Cicerone - De legibus (Le leggi) - Libro II
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I. [1] Attico: - Dal momento che già abbiamo passeggiato abbastanza e tu devi iniziare un altro discorso, vuoi che cambiamo posto e nell'isola che è nel Fibreno - credo sia questo il nome di quell'altro braccio del fiume - proseguiamo la conversazione, mettendoci a sedere ?
Marco: - Certamente; molto volentieri infatti io mi fermo in quel posto, sia quando sono intento ad elaborare qualche progetto solo con me stesso, sia quando scrivo o leggo qualcosa.
[2] Attico: - Quanto a me, che sono venuto qui proprio in questa stagione, non sono stanco di saziarmene, ed al confronto mi sembrano un nulla le magnificenze delle ville ed i pavimenti di marmo ed i soffitti a cassettoni, come pure quei canali d'acqua che questa gente chiama Nili ed Euripi. Chi non sorriderebbe soddisfatto dopo aver visto questo paesaggio? Come tu poco fa discutendo di legge e di diritto riconducevi tutto alla natura, così anche in queste cose, che sono apprezzate per la distensione ed la gioia dell'animo, quella che domina è la natura. Per questo io prima mi stupivo, pensando che in questi luoghi non vi fossero altro che rocce e montagne, ed a ciò mi spingevano le tue orazioni ed i tuoi versi. Mi stupivo, come ho detto, che tu provassi tanto godimento in questi luoghi; ora invece mi stupisco che durante le tue assenze da Roma tu possa stare in qualche altra località.
[3] Marco: - Ma io, quando posso assentarmi per parecchi giorni, specialmente in questa stagione, vengo sempre a cercare l'amenità e la salubrità di questi posti, e purtroppo ciò mi è consentito molto raramente. Comunque mi dà motivo di allegria un'altra ragione ancora, che non ti riguarda da vicino, Tito.
Attico: - E qual è mai questa ragione?
Marco: - A dire il vero, questa è la patria comune mia e di mio fratello; infatti noi qui discendiamo da un antichissimo ceppo, sono qui le tradizioni religiose, qui la stirpe, qui molte tracce dei nostri antenati. Cos'altro? Ebbene, guarda questa villa, così com'è adesso, ristrutturata più riccamente per l'interessamento di nostro padre, ìl quale, a causa della salute malferma, qui trascorse quasi tutta la sua vita nelle occupazioni letterarie. Sappi che io sono nato proprio qui, quando era ancora in vita mio nonno e la villa era piuttosto piccola, secondo l'usanza antica, come quella di Curio in Sabina. Per questo c'è, nascosto nel profondo del mio animo e dei miei sentimenti, qualcosa di indefinibile, per cui questo luogo mi è ancora più caro, se è vero che anche quel famoso eroe molto saggio, per rivedere Itaca, è scritto che abbia rinunziato all'immortalità.
II. [4] Attico: - Io prendo per buono questo motivo, perché tu vieni qui più volentieri e prediligi questi posti; anzi, a dirti la verità, anch'io ora sono diventato più affezionato a quella villa e a tutta questa terra, in cui tu sei stato procreato e sei venuto alla luce. Noi infatti, non so perché, siamo commossi da quei luoghi, i quali conservano le tracce di coloro che amiamo o ammiriamo. Quella nostra stessa Atene ci allieta non tanto per le opere magnifiche e deliziose degli antichi quanto per il ricordo di grandissimi personaggi, e del luogo dove ciascuno era solito abitare, soffermarsi, discutere; con grande affetto io ne contemplo anche i sepolcri. Perciò d'ora in poi amerò ancora di più questo luogo dove sei nato.
Marco: - Sono lieto di averti mostrato quella che è quasi la mia culla.
[5] Attico: - Ed io sono molto contento di averne fatta la conoscenza. Ma come sta tuttavia il fatto, cui accennavi poco fa, cioè che questo luogo, Arpino, sarebbe la vostra patria naturale? Forse ne avete due, di patrie o è quella sola la patria comune? A meno che quel saggio Catone non abbia avuto come patria non Roma, ma Tuscolo.
Marco: - Per Ercole, io penso che tanto egli come tutti i municipali abbiano due patrie, una quella naturale, l'altra quella giuridica; e come quel famoso Catone, pur essendo nato a Tuscolo, fu accolto nella cittadinanza romana, così, essendo Tuscolano di nascita, e Romano per diritto di cittadinanza, ebbe l'una come patria naturale, l'altra di diritto. E per quanto riguarda i vostri Attici, prima che Teseo li costringesse a trasferirsi dai campi ed a riunirsi tutti in quella che si chiama città, essi erano nello stesso tempo ciascuno cittadino del proprio borgo ed anche Attici, così noi consideriamo patria sia quella in cui siamo nati, sia quella da cui fummo accolti. Ma è necessario dedicare il proprio amore soprattutto a quella, in virtù della quale il nome dello Stato è comune a tutti i cittadini, per la quale dobbiamo morire ed alla quale dedicarci interamente ed in cui riporre tutti i nostri interessi e quasi consacrarveli. Ma quella che ci ha generato è poi cara in misura non molto diversa da quella che ci ha accolto. Perciò io non negherò mai che questa è davvero la mia patria, pur essendo maggiore di essa quell'altra, e questa sia compresa in quell'altra [dalla quale ciascun municipale riceve il diritto] di una seconda cittadinanza e che considera l'unica patria.
III. [6] Attico: - Aveva ragione allora quel nostro Magno, quando affermò in tribunale, e lo sentii anch'io con le mie orecchie, mentre insieme a te difendeva Ampio, che il nostro Stato poteva essere assai riconoscente a questo municipio, perché da esso erano venuti fuori i suoi due salvatori, tanto che già mi sembra di essere convinto che anche questa che ti ha generato sia una tua patria. Ma siamo arrivati all'isola. Davvero nulla vi potrebbe essere di più ameno. Infatti il Fibreno è tagliato quasi come da un rostro e, diviso in due rami eguali, lambisce questi fianchi e scorrendo velocemente in un attimo confluisce in un unico braccio, abbracciando tanto di quel terreno che sarebbe sufficiente per una palestra di medie dimensioni. Subito dopo, come se questo fosse suo compito e dovere, di costruirci cioè un posto per la nostra discussione, si getta nel Liri, e, quasi come se fosse entrato in una famiglia patrizia, abbandona il suo nome piuttosto oscuro, e rende il Liri molto più fresco. Infatti io non ho mai toccato acqua più fresca di questa, pur avendone provate molte, al punto che a mala pena posso provarla col piede, come fa Socrate nel Fedro di Platone.
[7] Marco: - E' proprio così; eppure quel tuo Thyami in Epiro, come spesso sento dire da Quinto, non avrebbe nulla da invidiare all'amenità di questo luogo.
Quinto: - Sì; ma guardati bene dal credere che vi possa essere qualcosa di meglio della tenuta di Amalthio e di quei platani del nostro Attico. Ma, se così pare, sediamoci qui all'ombra, e ritorniamo a quella parte della discussione, da cui abbiamo divagato.
Marco: - La tua richiesta è giusta, Quinto - ma io già pensavo d'essermela cavata -, e nessuno di questi tuoi desideri può restare insoddisfatto.
Quinto: - Allora incomincia; infatti ti stiamo dedicando tutta l'intera giornata.
Marco: - "Da Giove il principio delle Muse", come ho esordito nel carme arateo.
Quinto: - E perché questo?
Marco: - Perché nello stesso modo adesso bisogna dare inizio alla trattazione partendo dal medesimo e dagli dèi immortali.
Quinto: - Benissimo, fratello, e ben conviene che così si faccia.
IV. [8] Marco: - Dunque, prima di passare alle singole leggi, vediamo di nuovo l'efficacia e la natura della legge, ad evitare che, dovendo riportare tutto ad essa, si scivoli talvolta in qualche errore di linguaggio e si trascuri l'importanza di quel metodo in base al quale dobbiamo definire i princìpi giuridici.
Quinto: - Bene per Ercole, ed è questa la via giusta dell'insegnamento.
Marco: - Vedo che questa fu l'opinione degli uomini più sapienti, cioè che la legge non è stata elaborata dagli umani intelletti, né essa sia un qualche decreto dei popoli, ma qualcosa di etemo, che governa l'universo con la saggezza nel comandare e nell'obbedire. Dicevano esattamente così, che prima e suprema legge era la mente del dio che tutto razionalmente o impone o vieta. Con tali presupposti fu esaltata quella legge che gli dèi diedero al genere umano; essa infatti è la ragione e la mente del saggio, atta a comandare e a distogliere.
[9] Quinto: - Già più volte hai toccato questo argomento. Ma prima di venire alle leggi relative ai popoli, spiegaci, per favore, la natura di questa legge celeste, affinchè l'onda dell'abitudine non ci travolga e ci spinga sulla strada di una comune conversazione.
Marco: - Fin da fanciulli, Quinto, ci è stato insegnato a chiamare leggi il " Se chiama in giudizio " ed altre espressioni di tal genere. Ma così occorre intendere, cioè che questi ed altri analoghi precetti e divieti dei popoli hanno la forza di invitare alle azioni corrette e di allontanare dalle colpe, forza che non soltanto è più antica dell'età stessa dei popoli e degli Stati, ma è coeva di quel dio che protegge e governa il cielo e le terre.
[10] Non può infatti esserci un intelletto divino senza raziocinio, né ragione divina che non abbia il potere di stabilire per legge il giusto e l'ingiusto; e poiché in nessun luogo stava scritto che egli da solo dovesse resistere a tutte le forze dei nemici su di un ponte, e dare ordine che il ponte venisse tagliato alle sue spalle, tanto meno per questo crederemo che quel Coclite abbia compiuto una impresa tanto grande sotto l'imperativo d'una legge; e neppure che, se sotto il regno di L. Tarquinio non vi era in Roma alcuna legge scritta circa la violenza carnale, in contrasto con quella legge etema, Sesto Tarquinio non abbia recato violenza a Lucrezia, figlia di Tricipitino. Vi era infatti una norma, derivata dalla stessa natura, che spinge al ben fare e tiene lontani dal delitto, la quale non incomincia ad essere legge solo nel momento in cui viene scritta, ma fin da quando è nata. E precisamente essa ebbe origine insieme all'intelletto divino. Motivo per cui la prima e vera legge, efficace nel comandare e nel proibire, è la retta ragione del sommo Giove.
V. [11] Quinto: - Sono d'accordo, fratello, che quanto è giusto e vero debba essere [anche etemo], e non debba sorgere o perire con i segni, con cui si scrivono i decreti.
Marco: - Dunque, come quella mente divina è la legge suprema, allo stesso modo, quando è portata alla perfezione nell'uomo, [risiede] nella mente del saggio.Ma quelle che variamente e secondo l'occasione vengono sancite per i popoli, assumono il nome di leggi più per un privilegio che per la sostanza. Alcuni esperti insegnano infatti, con una serie di argomentazioni simili, che ogni legge che veramente si possa chiamare legge, è degna di lode. E' noto a tutti che le leggi furono elaborate per la salvezza dei cittadini e l'incolumità degli Stati, nonché per una vita tranquilla e felice dell'umanità; e quelli che per primi stabilirono norme del genere, dimostrarono ai popoli che essi avrebbero scritto e proposto norme che, se riconosciute ed accettate, avrebbero loro permesso di vivere rettamente e felicemente. Tutte le norme a tal fine composte e promulgate le chiamarono leggi. Dal che è facilmente comprensibile che, coloro i quali prescrissero ai loro popoli regolamenti dannosi ed ingiusti, e avendo fatto l'opposto di quanto avevano promesso e dichiarato, promulgarono qualunque cosa, ma non delle vere leggi, quindi è chiaro che nella stessa interpretazione del nome di legge è insita la sostanza ed il criterio della scelta del giusto e del vero.
[12 ] Perciò, nello stesso modo in cui ancora si comportano di solito quegli studiosi, ti chiedo, Quinto, è forse da annoverarsi tra i beni quell'elemento che, se mancasse ad uno Stato, proprio per fatto che manchi dovrebbe essere considerato come per nulla esistente?
Quinto: - Sì, e tra i più importanti.
Marco: -Ed uno Stato che sia privo di legge non è forse proprio per questo motivo da considerarsi come inesistente?
Quinto: - Non si potrebbe dire altrimenti.
Marco: - Dunque la legge deve essere considerata tra le cose migliori.
Quinto: - Sono ancora pienamente d'accordo.
[13] Marco: - E che dire del fatto che vengono sancite molte disposizioni dannose nei confronti dei popoli, molte persino esiziali, ma ciò nonostante queste non portano il nome di legge, peggio che se dei furfanti le avessero stabilite nelle loro bande? Infatti non si possono chiamare realmente prescrizioni dei medici nel caso che essi, per ignoranza ed imperizia, abbiano prescritto sostanze letali in luogo di salutari, e nemmeno una legge relativa a un popolo, qualunque essa sia, può essere detta legge, posto che il popolo ne abbia ricevuto qualche danno. La legge pertanto è la distinzione del giusto e dell'ingiusto manifestata in conformità alla natura, che è il più antico e principale di tutti gli elementi a cui fanno riferimento le leggi umane, che colpiscono con pene i malvagi, e difendono e proteggono gli onesti.
VI. Quinto: - Capisco perfettamente e penso che ormai non solo non si dovrebbe considerare tale alcuna altra legge, ma nemmeno denominarla così.
[14] Marco: - Allora tu non consideri affatto leggi le Tizie e le Apuleie ?
Quinto: - Io francamente nemmeno le Livie.
Marco: - Ed hai ragione, dal momento che esse furono abrogate in un solo istante e con un'unico tratto di penna del senato. Invece quella legge, di cui ho spiegato l'efficacia, non può essere soppressa né abrogata.
Quinto: - Tu allora presenterai delle leggi tali, che non possano mai essere abrogate.
Marco: - Certamente, purché vengano accettate da voi due. Ma come ha fatto il sapientissimo Platone, peraltro il più autorevole di tutti i filosofi, il quale per primo scrisse su lo Stato, e poi, a parte, sulle sue Leggi, credo che anch' io dovrò fare la stessa cosa, cioè, prima enunciare la legge, quindi farne le lodi. E questo, a quel che vedo, è quanto hanno fatto anche Zaleuco e Caronda, pur avendo essi scritto le loro leggi per le città non già per esercizio scolastico o per passatempo, ma per il bene del loro Stato. E dietro il loro esempio, Platone certamente ritenne che anche questa fosse una caratteristica specifica della legge, di convincere di qualche cosa, e non imporre tutto costringendo con le minacce e con la forza.
[15] Quinto: - Ma che importanza ha questo, dal momento che Timeo afferma che codesto Zaleuco non è mai esistito?
Marco: - Ma [lo afferma] invece Teofrasto, autore per nulla inferiore a mio parere - molti anzi lo dicono migliore- , e poi lo ricordano i suoi stessi concittadini, i miei clienti locresi. Ma che egli sia esistito oppure no, non importa per il nostro tema: noi riferiamo ciò che è stato tramandato.
VII. Sia dunque chiaro ai cittadini questo fin dall'inizio, che gli dèi sono padroni e reggitori di tutto l'universo, e che tutto quello che viene compiuto, è compiuto con il loro giudizio e la loro volontà, e che essi medesimi sono i maggiori benefattori del genere umano. Essi scorgono quale ciascun uomo sia, che cosa faccia, che cosa abbia nel suo intimo, con quale animo e quale pietà coltivi la religione, e inoltre essi tengono conto dei pii e degli empi; [16] e se gli animi assorbiranno questi principii, è certo che non si allontaneranno mai da idee valide e veraci. Cosa vi è infatti di più vero del fatto che nessuno debba essere superbo in una forma tanto sciocca, da credere di avere dentro di sé intelletto e ragione, e negarlo nel cielo e nel mondo? O da pensare che [nessuna] mente governi il movimento di quegli oggetti che a mala pena [possono essere conosciuti da una mente] sia pure di grandissima capacità? Perché mai conviene includere tra gli uomini uno che non si senta costretto alla gratitudine dall'ordine degli astri, dall'altemarsi dei giorni e delle notti, dal variare della temperatura e da tutto ciò che nasce per il nostro vantaggio? In fondo, poiché tutto ciò che è fornito di ragione è superiore a ciò che è privo della ragione, e non è lecito affermare che una singola individualità sia superiore all'universale, si dovrebbe aver fiducia che esista in questa universale natura l'esistenza di una ragione. E chi negherebbe che queste idee siano valide, se ci rendiamo conto di quanti patti si rafforzano con un giuramento, quanto vantaggio apportino gli accordi solenni, quanti siano quelli allontanatisi dalla colpa per il timore della punizione divina, e quanto sia sacra l'unione dei cittadini, quando fra di loro si inseriscono gli stessi dèi immortali, talora come giudici, talora come testimoni? Ecco qui il fondamento della legge; così infatti lo definisce Platone.
[17] Quinto: - Giusto, fratello, e mi rallegro moltissimo che tu segua argomenti e concetti diversi dai suoi. Non vi è nulla infatti di tanto diverso da quanto hai detto o dalla stessa introduzione sulle divinità; questo soltanto mi sembra che tu voglia imitare, cioè il genere del discorso.
Marco: - Forse lo vorrei; ma chi potrebbe, o potrà mai imitarlo? Infatti è facilissimo tradurre i concetti; cosa che vorrei fare, se non preferissi essere del tutto originale. Quale difficoltà infatti vi sarebbe ad esprimere le stesse cose, tradotte pressoché con le stesse parole?
Quinto: - Sono completamente d'accordo; però, come appunto tu hai affermato, preferisco che tu sia te stesso. Ma ormai, se ti fa piacere, esponi pure queste leggi sulla religione.
[18] Marco: - Le esporrò certo, secondo le mie capacità, e dal momento che il luogo e la conversazione mi sono familiari, proporrò le leggi con la forma tipica delle leggi.
Quinto: - Che significa questo?
Marco: - Vi sono determinate espressioni legali, Quinto, non così antiquate come nelle vecchie XII tavole e nelle leggi sacrate, e pur tuttavia un po' più arcaicizzanti di questa nostra conversazione, tali da assumere una maggiore autorità. E, se mi sarà possibile, cercherò di accompagnare questo stile con la brevità. Infatti non riporterò delle leggi complete - cosa che andrebbe per le lunghe -, ma solo il sommario ed il contenuto dei vari paragrafi.
Quinto: - E' necessario procedere così; e allora ascoltiamo.
VIIl [19] Marco: - "Si accostino castamente agli dèi, facciano uso della pietà, allontanino lo sfarzo. Se qualcuno agisse in maniera diversa, dio stesso lo punirà. - Nessuno abbia dèi particolari, né nuovi né forestieri, se non pubblicamente riconosciuti; in privato coltivino i [culti che ricevettero ] secondo il rito dei loro padri. - Vi siano templi [nelle città]; vi siano boschi sacri nelle campagne e sedi dei Lari. - Conservino i riti della famiglia e dei padri. - Onorino gli dèi, sia quelli da sempre ritenuti celesti, sia quelli che i loro meriti abbiano posti in cielo, Ercole, Libero, Esculapio, Castoro, Polluce, Quirino, cosi quelle Virtù, per cui è concesso all'uomo l'ascesa al cielo, Mente, Valore, Pietà filiale, Fede, e di queste virtù vi siano templi, nemmeno un'ombra dei vizi . - Celebrino solenni sacrifici. - Dalle feste tengano lontani i litigi, e le osservino per i servi, una volta terminate i lavori, e sia stabilito in modo che ciò cada negli intervalli dell'anno. Determinati frutti e determinate messi, i sacerdoti le offrano pubblicamente. Questo sia compiuto in sacrifici e giorni fissati;
[20] e parimenti riservino ad altri giorni una quantità di latte e di animali appena nati; perché ciò non possa essere trascurato, i sacerdoti determinino norma e annue ricorrenze; e provvedano quelle vittime che siano a ogni dio belle e gradite. - Vi sia per ogni dio un sacerdote, per tutti il pontefice, ai singoli i flamini. E le vergini Vestali nella città custodiscano il fuoco perenne del focolare pubblico. - In quale modo e secondo quale rito questo si faccia in pubblico ed in privato, lo apprendano i profani dai pubblici sacerdoti. Di questi, tre siano i tipi, uno che presieda le cerimonie ed i sacrifici, l'altro interpreti le oscure risposte degli indovini e dei vati, che saranno approvate dal senato e dal popolo; inoltre gli interpreti di Giove Ottimo Massimo, i pubblici àuguri, facciano previsioni dai presagi e dagli auspici, osservino la regola,
[21] i sacerdoti, facciano pronostici per i vigneti, i vincheti e la salute del popolo, e quelli che si occuperanno di duelli o deliberazioni per il popolo, consultino gli auspici e li osservino. Prevedano le ire degli dèi e obbediscano, e distinguano le folgori, determinate le regioni del cielo; tengano purificati e consacrati la città, le campagne, i templi. Tutto ciò che l'augure avrà dichiarato iniquo, nefasto, irrituale, di cattivo augurio, sia privo di effetto e come non fatto; e chi non l'osservi, a morte sia condannato".
IX. " Della ratifica degli atti di pace, di guerra, di tregua siano i feziali giudici, messaggeri, discutano della guerra. -Riferiscano i prodigi, i portenti ad aruspici etruschi, se il senato lo comandò, e l'Etruria ammaestri nella disciplina gli ottimati. Agli dèi cui sia stato attribuito per decreto, facciano sacrifici ed i medesimi facciano espiazioni delle folgori e delle cose folgorate. - Non vi siano riti notturni di donne, salvo quelli che legalmente si faranno secondo decreto del popolo; né inizino alcuno secondo il rito greco, se non a Cerere, come consentito dall'usanza.
[22]- Un sacrilegio commesso che non potrà essere espiato, sia come una empietà commessa; quello che potrà essere espiato, lo espiino i pubblici sacerdoti. - Nei pubblici giochi, ove avvengano, sia con corse, sia con gare ginniche, moderino la popolare letizia nel canto e nelle cetre e nei flauti, e questa uniscano alle onoranze agli dèi. - Dei patrii riti coltivino gli ottimi. - Eccetto i servi della madre Idea, e questi in giorni fissati per legge, nessuno faccia collette. -Chi ruberà o rapirà cosa sacra o consacrata, sia parricida. - Dello spergiuro pena divina sia la morte, quella umana l'infamia. - I pontefici puniscano con la pena massima l'incesto. - L'empio non osi placare l'ira divina con doni. - Vi sia cautela nel fare voti; vi sia una pena per un diritto violato. Perciò nessuno consacri campagne. Vi sia un limite nel consacrare oro, argento, avorio. - I riti privati siano perpetui. - Inviolabili siano i diritti degli dèi Mani. Considerino dèi i buoni deceduti; per essi siano ridotti la spesa ed il lutto".
X. [23] Attico: - Hai sintetizzato una grande legge nella forma più breve! Ma, a parere mio, questa costituzione religiosa non differisce molto dalle leggi di Numa e dalle nostre usanze.
Marco: - Poiché in quei libri sullo Stato sembra che l'Africano dichiari, di tutti gli ordinamenti civili, che quello nostro antico è stato il migliore, forse non ritieni che si debbano attribuire leggi adeguate ad un ottimo Stato?
Attico: - In realtà la penso esattamente così.
Marco: - Ed allora aspettatevi delle leggi che governino quel tipo ottimo di Stato, e se per caso io oggi ne proporrò alcune che non esistono né esisteranno nel nostro Stato, esse tuttavia sono esistite più o meno come consuetudine degli antenati, che aveva allora forza di legge.
[24] Attico: - Illustra dunque, se credi, proprio codesta legge, affinchè io possa pronunziare il " Sia come proponi".
Marco: - Questo tu dici? Non hai intenzione di dire qualcosa di diverso, Attico?
Attico: - Certamente non mi pronunzierò mai diversamente sulle questioni più importanti, ed in quelle di minor importanza, se vuoi, mi rimetterò a te.
Quinto: - Sono anch'io dello [stesso] avviso.
Marco: - Ma badate che non diventi cosa lunga.
Attico: - Magari fosse così! Che cosa infatti potremmo preferire di fare?
Marco: - La legge ordina di accostarsi con purezza agli dèi, purezza d'animo naturalmente, poiché in essa tutto è compreso; non esclude però la purezza del corpo, ma occorre che si capisca questo, cioè che, essendo l'anima considerata superiore al corpo, se ci si deve presentare con purezza di corpo, questo principio sarebbe molto più necessario osservarlo nell'anima. Quello infatti può essere purificato o con lustrazioni o col trascorrere di un certo numero di giorni; ma la macchia dell'anima non può né svanire col tempo né detergersi con l' acqua di un fiume.
[25] Il fatto poi che essa imponga di usare la pietà e di eliminare il fasto, significa che l'onestà è gradita a dio, e che il lusso deve essere tenuto lontano. Quindi, anche tra gli uomini vogliamo che povertà e ricchezza si equivalgano; e perché allora vorremmo tener lontana la prima dall'accostamento agli dèi, aggiungendo lusso al culto? tanto più che nulla sarebbe meno gradito al dio di questo, che la via per placarlo e onorarlo non fosse aperta a tutti. E che non un giudice, ma il dio stesso si è costituito vindice, è dovuto al fatto che il sentimento religioso sembra essere rafforzato dal timore di una punizione immediata. Venerare poi gli dèi personali, o nuovi o forestieri, comporterebbe la confusione dei culti e dei riti sconosciuti ai nostri sacerdoti.
[26] Si stabilisce infatti che siano venerati gli dèi tramandati dai padri, a condizione che i padri stessi abbiano seguito questa legge. Io ritengo che nelle città vi debbano essere dei templi, e non concordo con i magi dei Persiani, per consiglio dei quali si dice che Serse bruciò i templi della Grecia, perché rinchiudevano entro pareti quegli dèi ai quali tutto dovrebbe essere aperto e libero, e dei quali tutto questo mondo è tempio e sede.
XI. Meglio si comportarono invece gli Elleni ed i nostri padri, i quali vollero che essi abitassero le stesse città nostre, affinché aumentasse la pietà verso gli dèi; questa credenza sostiene infatti che il culto sia utile alle città, se, come disse il dottissimo Pitagora, proprio allora la pietà ed il culto maggiormente si radicano negli animi, cioè quando ci dedichiamo alle cose divine; e ricordiamo il detto di Talete, uno dei sette sapienti, che gli uomini sono convinti che tutto [quanto] vedono debba essere pieno di dèi; tutti saranno infatti più puri, come se si trovassero in templi che ispirano la massima religiosità . Secondo questo concezione infatti, si presenta una certa immagine degli dèi non soltanto negli animi, ma anche innanzi agli occhi.
[27] Identica giustificazione hanno nelle campagne i boschi sacri. Né si deve ripudiare il culto tramandato dagli antenati tanto per i padroni quanto per i servi, quello dei Lari, la cui sede sta di fronte alla villa e al podere. Quindi osservare i riti della famiglia e degli antenati significa questo, conservare un culto quasi tramandato dagli stessi dèi, perché gli antichi vengono a trovarsi assai vicino agli dèi. La legge prescrive poi di onorare quanti tra gli uomini vennero divinizzati, come Ercole e gli altri, indicando così che le anime di tutti sono immortali, ma divine soltanto quelle dei forti e dei buoni.
[28] Ed è bene che siano consacrate la Ragione, la Pietà, la Virtù, la Fede; a tutte queste sono dedicati in Roma dei templi in maniera tale che, tutti quelli che le posseggono - e le posseggono tutti i buoni - pensino di avere nel loro animo gli dèi stessi. Colpevole azione fu, in realtà quella degli Ateniesi; per espiare il delitto commesso contro Cilene, dietro consiglio del cretese Epimenide essi innalzarono un tempio all'Offesa ed all'Impudenza, [e per di più grande, e fece consacrare nei ginnasi le statue degli Amorini e dei Cupidi, consiglio audace che la Grecia accettò]. Sarebbe logico infatti consacrare le virtù, non i vizi. E l'antico altare alla Febbre sul Palatino e l'altro sull'Esquilino alla Cattiva Fortuna e tutte le opere di questo genere per noi esecrabili sono da ripudiare. Infatti, se sarà necessario personificare dei nomi, lo saranno piuttosto quello di Vica Pota, da vincere ed impadronirsi, di Stata da conservare, di Giove Statore ed Invitto e di quante altri beni sono desiderabili, della Salute, dell'Onore, dell'Abbondanza, della Vittoria. E poiché l'animo si conforta nell'attesa dei beni, giustamente fu consacrata da Calatino anche la Speranza. E sia divinizzata anche la Fortuna, o Quella del giorno - infatti vale per tutti i giorni -, o Quella che guarda indietro per recar aiuto, o la Fortuita, con cui si rappresentano piuttosto gli avvenimenti incerti, o la Primigenia, la prima nascita, compagna ora nel momento del concepimento...*
XII. [29] L'osservanza delle ferie, cioè dei giorni festivi, comporta per gli uomini liberi la tregua delle liti e delle contese, per i servi quella dei lavori e delle fatiche; ed il calendario annuale deve metterle in relazione con il termine dei lavori agricoli. Bisogna stare attenti ai giorni intercalari per il periodo in cui vengono presentate le offerte sacrificali ed i nati del bestiame, secondo le norme della legge; tale regola, stabilita egregiamente da Numa, venne poi vanificata dalla negligenza dei pontefici successivi. Ed ancora, delle prescrizioni dei pontefici e degli aruspici non bisogna mutare nulla di quanto concerne la scelta delle vittime da sacrificare a ciascun dio, a chi offrire le adulte ed a chi le lattanti, a chi i maschi ed a chi le femmine. Inoltre parecchi sacerdoti per tutti gli dèi ed uno particolare per ciascuno, danno la possibilità di interpretare le norme giuridiche e di celebrare i riti. Poiché Vesta, come fu chiamata con un nome greco - che noi mantenemmo quasi tale e quale senza tradurlo -, presiede al focolare della città, sia circondata, le stiano accanto sei fanciulle per vigilare più facilmente la custodia del fuoco e perché le donne sappiano che anche la natura femminile può affrontare l'assoluta castità.
[30] Quanto segue, non riguarda soltanto la religione, ma anche la costituzione civile, col precetto che non si possa attendere ai culti privati senza la presenza di coloro i quali presiedono pubblicamente al culto; tale norma significa infatti che lo Stato ed il popolo hanno sempre bisogno del consiglio e dell'autorità degli ottimati. La distinzione dei sacerdoti non trascura alcun genere di culto legittimo. Gli uni infatti sono stabiliti per placare gli dèi, per presiedere le cerimonie solenni, gli altri per interpretare i responsi dei vati, e non già di molti, che non si finirebbe più; questo perchè nessun estraneo al collegio possa venire a conoscenza delle profezie riconosciute dai pubblici poteri.
[31] Grandissimi ed importantissimi sono infatti nello Stato i diritti e l'autorità degli àuguri. Tuttavia io non la penso così, perché sono anch'io augure, ma perché pensarla così è una necessità. Se infatti ci interessiamo al diritto, quale facoltà esiste maggiore del poter troncare se incominciate, o annullare se già tenute, le assemblee e le adunanze convocate dalle più alte autorità militari e dai più alti poteri dello Stato? Che c'è di più serio dell'interrompere un affare incominciato, se un augure ha detto" ad altro giorno "? E cosa c'è più straordinaria della facoltà di decidere che i consoli rinuncino alla loro carica? o cosa più solenne del concedere o rifiutare il diritto di trattare col popolo, con la plebe? Che cosa, dunque? Annullare una legge proposta illegalmente, come nel caso della Tizia, per decreto del collegio; come nel caso delle Livie, su proposta del console ed augure Filippo ? Il poter dimostrare a ciascuno che nulla si può fare per mezzo dei magistrati senza la loro autorità, né in pace, né in guerra?
XIII. [32] Attico: - Sì, osservo e ammetto che tutto ciò è importante; ma esiste un grave dissenso nel vostro collegio tra gli àuguri migliori, Marcello ed Appio - infatti anch'io mi sono imbattuto nei loro libri -, sostenendo l'uno che gli auspici furono studiati per vantaggio dello Stato, mentre all'altro sembra che con la vostra scienza si possa quasi aver la conoscenza del futuro. Ti prego di esprimere il tuo pensiero su tale questione.
Marco: - Io? Personalmente ritengo che effettivamente esista la divinazione, che i Greci chiamano "mantica", ed in particolare quella sua parte che riguarda i presagi degli uccelli e quegli altri segni che fanno parte della nostra scienza. Se ammettiamo infatti che esistano gli dèi, e che il mondo sia governato dal loro intelletto, e che essi stessi provvedano al genere umano e abbiano il potere di mostrarci i presagi degli eventi futuri, non vedo perché dovrei negare l'esistenza della divinazione.
[33] Esiste dunque ciò che ho detto nella premessa, dal che si conclude necessariamente quanto vogliamo. Certamente la storia del nostro paese è ormai piena di moltissimi esempi, e tutti i regni ed i popoli e le nazioni (testimoniano) che molti fatti incredibili ma veri accaddero secondo le profezie degli àuguri. Non sarebbe stata così grande la fama di Poliidio né di Melampo né di Mopso né di Amfiarao né di Calcante né di Eleno, né tante nazioni avrebbero perpetuato quest'arte fino ad oggi, come quella dei Frigi, dei Licaoni, dei Cilici e soprattutto dei Pisidi, se gli antichi non avessero attestato la veridicità di quelle profezie. Nemmeno il nostro Romolo avrebbe rispettato gli auspici per fondare la città, né il nome di Atto Navio sarebbe rimasto tanto a lungo nel nostro ricordo, se tutti costoro non avessero pronunziato molti sorprendenti vaticini conformi a verità. Ma non c'è alcun dubbio che tutto il complesso di questa scienza ed arte augurale sia ormai svanita per vetustà e trascuratezza. Non sono quindi d'accordo né con chi afferma che non è mai esistita una simile scienza nel nostro collegio, né con chi la ritiene tuttora esistente. A me pare che questa scienza ed arte abbia avuto due aspetti presso i nostri antenati, sì da coinvolgere talvolta circostanze politiche, ma molto spesso da dettare norme di comportamento.
[34] Attico: - Per Ercole, credo che sia proprio così e soprattutto approvo questa tua interpretazione. Ma esponi tutto il resto.
XIV. Marco: - Lo esporrò; e, se mi sarà possibile, anche in breve. Il seguito infatti riguarda il diritto di guerra; nell'intraprenderla e condurla a termine abbiamo sancito per legge che si desse la massima importanza al diritto ed alla lealtà, e che di tali aspetti vi fossero degli interpreti pubblici. Quanto poi al rito degli aruspici, alle espiazioni ed alle purificazioni credo che se ne parli con sufficiente chiarezza nel testo stesso della legge.
Attico: - Per me va bene, poiché tutto questo discorso è incentrato sul culto.
Marco: - Però su ciò che segue vorrei chiederti, Tito, in qual modo tu saresti d'accordo [o] io potrei riprendere la discussione.
Attico: - Su quale punto in particolare?
[35] Marco: - Sui riti notturni delle donne.
Attico: - Ma io sono d'accordo, considerato che nella stessa legge si fa eccezione per i riti solenni e pubblici.
Marco: - Ma allora che ne sarà di Bacco e de nostri Eumolpidi e di quegli augusti misteri, se eliminiamo le cerimonie notturne? Noi non stiamo dando leggi al solo popolo romano, ma a tutti i popoli civili e in possesso di ordinamenti stabili.
[36] Attico: - Fai un'eccezione, credo, per quei riti ai quali siamo stati iniziati.
Marco: - Li escluderò, non ho dubbi in proposito; infatti la tua Atene mi sembra abbia dato origine a molti ed egregi principii umani e religiosi, e li abbia introdotti nella vita umana, ma poi non vi fu nulla di meglio di quei misteri, dai quali, venuti fuori da vita rozza ed inumana, siamo stati educati e addolciti alla civiltà, e, quindi si chiamano iniziazioni, perché abbiamo conosciuto i princìpi della vita nella loro vera essenza; e non soltanto abbiamo appreso il modo di vivere con gioia, ma anche quello di morire con una speranza migliore. Quello però che a me potrebbe dispiacere nelle celebrazioni notturne ce lo indicano i commediografi. Se tale concessione fosse fatta in Roma, che mai avrebbe compiuto quel tale, che introdusse con premeditazione la sua libidine in un rito sacro, dove non era lecito gettare uno sguardo neppure involontario?
Attico: - Tu proponi dunque questa legge particolare per Roma; ma non togliere a noi le nostre.
XV. [37] Marco: - Allora ritorno alle nostre leggi; e queste certamente dovranno sancire con la massima cautela che una chiara luce custodisca con gli occhi di molti la reputazione delle donne e che esse vengano iniziate a Cerere con quel rito con cui vengono iniziate in Roma. Intorno a quest'argomento l'antica legislazione del senato sui Baccanali ed il processo e la punizione messa in atto anche con l'impiego dell'esercito consolare, testimoniano la severità dei nostri antenati. Proprio nel centro della Grecia, - tanto per non dare l'impressione che noi siamo troppo intransigenti -, il tebano Pagonda soppresse tutte le cerimonie notturne con una legge irrevocabile. Aristofane, il più brillante poeta della commedia antica, sferza tanto le nuove divinità e le prolungate veglie notturne usate nei loro culti, da rappresentarci nella sua opera Sabazio e altre divinità forestiere cacciate dalla città. Un pubblico sacerdote poi deve liberare da ogni timore la colpa involontaria espiata deliberatamente, deve invece condannare e giudicare empia la sfrontatezza nelle [cerimonie] e nell'introdurre riti sconci.
[38] I giochi pubblici, poiché si tengono separatamente nel teatro e nel Circo, siano gare ginniche consistenti in corse, pugilato, lotta e corse di cavalli stabilite per il Circo fino a vittoria sicura, e il teatro invece si dedichi al canto e al suono delle cetre e dei flauti, purché con quella moderazione che la legge prescrive. Ritengo infatti con Platone, che nulla suggestiona di più gli animi sensibili e plasmabili che i varii suoni musicali, dei quali difficilmente si potrebbe dire quanto grande sia l'efficacia in entrambi i sensi: infatti la musica eccita i languidi ed illanguidisce gli eccitati, ed ora distende gli animi, ora li mette su, e interessò a molte città della Grecia conservare l'antico stile musicale. Infatti i loro costumi, rammollitisi, si mutarono insieme con la musica, o corrotti dalla sdolcinatezza e dall'involuzione di essa, come ritengono alcuni, ovvero in seguito alla decadenza della sua severità per causa di altri difetti, anche tale mutamento abbia potuto trovare allora accoglienza in orecchie ed animi già di per sé cambiati.
[39] Perciò quel sapientissimo e dottissimo uomo Greco teme assai questo contagio. Egli afferma infatti che le leggi della musica non si possono cambiare senza un cambiamento parallelo delle leggi dello Stato. Io poi penso che non ci sia ragione per un così grave timore, ma neppure di tenerne pochissimo conto; certamente vedo bene come quelle teatri, che una volta di solito risonavano della lieta compostezza dei ritmi liviani e neviani, adesso si esaltino distorcendo teste ed occhi insieme alle modulazioni dei suoni. Queste mode un tempo erano represse pesantemente da quella Grecia antica, che vedeva già come quella tara, penetrata a poco a poco nell'animo dei cittadini, con cattive tendenze e nefaste dottrine avrebbe improvvisamente sconvolto intere città, se è vero che la severa Sparta fece tagliar via dalla cetra di Timoteo le corde superiori a sette.
XVI. [40] Segue poi nel testo della legge, che dei culti patrii si osservino i migliori; in merito a questo gli Ateniesi consultarono Apollo Pizio, per sapere quali culti cioè si dovessero assolutamente mantenere, e l'oracolo rispose: " Quelli che già fossero nell'usanza degli antenati ". E dopo essersi recati una seconda volta, dicendo che le usanze dei padri erano spesso mutate, essi chiesero quale usanza fra le tante così varie dovessero seguire in particolare, l'oracolo rispose: " La migliore ". E senza dubbio è così, che debba esser considerato più antico e più vicino al dio ciò che è il meglio. Abbiamo soppresso le collette, salvo quella che si fa per pochi giorni in onore della Madre Idea; esse infatti di solito riempiono gli animi di superstizioni e svuotano le case di danaro. Una punizione è stabilita per il sacrilego, e non per quello solo che abbia trafugato un oggetto sacro, ma anche per chi abbia sottratto oggetti affidati a luoghi sacri.
[41] E' un deposito che ancora oggi si fa in molti santuari. Si dice che una volta Alessandro depositò il suo tesoro in Cilicia in un tempio dei Solensi, e che l'ateniese Clistene, cittadino illustre, poiché temeva per i suoi beni, affidò la dote delle figlie al tempio di Giunone Samia. Ora non è affatto il caso di discutere degli spergiuri, né dell'incesto. Gli empi non abbiano il coraggio di placare gli dèi con doni, ascoltino piuttosto Platone, il quale proibisce tassativamente di nutrire dubbi circa l'atteggiamento del dio, dal momento che neppure uno, che sia onesto, vuol ricevere doni da un malvagio. E' sufficientemente detto nella legge circa la scrupolosità dei voti e la promessa da cui, per mezzo del voto, siamo vincolati verso la divinità. Ma la punizione per la profanazione di una cerimonia sacra non ammette eccezione legittima. A che scopo infatti dovrei citare qui esempi di empi, di cui sono piene le tragedie? Toccherò piuttosto quei fatti che stanno innanzi agli occhi di tutti. Pur temendo che il ricordare tali vicende possa sembrare cosa superiore alla condizione umana, tuttavia, parlando con voi, non tacerò nulla, e vorrei che quanto dico riuscisse gradito agli dèi immortali, piuttosto che offensivo.
XVII. [42] Alla mia partenza, dal delitto di cittadini scellerati furono contaminate tutte le leggi sacre, profanati i nostri Lari familiari, al loro posto fu edificato un tempio alla Licenza, e dagli altari fu scacciato colui che li aveva salvati; considerate rapidamente - non è infatti il caso di fare il nome di alcuno- quali siano state le conseguenze. Noi, che non avevamo permesso che quella custode della città fosse violata dai sacrileghi, pur in mezzo alla distruzione ed alla dispersione dei nostri beni, e l'avevamo trasferita dalla casa nostra in quella del suo genitore, ci siamo meritati il riconoscimento da parte del senato, dell'Italia, ed infine di tutti i popoli, d'avere salvato la patria e che cosa di più eccezionale sarebbe potuta accadere ad un uomo? Coloro invece, per il cui delitto la religione era allora stata calpestata e profanata, in parte se ne stanno dispersi e sbandati; e quanti fra loro erano stati i principali responsabili di questi delitti ed empi più d'ogni altro verso ogni culto, non solo patirono in vita [ tormenti] e disonore, ma furono privi di sepoltura e di onoranze funebri.
[43] Quinto: - So tutto questo, fratello, e ne ringrazio gli dèi perché lo meritano; ma mi sembra che troppo spesso stiamo divagando un po'.
Marco: - Infatti non sappiamo valutare esattamente, Quinto, quale sia il castigo divino, ma dalle opinioni del popolino siamo indotti in errore e non vediamo il vero; noi misuriamo le miserie umane o in base alla morte o al dolore fisico o alla tristezza spirituale o all'onta di un processo; tutti fatti che ammetto essere inerenti alla natura umana e che sono accaduti a molti uomini dabbene. Ma la punizione di un delitto è triste, e, pur prescindendo dalle conseguenze, è già gravissima di per se stessa. Vediamo coloro, i quali mai avrei avuto come avversari se non avessero odiato la patria, ora bruciati da cupidigia, ora da timore, ora da rimorso, ora dubbiosi, qualunque cosa facciano, e d'altra parte sprezzanti della religione; i processi inquinati da costoro, per disonestà di uomini, non per volontà degli dèi.
[44] Ma ora devo trattenermi ormai, e non potrei continuare oltre, tanto più che essi subirono punizioni maggiori di quanto io ne avessi richieste; soltanto vorrei affermare in poche parole questo, che duplice è la punizione divina, in quanto consiste nel tormentarne l'animo mentre gli uomini sono in vita, e la loro reputazione dopo morti è tale che la loro rovina è accolta dal giudizio e dalla gioia dei viventi.
XVIII. [45] Inoltre mi trovo d'accordo con Platone, che non si debbano consacrare i terreni; infatti, se pure sarò capace di interpretarlo, si esprime press'a poco in questi termini: "La terra dunque, come il focolare domestico, è sacra a tutti gli dèi; perciò nessuno la consacri una seconda volta. L'oro e l'argento, poi, nelle città e nei tempietti privati e nei santuari pubblici suscitano invidia. L'avorio, estratto da un corpo senz'anima, non è dono sufficientemente puro per il dio; ed il bronzo ed il ferro sono materiali da guerra, non da templi. Quanto al legno poi, se ne dedichi quello che uno vuole, e del pari per gli oggetti di pietra nei templi pubblici, ma i tessuti non ricamati più di quanto ne possa fare il lavoro d'una donna in un mese. Il color bianco poi è il più adatto alla divinità anche per i manufatti in altro materiale, ma specialmente per quelli di tessuto; non si impieghino tinture se non nelle insegne militari. I doni più degni della divinità sono gli uccelli ed i quadri composti da un solo pittore in un sol giorno di lavoro; e così gli altri doni siano pur essi di tal fatta". Questi sono quanti piacciono a lui; ma per tutto il resto io non porrei limiti così ristretti, indottovi dai difetti umani o dal progresso dei tempi; penso però che la coltivazione della terra diventerebbe più trascurata, se si aggiungesse qualche superstizione nello sfruttarla e nel sottometterla al vomere.
Attico: - Mi sono reso conto di tutto; resta ora da parlare dei culti perpetui e del diritto dei Mani.
Marco: - Che memoria meravigliosa la tua, Pomponio! A me, purtroppo, erano passati di mente.
[46] Attico: - Ne sono convinto. Però mi sono ricordato, e sono in attesa di questi argomenti per il fatto che hanno pertinenza col diritto pontificale e col diritto civile.
Marco: - Certamente molti giudizi e scritti sono stati lasciati dai più competenti in queste materie; ed in tutta questa nostra conversazione, a qualunque specie di legge ci avrà portati la discussione, tratterò entro i limiti del possibile il nostro diritto civile appunto per quel che riguarda quel genere di leggi, ma in modo tale che sia nota la fonte onde emana ogni parte del diritto, affinchè non riesca difficile, anche con un minimo d'intelligenza , qualunque nuova causa o richiesta di parere si presenti, sostenerla sotto l'aspetto giuridico, una volta che si sappia da quale principio occorre partire.
XIX. [47] Ma i giuristi, o per sottolineare un errore, al fine di sembrare d'avere una preparazione più vasta e sottile, oppure, il che è più verisimile, per ignoranza di metodo - infatti non soltanto conoscere qualcosa appartiene alla scienza, ma [vi è] pure una scienza dell'insegnare -, spesso dividono all'infinito ciò che si riferisce ad un unico concetto, come appunto in questa materia ampliandola in misura tanto estesa come fanno i due Scevola, entrambi pontefici ed espertissimi di diritto. Dice il figlio di Publio: " Ho spesso sentito dire da mio padre che nessuno può essere un buon pontefice, se non conosce il diritto civile". Ma parla forse di una conoscenza completa? E perché? Quanto può importare ad un pontefice del diritto dei muri comuni o delle acque o delle luminarie, se non che abbia attinenza con le faccende del culto? E questo punto quanto è limitato come importanza! Consiste nelle cerimonie, nei voti, nelle feste, nei sepolcri, e se in ciò che vi sia qualcosa di analogo. Perché allora diamo loro tanta importanza? Essendo le altre questioni d'interesse assolutamente limitato, circa le cerimonie del culto, argomento questo più esteso, l'unico principio sia il seguente, che i riti si conservino sempre e si tramandino nelle famiglie, e, come ho esposto nella legge, siano perpetui. Ciò posto, questo diritto per l'autorità dei pontefici fece sì che nemmeno alla morte del capo famiglia venisse a cadere la memoria del culto familiare, ed esso fosse attribuito a coloro che, per la morte del padre, fossero eredi di un patrimonio.
[48] Stabilito questo soltanto, che è sufficiente per la conoscenza della materia, ne nascono innumerevoli corollari, dei quali sono pieni i libri dei giuristi; essi infatti si pongono la questione di chi sia tenuto a provvedere al culto. La posizione di eredi è la più legittima; non vi è infatti persona che subentri più direttamente a1 posto di chi se ne è andato da questa vita. In secondo luogo, colui che a séguito di una morte e di un testamento venga in possesso di una quota pari a quella di tutti gli eredi messi insieme. Anche questo nell'ordine è conforme al principio che abbiamo enunciato. In terzo luogo, se non esiste alcun erede, colui che avrà fatto sua di fatto la maggior parte dei beni appartenenti al defunto al momento della morte. In quarto luogo, ove non vi sia alcuno che sia venuto in possesso di qualcosa, quello dei creditori che conservi nelle sue mani la maggior parte della sua sostanza.
[49] Ultimo rimane colui che, essendo debitore del defunto e non avendo liquidato a nessuno il suo debito, venga considerato come se fosse venuto in possesso di quella somma.
XX. Tutto questo, che imparammo da Scevola, non era stato oggetto di tante distinzioni da parte degli antichi. Quelli infatti insegnavano con queste parole: in tre modi si è obbligati al culto, o per eredità, o se si viene in possesso della maggior parte del patrimonio, o, se questa è stata lasciata per testamento come lascito, colui che ne abbia preso solo una parte.
[50] Ma continuiamo a tener dietro al pontefice. Vedete dunque che tutto deriva da quell'unico principio, secondo il quale i pontefici vogliono che il culto vada connesso al patrimonio ed ai medesimi eredi ritengono che si debba attribuire la celebrazione delle festività e dei riti. E gli Scevola stabiliscono anche questo, che, quando si fa la divisione dei beni, come nel caso in cui non è dichiarata per iscritto nel testamento la somma da dedursi in lascito, se i legatari hanno preso di meno del totale dell'asse ereditario, non siano tenuti al mantenimento del culto. Però quelli medesimi seguono un'altra interpretazione per le donazioni, e quello che il capo famiglia approvò nella donazione di colui che è sotto la sua tutela diventa esecutivo; ciò che invece si fece a sua insaputa, se egli non lo approva, non è esecutivo.
[51] Da queste premesse nascono molte piccole questioni; e chi non ne avrà compreso l'essenza, non potrà forse averne piena conoscenza, risalendo al principio fondamentale. Così nel caso di uno che avesse preso meno dello spettante per non esser tenuto al carico del culto, ed in seguito uno dei suoi eredi pretendesse come sua parte ciò cui aveva rinunziato colui del quale è erede, e questi beni con la parte prelevata prima divenissero non inferiori a quelli lasciati globalmente a tutti gli eredi; colui il quale pretendesse tale parte del patrimonio sarebbe tenuto a provvedere al culto da solo, senza concorso dei coeredi. Anzi gli Scevola provvedono a che colui, il quale abbia ricevuto un lascito maggiore di quanto gli sarebbe lecito senza accollarsi il carico del culto, questi possa riscattare in contanti gli eredi testamentari dall'obbligo del culto, per questo fatto in tal modo il patrimonio viene liberato dagli obblighi derivanti dall'eredità, quasi che quel denaro non fosse stato trasmesso per testamento.
XXI. [52] Su questa questione, e su molte altre io chiedo a voi Scevola, pontefici massimi e, a mio giudizio, sottilissimi giuristi, per qual ragione aggiungiate al diritto pontificale quello civile; con la conoscenza del diritto civile venite infatti in un certo senso ad annullare quello pontificale. Infatti il culto è connesso col patrimonio soltanto in virtù della vostra autorità di pontefici, ma assolutamente da nessuna legge. Pertanto, se voi foste soltanto pontefici, resterebbe l'autorità pontificale, ma dal momento che siete pure espertissimi di diritto civile, con questa conoscenza vi fate gioco di quella. P. Scevola e T. Coruncanio, pontefici massimi, e così tutti gli altri stabilirono che fossero vincolati al culto quelli che avessero ricevuto tanto quanto tutti gli eredi globalmente. Questo il diritto pontificale.
[53] A questo cosa si aggiunse del diritto civile? Una clausola stesa con cautela che provvede a dedurne cento sesterzi; ed ecco trovato l'espediente per liberare il patrimonio dal molesto peso del culto. Che se colui il quale redigeva il testamento non avesse voluto ricorrervi, questo giureconsulto Mucio, pontefice egli stesso, consiglia di prendere meno di quanto venga lasciato globalmente agli eredi. I precedenti giuristi affermavano che, qualunque cosa avesse preso, l'erede era tenuto al culto; ed ora invece se ne liberano nuovamente. Ma questo non ha nessuna attinenza col diritto pontificio, ma è derivato dal bel mezzo del diritto civile, cioè che si riscatti in contanti l'erede testamentari, e che a tale condizione il patrimonio rimanga tale come se non fosse stato trasmesso per testamento, a condizione che colui, che ricevette un lascito, abbia fatto oggetto di contratto proprio ciò che gli veniva per eredità, in modo che questa parte di patrimonio gli sia dovuta in forza di contratto e non resti più [gravata dal culto]...*
[54, ... uomo certamente di grande dottrina, che fu intimo di Accio, ma questi considerava, credo, come l'ultimo mese dell'anno il mese di dicembre, gli antichi invece febbraio. Riteneva poi che fosse dovere di pietà aggiungere alle cerimonie funebri una grandissima offerta sacrificale.
XXII. [55] Il rispetto per le sepolture è tanto grande, che si afferma non essere lecito seppellire nello stesso luogo defunti estranei agli stessi riti ed alla famiglia, e ciò stabili al tempo dei nostri antenati A. Torquato in una causa contro la gente Popilia. Né infatti si chiamerebbero ferie tanto i giorni delle commemorazioni funebri, detti denicali da "nece", perché ne deriva riposo ai trapassati, quanto i giorni di riposo festivo dedicati agli altri dèi celesti, se i nostri antenati non avessero voluto che si annoverassero tra gli dèi coloro che erano usciti di questa vita. Si è stabilito di riunire queste ferie in quei giorni in cui non ne cadano altre, né dello stessa famiglia né pubbliche; e tutta intera la costituzione di questo diritto pontificale rivela una scrupolosa osservanza della religione e del culto. E non è necessario che siamo noi a spiegare, quali siano i termini del lutto di famiglia, che genere di sacrificio si debba fare ai Lari con dei montoni, come si debba ricoprire di terra l'osso reciso, quali siano le norme stabilite per il sacrificio della scrofa, in quale momento il sepolcro incominci ad essere tale e ad essere oggetto di venerazione religiosa.
[56] Ma a me personalmente sembra che la più antica specie di sepoltura sia stata quella di cui si serve Ciro in Senofonte; infatti il corpo viene restituito alla terra e così collocato e deposto da essere quasi ricoperto tutt'intorno da sua madre. Ci è stato tramandato che nella stessa maniera fu seppellito il nostro re Numa in quel sepolcro che non è lontano dall'altare del dio Fonte, e sappiamo che la famiglia Cornelia si servì di tal genere di sepoltura fino ad epoca di cui abbiamo ancora il ricordo. Silla, da vincitore, diede ordine che fossero dispersi i resti di Mario seppelliti presso l'Aniene, spinto da un odio più crudele del normale se fosse stato tanto saggio quanto fu violento.
[57] E non so bene se temendo che lo stesso potesse accadere al suo corpo, che per primo fra i patrizi della famiglia Cornelia egli volle essere cremato. Dice infatti Ennio dell'Africano: " Qui egli è sepolto ", ed è esatto, poiché si dicono sepolti quelli che sono stati inumati. Eppure non è ancora un sepolcro, se prima non sono celebrate le esequie e sacrificato un maiale. E quello che ora comunemente si dice per tutti i sepolti, che sono detti inumati, questo allora si riferiva in modo specifico a quelli che erano stati ricoperti con la terra gettatavi sopra, ed il diritto pontificale conferma questa usanza. Prima infatti che venga buttata la terra sull'osso, il luogo ove il corpo è stato cremato non ha alcun significato religioso; ma buttatavi sopra la terra, allora dalla terra prende il nome di tumulo il luogo dove è inumato, e soltanto allora diventa soggetto di molti diritti religiosi. Così P. Mucio stabilì che la famiglia di colui che sia stato ucciso su di una nave ed il cui corpo sia stato gettato in mare, sia da considerarsi pura, perché non ne resta l'osso insepolto; che l' erede debba soltanto sacrificare la scrofa, che si celebrino le ferie per tre giorni e che si faccia un sacrificio espiatorio con una scrofa; ma se il defunto fosse morto in acqua, non si procede all'espiazione né alle ferie.
XXIII. [58] Attico: - Mi rendo conto di ciò che è compreso nel diritto pontificale, ma ti chiedo, che cosa venga stabilito nelle leggi.
Marco: - Poche disposizioni, Tito, e, come credo, non ignote a voi; ma esse riguardano non tanto il culto, quanto i diritti relativi ai sepolcri. La legge dice nelle dodici tavole: " Non si seppellisca né si cremi in città il cadavere ", penso a causa del pericolo di incendio. E poiché aggiunge " non si cremi ", chiarisce che non è seppellito colui che viene cremato, ma colui che è inumato.
Attico: - Ma come è possibile, se dopo la promulgazione delle dodici tavole si seppellirono in città gli uomini illustri?
Marco: - Credo, Tito, che si sia trattato di quelli cui tal privilegio fu conferito prima di questa legge in riconoscimento del loro valore, come a Publicola ed a Tuberto, privilegio che i loro discendenti conservarono per diritto, o di quelli che lo conseguirono come G. Fabrizio, essendo stati esonerati dall'osservanza della legge a causa dei loro meriti. Ma come la legge fa divieto di seppellire in città, così il collegio dei pontefici stabilì che non fosse lecito che si costruissero sepolcri in luogo pubblico. Tu conosci il tempio dell'Onore fuori porta Collina; si tramanda che in quel luogo ci fosse un altare; e che, essendosi trovata presso di essa una lamina con su scritto "lamina dell'Onore ", tale fu il motivo della dedica di questo tempio. Ma poiché in quel luogo si trovavano molti sepolcri, vi fu passato sopra l'aratro; infatti il collegio stabilì che un luogo pubblico non poteva essere usato per riti di culto privato.
[59] Le altre norme delle dodici tavole poi, relative alla diminuzione delle spese ed al compianto funebre, furono quasi tradotte dalla legislazione di Solone. E' detto: " Non si faccia più questo: non si levighi con l'ascia la legna del rogo ". Tu sai quel che segue, che da fanciulli imparavamo a memoria le dodici tavole come un carme obbligatorio; ma ormai quasi più nessuno le studia. Limitata dunque la spesa a tre pezze di stoffa, ad una tunichetta di porpora ed a dieci flautisti, elimina anche il lamento funebre: " Le donne non si graffino le guance e di conseguenza non intonino la nenia per il funerale ". Gli antichi interpreti Sesto Elio e L. Acilio dissero di non riuscire a comprenderlo, ma s'immaginava un qualche genere di abito da lutto, e L. Elio affermava che quelle nenie sono quasi un lugubre pianto, secondo il significato del termine stesso; e tanto più credo essere vera questa interpretazione, in quanto la legge di Solone contiene esattamente tale divieto. Queste lodevoli disposizioni sono per lo più comuni ai ricchi ed al popolo; ed è assolutamente un fatto naturale che davanti alla morte venga meno ogni distinzione di fortuna.
XXIV. [60]. Le dodici tavole con lo stesso criterio soppressero le altre usanze funebri intese ad accrescere il lutto. " Non si raccolgano le ossa del cadavere", dicono, "per fargli in seguito un altro funerale". Si fa eccezione per la morte avvenuta in guerra e lontano dal proprio paese. Inoltre vi sono nelle leggi queste disposizioni: "viene abolita l'unzione del cadavere ad opera di servi, ed ogni simposio funebre". Manifestazioni che giustamente vengono soppresse e che non lo sarebbero se non fossero state in uso. Ed i divieti quali " Non si facciano libagioni troppo costosa, non si portino innanzi al defunto grandi corone né incensieri". Che tali ornamenti spettino ai defunti è già una indice di lode, poiché la legge stabilisce che "la corona acquisita col valore" possa essere legittimamente imposta ed a colui che se l'è guadagnata ed a suo padre. Credo che anche sia stato imposto il divieto di celebrare per una sola persona più di un funerale e di apprestare più di un letto funebre, e ciò venne sancito dalla legge. Ed essendovi in questa legge il divieto di "non aggiungere oro", osservate quanto umanamente il secondo comma della legge stabilisca una eccezione: " ma colui che avrà i denti legati in oro, e se quest'oro verrà seppellito o cremato con lui, ciò sia legittimo". E nello stesso tempo osservate questo, che fu considerato diverso il seppellire ed il cremare.
[61] Inoltre esistono due leggi sui sepolcri, delle quali una riguarda gli edifici dei privati, l'altra i sepolcri stessi. Infatti il testo "è vietato che si eriga un rogo od una tomba a meno di sessanta piedi dalle abitazioni altrui senza il consenso del proprietario" sembra imporre il divieto per timore di un incendio. In quanto poi all'espressione " è vietato prendere possesso di fatto del foro", cioè del vestibolo della tomba, "o del luogo dove fu arso il cadavere", si tutela il diritto dei sepolcreti. Queste disposizioni esistono nelle dodici tavole, assolutamente secondo natura, la quale è norma di legge; il resto è contemplato dalla consuetudine: venga celebrato il funerale come è annunziato, se sia accompagnato da giochi, e che il direttore del corteo si serva di un sostituto e dei littori,
[62] si ricordino in un discorso commemorativo i meriti dei defunti insigni, e che questi siano seguiti da un canto accompagnato dai flautisti, detto nenia, nome col quale anche [presso] i Greci vengono denominate le cantilene da lutto.
XXV. Attico: - Sono contento che le nostre leggi si accordino con la natura, e sono oltremodo soddisfatto della saggezza dei nostri antenati. Tuttavia mi aspetterei, come per le altre spese, così anche una limitazione per quella dei sepolcri.
Marco: - Giusta esigenza, la tua; a quale sperpero di denaro infatti si sia ormai giunti, credo che te ne sarai fatta un'idea dal sepolcro di G. Figulo. Molti esempi dei nostri antenati testimoniano che un tempo non ci fu alcuna ambizione di questa portata. Infatti gli interpreti della nostra legge, in quel paragrafo dove si dispone di allontanare dal diritto degli dèi Mani le spese ed il lutto, questo dovrebbero capire soprattutto, che si dovrebbe limitare il lusso delle tombe.
[63] Ciò non fu dimenticato dai più saggi legislatori. Infatti anche nella consuetudine degli Ateniesi, fin dai tempi di quel primo suo re Cecrope, rimase questa norma di seppellire nella terra; ed una volta che i parenti avevano adempiuto questa disposizione e la terra era stata gettata sul cadavere, veniva seminata a grano, quasi per dare al morto il seno ed il grembo della madre, e perché il suolo purificato dalle messi venisse restituito ai vivi. Seguiva un banchetto, cui i parenti intervenivano col capo incoronato, e presso di essi si esaltavano, se ve n'erano - infatti era ritenuto empio il mentire -, i meriti del morto, [e] le cerimonie erano finite.
[64] In seguito, come scrive Demetrio Falereo, quando i funerali incominciarono a diventare dispendiosi e pieni di lamentazioni, furono soppressi dalla legge di Solone; la quale dai nostri decemviri fu inserita nella decima tavola quasi con le stesse parole. Infatti quanto riguarda le tre pezze e la maggior parte di quelle disposizioni sono di Solone; circa le lamentazioni esse sono espresse con le sue stesse parole: " Le donne non si graffino le guance né intonino la nenia per il funerale".
XXVI. Sui sepolcri poi in Solone non si dice nulla di più che: " nessuno rechi loro danno né vi seppellisca un estraneo ", e vi è una punizione " se qualcuno avrà violato, danneggiato, rotto un tumulo - infatti credo che questo sia il significato di tu'mbon- ". Ma qualche tempo dopo, a causa di quella ampiezza delle tombe, che vediamo nel Ceramico, si stabilì per legge " che nessuno costruisca un sepolcro che comporti di più di tre giornate lavorative per dieci uomini";
[65] e non era permesso abbellirlo con affreschi, né mettervi sopra quelle che chiamano erme, né pronunziare l'elogio del morto se non nei pubblici funerali, né ad opera di chi non fosse designato a tale ufficio per incarico pubblico. Era stato soppresso anche l'affollamento di uomini e di donne, per diminuire le lamentazioni; l'intervento di molta gente, si sa, [aumenta] il lutto.
[66] Per questo motivo Pittaco fa assoluto divieto a chiunque di partecipare ai funerali di estranei. Ma ancora il già citato Demetrio attesta che la magnificenza dei funerali e delle tombe aumentò, quasi come quella che ora si ha in Roma; consuetudine che egli stesso limitò per legge. Egli fu un uomo, come sapete, non soltanto coltissimo, ma anche insigne politico ed espertissimo nel governo dello Stato. Egli dunque limitò le spese non solo fissando un'ammenda, ma anche il tempo; sancì infatti che il trasporto funebre dovesse avvenire prima di giorno. Pose norme restrittive anche per i sepolcri di nuova costruzione: vietò infatti che si collocasse sopra il tumulo di terra nient'altro che una colonnetta non più alta di tre cubiti, o una lapide orizzontale o una piccola conca, ed a tale incarico aveva preposto un apposito magistrato.
XXVII. [67] Queste le misure adottate dai tuoi Ateniesi. Ma vediamo Platone, che assegna le cerimonie funebri alla competenza dei ministri del culto, usanza che osserviamo anche noi. E, sui sepolcri, egli dice questo: è vietato riservare alla sepoltura una parte di terreno coltivato o coltivabile; ma soltanto quella parte, che per la natura del suolo possa accogliere i corpi dei morti senza detrimento per i vivi, questa sola venga pure riempita; mentre quella terra che può produrre raccolti e, come una madre, offrirci nutrimento, non deve esserci sottratta da nessuno, né vivo né morto.
[68]Fa poi divieto che si costruisca un sepolcro più alto di quanto non possa essere condotto a termine in cinque giornate [da cinque uomini], né che vi sia messa sopra una lapide più grande di quanto necessario a contenere l'elogio del morto in non più di quattro esametri dattilici, quelli che Ennio chiama "lunghi". Abbiamo dunque anche l'autorità di un uomo eminente circa i sepolcri, da cui viene posto ancora un limite alle spese dei funerali a seconda del censo, da una a cinque mine. Di seguito dice quel che già sappiamo sull'immortalità dell'anima e di quanto ci attende dopo morte, della pace dei buoni e della punizione degli empi.
[69] Eccovi, dunque, esposto del tutto, come credo, l'argomento del culto.
Quinto: - Certo, fratello, ed anche con ricchezza di dettagli; ma continua con tutti gli altri.
Marco: - Continuerò senz'altro, e dal momento che vi ha fatto piacere incoraggiarmi, concluderò col presente discorso, spero, soprattutto in una giornata come questa; vedo infatti che anche Platone ha fatto la stessa cosa, e in una sola giornata d'estate fu portato a termine tutto il suo discorso sulle leggi. Farò dunque cosi e parlerò dei magistrati; questo infatti è indubbiamente il punto che, una volta sistemata la questione del culto, è il più essenziale per mantenere in piedi lo Stato.
Attico: - Parla pure, e prosegui con il metodo con il quale hai iniziato.
Traduzione di V. Todisco, maggio 2003
versione di riferimento N. Marinone, 1976
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