scomparse nel momento stesso in cui vien compiuto il sacrificio.

LIII 120. E lo spirito divino produce analoghi effetti sugli uccelli, in modo che gli "alati" volino ora in una direzione ora in un'altra, si nascondano ora in un luogo ora in un altro, e gli "uccelli profetici" cantino ora da destra ora da sinistra. Ché se ogni animale muove il proprio corpo a suo piacimento, mettendosi ora prono, ora di fianco, ora supino, e piega, contorce, stende, contrae le membra in ogni direzione da lui voluta, e spesso esegue questi movimenti, si può dire, prima ancora di averci pensato, quanto più facile dev'essere ciò alla divinità, al cui volere tutto obbedisce! 121. È anche la divinità quella che ci invia quei segni che in grandissimo numero ci tramanda la storia. Ad esempio leggiamo profezie come queste: se la luna avesse avuto un'eclissi poco prima che il sole sorgesse nella costellazione del Leone, Dario e i persiani sarebbero stati sconfitti in guerra da Alessandro coi suoi macedoni e Dario sarebbe morto; se fosse nata una bambina con due teste, vi sarebbero state sommosse popolari, corruzioni e adulteri nelle famiglie; se una donna avesse sognato di partorire un leone, lo Stato in cui ciò fosse avvenuto avrebbe subìto una sconfitta da un popolo straniero. Dello stesso tipo è anche il fatto narrato da Erodoto, che il figlio di Creso si mise a parlare mentre prima era muto: per il qual prodigio il regno di suo padre e la dinastia andarono del tutto in rovina. Che a Servio Tullio, mentre dormiva, brillò una fiamma sulla testa, quale storia non lo racconta? Come, dunque, chi si abbandona al sonno con animo ben preparato sia da buoni pensieri, sia da cibi che predispongono alla tranquillità, vede in sogno cose certe e vere, così l'anima di chi, nella veglia, si mantiene casto e puro è meglio disposta a cogliere la verità insita negli astri, nel volo degli uccelli e negli altri segni, nonché nelle viscere degli animali.

LIV 122. Questo è appunto ciò che sappiamo riguardo a Socrate e che egli stesso dice in tanti passi delle opere dei suoi discepoli: che in lui c'era qualcosa di divino, da lui chiamato dèmone, al quale egli sempre obbediva, e che non lo spingeva mai a fare qualcosa, ma spesso lo distoglieva. E proprio Socrate (della cui autorità quale altra potrebbe essere migliore?), quando Senofonte gli chiese se dovesse andare in guerra al seguito di Ciro, gli espose prima la propria opinione, e poi aggiunse: "Il mio è il consiglio di un uomo; ma, trattandosi di cose oscure e incerte, ritengo che si debba ricorrere all'oracolo di Apollo," al quale, anche gli Ateniesi ricorrevano sempre per le questioni statali più importanti. 123. Di Socrate si legge anche che, avendo visto un giorno il suo amico Critone con un occhio bendato, gli chiese che cosa gli era successo. Critone gli disse che, mentre passeggiava in campagna, un ramoscello da lui scostato e poi lasciato libero gli era andato a colpire l'occhio. E Socrate: "Ecco, non mi hai dato retta quando ti dicevo di non andare in campagna, e te lo dicevo per quell'ammonimento divino che spesso mi viene in aiuto." Ancora Socrate, quando gli Ateniesi guidati da Lachete avevano subìto una sconfitta presso Delio, ed egli batteva in ritirata insieme con Lachete, allorché furono giunti a un trivio, non volle prender la strada che prendevano gli altri. E siccome quelli gli chiesero perché non seguitava per il loro stesso cammino, rispose che il dèmone lo sconsigliava. E in effetti quelli che avevano proseguito la fuga per l'altra strada si trovarono alle prese con la cavalleria nemica. Antipatro ha raccolto moltissimi casi in cui Socrate dette mirabile prova della sua capacità di prevedere il futuro; io li tralascerò: tu li conosci, io non ho bisogno di rammentarli per il mio scopo. 124. Ma un detto solo, splendido e, direi, divino, voglio ricordare di quel filosofo: condannato da un'empia sentenza, disse che moriva con piena serenità, perché, né quando era uscito di casa, né quando era salito sulla tribuna dalla quale aveva pronunciato la sua difesa, aveva ricevuto dal dèmone alcuno dei soliti segni premonitori di qualche male.

LV Questo è, in verità, il mio parere: sebbene molte volte coloro che hanno fama di indovini esperti nell'osservazione dei segni o nella previsione del futuro cadano in errore, tuttavia la divinazione esiste; gli uomini, del resto, possono sbagliarsi in quest'arte, come in tutte le altre. Può accadere che un segno dato come dubbio sia interpretato come sicuro; può rimanere inosservato un segno, o un altro contrastante col primo. Ma per dimostrare la tesi che io sostengo è sufficiente che si accerti l'esistenza, nemmeno di una maggioranza di previsioni e predizioni avveratesi ma anche solo di una minoranza. 125. Anzi, non esiterei a dire che, se un unico fatto qualsiasi è stato predetto e presentito in modo che, venuti al punto, si verifichi con esatta conformità alla predizione, né in questa coincidenza alcunché possa apparire dovuto al caso, la divinazione esiste senz'altro, e tutti devono ammetterlo. Perciò mi sembra che, come fa Posidonio, ogni capacità e maniera di divinare debba essere fatta risalire innanzi tutto alla divinità (riguardo alla quale abbiamo già detto abbastanza), in secondo luogo al fato, in terzo luogo alla natura. Che tutto avvenga per determinazione del fato, la ragione ci costringe ad ammetterlo. Chiamo fato quello che i greci chiamano heimarménè, cioè l'ordine e la serie delle cause, tale che ogni causa concatenata con un'altra precedente produca a sua volta un effetto. Questa è la verità sempiterna, svolgentesi da tutta l'eternità. Stando così le cose, nulla è accaduto che non dovesse accadere, e del pari nulla accadrà le cui cause, destinate a produrre appunto quell'effetto, non siano già presenti nella natura. 126. Da ciò si comprende che il fato è da concepire, non superstiziosamente ma scientificamente, come la causa eterna in virtù della quale le cose passate sono avvenute, le presenti avvengono, le future avverranno. Per questo, grazie all'osservazione, da un lato si può nella maggior parte dei casi indicare quale effetto risulterà da una data causa (nella maggior parte dei casi, non sempre, poiché un'affermazione così perentoria sarebbe arrischiata); d'altro lato, è verosimile che le medesime cause degli eventi futuri siano scòrte da coloro che hanno visioni in stato di esaltazione o in sogno.

LVI 127. Inoltre, siccome tutto avviene per determinazione del fato, come dimostreremo altrove, se potesse esservi un uomo capace di abbracciare col proprio intelletto l'intera concatenazione delle cause, costui saprebbe certamente tutto. Chi, infatti, conoscesse le cause degli avvenimenti futuri, necessariamente conoscerebbe tutto il futuro. Ma poiché nessuno può far questo tranne la divinità, bisogna che l'uomo si accontenti di prevedere il futuro in base ad alcuni segni che gli indicano ciò che da essi conseguirà. Il futuro non sorge all'improvviso: come lo sdipanarsi di una gomena, tale è lo scorrere del tempo che non produce nulla di nuovo e ritorna sempre al punto da cui mosse. Questo lo vedono sia coloro che hanno avuto in dote la divinazione naturale, sia coloro che con l'osservazione hanno compreso il corso degli eventi. Costoro, anche se non scorgono le cause vere e proprie, scorgono però i segni e gli indizi delle cause; per di più, con l'aiuto della memoria, dell'attenzione e di ciò che ci è stato tramandato dagli scritti dei nostri antenati, ecco che si forma quella divinazione che è chiamata artificiale, basata sull'esame delle viscere, dei fulmini, dei prodigi e dei segni provenienti dal cielo. 128. Non c'è dunque motivo di meravigliarsi del fatto che gli indovini prevedano ciò che non vi è ancora in nessun luogo; tutte queste cose vi sono, ma sono ancora lontane nel tempo. E come nei semi è ìnsita la potenza generativa delle future piante, così nelle cause sono racchiusi gli eventi futuri; il loro avvento, lo prevede la mente invasata o immersa nel sonno, o anche il ragionamento e l'interpretazione. E come quelli che conoscono il sorgere, il tramontare, i moti del sole, della luna e degli altri astri sono in grado di predire con molto anticipo in quale tempo ciascuno di quei fenomeni avverrà, così quelli che con lunghe osservazioni hanno notato lo svolgersi dei fatti e il rapporto tra segni ed eventi comprendono il futuro, o sempre, o, se ciò può sembrare arrischiato, nella maggior parte dei casi, o, se neppur questo mi si vuol concedere, almeno parecchie volte. Questi argomenti, dunque, e altri dello stesso genere a favore della divinazione, sono tratti dall'esistenza del fato.

LVII 129. Un altro argomento, poi, si desume dalla natura che ci insegna quanto sia grande il potere dell'anima separato dalle sensazioni corporee; e ciò avviene soprattutto a chi dorme o a chi è invasato. Difatti, come le anime degli dèi, senza bisogno di avere occhi, né orecchi, né lingua, intendono reciprocamente ciò che ciascuno intende (cosicché gli uomini, anche quando esprimono tacitamente un desiderio o un voto, possono essere sicuri che gli dèi li odono), così le anime umane, quando, immerse nel sonno, sono sciolte dal corpo oppure, essendo invasate, si muovono da sé, libere, con tutto il loro vigore, vedono ciò che non possono vedere quando sono commiste al corpo. 130. Questo argomento tratto dalla natura , forse, non è facile riferirlo a quel genere di divinazione che, come si è detto, deriva dall'arte; e tuttavia Posidonio, per quanto può, scruta anche questo campo. Egli ritiene che vi siano in natura dei segni premonitori del futuro. Sappiamo, ad esempio, che gli abitanti di Ceo sono soliti, ogni anno, osservare attentamente il sorgere della Canicola e da ciò prevedere se l'annata sarà salubre o malsana, come riferisce Eraclìde Pontico: se l'astro sorgerà alquanto velato e quasi caliginoso, l'aria sarà densa e piena di vapori, sicché la respirazione risulterà penosa e nociva; se invece la costellazione apparirà chiara e lucente, vorrà dire che l'aria sarà sottile e pura, e quindi salubre. 131. Democrito, a sua volta, ritiene che gli antichi saggiamente prescrissero di osservare le viscere delle vittime immolate; dalla loro forma e dal loro colore, egli dice, si possono trarre indizi sia di salubrità dell'aria sia di pestilenza, qualche volta anche di sterilità o di fertilità dei campi. E se l'osservazione e la pratica dei fenomeni naturali è in grado di prevedere queste cose, molte altre si possono, col lungo trascorrere del tempo, scrutare e annotare. Sicché  sembra che nonconosca affatto la natura quello scienziato che nel "Crise" di Pacuvio viene introdotto dicendo: "Costoro che intendono il linguaggio degli uccelli e traggono la loro sapienza più dal fegato degli animali che dal proprio, io ritengo che sia meglio starli a sentire che dar loro retta." Perché, dimmi un poco, parli così, dal momento che tu stesso, pochi versi dopo, dici in modo eccellente: "Qualunque sia questo essere, esso anima, forma, nutre, accresce, crea; seppellisce e accoglie in sé tutto, e di tutto, al tempo stesso, è padre; e le medesime cose sorgono da esso di nuovo e in esso si dissolvono." Perché, dunque, se la sede di tutti gli esseri è unica e a tutti comune, e se le anime umane sono sempre esistite e sempre esisteranno, perché, dico, non dovrebbero essere in grado di intendere quale effetto risulti da ogni singola causa e quale segno preannunci ciascun evento? Questo", concluse Quinto, "è ciò che avevo da dire sulla divinazione.

LVIII 132. Ora, però, dichiarerò solennemente che io non do credito ai volgari estrattori di sorti, né a quelli che fanno gli indovini per trarne guadagno, né alle evocazioni delle anime dei morti, alle quali ricorreva il tuo amico Appio. Non stimo un bel nulla gli àuguri marsi, né gli arùspici di strada, né gli astrologi che fanno quattrini presso il Circo, né i profeti d'Iside, né i ciarlatani interpreti di sogni. Essi non sono indovini per scienza ed esperienza, ma sono vati superstiziosi e impudenti spacciatori di frottole, incapaci o pazzi o schiavi del bisogno: gente che non sa andare per il proprio sentieruccio e pretenderebbe d'indicare la strada al prossimo. Da quelli a cui promettono ricchezze, chiedono un soldo. Da quelle ricchezze prendano per sé un soldo di ricompensa, e ci dìano, come è dovuto, tutto il resto! E questo lo dice Ennio, che pochi versi prima afferma che gli dèi esistono, ma ritiene che non si curino delle cose umane. Io invece, che ritengo che gli dèi non solo se ne curino ma anche ci ammoniscano e ci predicano molte cose, credo nella divinazione, purché  ne siano escluse le forme ridicole, mendaci, fraudolente. Quando Quinto ebbe  finito di parlare in questo modo, io dissi: "Tu hai davvero sostenuto con bellissimi argomenti la tua tesi" ****

Versione di riferimento: S. Timpanaro

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