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LA REPUBBLICA

Eastwood, il cinema
scritto nel destino

di ALBERTO FARASSINO

L EONE d'oro alla carriera: forse mai come questa volta l'espressione ufficiale con cui Venezia canonizza chi ha ben meritato nell'arte cinematografica deve essere presa alla lettera, magari forzando un poco la sintassi. Intendendo cioè non tanto un premio a Clint Eastwood, che beninteso merita questo ed altro, ma proprio alla sua carriera, a quei quarantacinque anni di lavoro nel cinema che lo hanno portato a diventare, da interprete secondario a serie western televisive, una delle maggiori icone del culto cinematografico contemporaneo, capace tanto di stimolare le intelligenze critiche quanto di affascinare umanamente e fisicamente. Con una particolarità che lo differenzia dagli altri grandi che hanno raggiunto i settant'anni senza perdere un filo del loro sex appeal, come il coetaneo Sean Connery o, prima di loro, Paul Newman: che Clint non è rimasto solo un attore ma è diventato un completo uomo di cinema, un total film-maker (il che lo accomuna al premiato dello scorso anno Jerry Lewis e mostra nelle scelte della nuova direzione una linea che non è solo quella della consacrazione da regime cinefilo: adesso che decidiamo noi vi facciamo vedere chi sono i veri maestri).
Attore, regista, produttore, sindaco della sua città per meriti cinematografici (solo alla sceneggiatura non si è mai accostato, col ritegno di chi sta lontano dalla penna perché ha ancora sulle mani il callo del grilletto e del cane della pistola) Clint Eastwood deve tutto non tanto al cinema genericamente inteso quanto al tempo che ha passato in esso, a quanto vi ha viaggiato dentro, ai colpi che ha preso e ai pesi che ha portato. Le metafore lignee che spesso si usano per descrivere il suo volto e le sue rughe, il suo corpo asciutto ma non rinsecchito, richiamano la figura di un boscaiolo, uno che ha sgobbato duro ma mai alla catena, sempre con la libertà di percorrere i sentieri che voleva e appoggiarsi alla quercia che più gli piaceva.
Una libertà fatta certamente di indipendenza produttiva, quella che oggi anche troppo si mitizza come se salvasse tutto, ma soprattutto di eccentricità, capacità di andare controcorrente, e persino di un grano di follia anarchica nascosta dietro la maschera di impassibilità e conservatorismo. Fin dal gesto, più o meno deliberato ma in ogni caso accettato, che ha inaugurato la sua fortuna, quell'andare all'Est e non all'Ovest a cercare i suoi pascoli e il suo oro, quel recarsi, lui vero uomo del West, californiano purosangue, a prendere ordini in un paese esotico da uno sconosciuto capobanda mediterraneo che si chiamava Sergio Leone.
Un colpo di coraggio che gli aveva dato la popolarità, certamente, ma che non bastava: per lo stesso regista che lo aveva creato egli era l'attore capace di una sola espressione, e il suo cinema non era sicuramente il più adatto per apprenderne altre. Ma è lì, su quei set assolati in Italia e in Spagna, che Clint impara a guardare in faccia la cinepresa, per secondi interminabili, a due dita dall'obbiettivo, e a capire che, nel silenzioso duello, l'uomo e la macchina sono almeno alla pari, e che alla lunga la potrà vincere e dominare.
È questa esperienza da emigrante, unica per un attore americano, che gli dà quegli occhi di ghiaccio, quella durezza che dovrà poi scontare, tornando nel suo paese, assumendola come spietatezza e anche oltranzismo del suo personaggio, che è sempre quello che impicca più in alto. E diventando, fuori del western ma non fuori dalla California, l'implacabile ispettore Callaghan, quel Dirty Harry che ora si cerca di salvare politicamente con i distinguo fra forma e contenuto ma che invece bisogna prendere per quel che era, un viaggio all'inferno che, in compagnia del suo Virgilio Don Siegel, Clint doveva compiere per poterne riemergere col cuore puro. Ma per giungere a questo ci vuole del lavoro, e del tempo. Si può anche sbagliare, ritenersi troppo presto maturi per uscire dalla vecchia pellaccia, come quando il pistolero passa alla regia con Brivido nella notte e addirittura con la sentimentale sdolcinatezza di Brezzy. C'era invece ancora da sgobbare, da westerner o da poliziotto, con la cravatta di cuoio e la 44 magnum, con il metodo e la determinazione silenziosa di una fuga da Alcatraz. Sapendo che il western non è più quello di una volta, è ormai un circo che sta battendo le sue ultime piazze come quello di Bronco Billy, e che l'eroe è un tiratore che può anche sbagliare più di un colpo. Ma non per questo bisogna smettere di credersi, e di sparare. È attraverso questa via che si ritroverà infatti una nuova classicità, che si potrà cioè essere non-moderni senza più essere reazionari. Dallo sporco Harry si può diventare un nuovo Huston o meglio un nuovo Hawks.
Ormai Cavaliere pallido, sempre tosto ma meno spigoloso, Clint può sembrare un pezzo del passato, un ritornante, un personaggio sospeso fra realtà e immaginazione: ogni sua apparizione porta con sé memorie e miti, non solo western. Sono malinconie come quelle legate alla malattia della musica, al vagabondaggio "hobo" dell'Honkytonk man, alla deriva umana di Bird, il sassofonista pesante come un corpo morto e leggero come un uccello. Il jazz e il western sono infatti, dice lui, le due sole forme di espressione inventare dagli americani. Ma Clint, da attore come da regista, non si limita a uno o due generi e in ogni caso al di là dei generi sono il tempo e la storia, quelli che di film in film si incidono sul suo volto di attore, a far nascere le emozioni, come si vede nel suo primo grande romance, I ponti di Madison County. Dopo di che si può anche tornare nel presente, anzi entrare senza più timori nei territori della politica, della legge e della morale, come accade nei suoi ultimi film, con posizioni che ora appaiono naturalmente corrette, democratiche e liberali, contrarie a ogni illusione di mondo perfetto e ogni potere assoluto, anche a quello della polizia.
Per tutto questo c'è voluto appunto del tempo, quarantacinque anni di lavoro e settanta di vita, quelli che gli consentono ora di uscire dal secolo del cinema come uno dei suoi protagonisti e quasi uno di coloro che lo hanno inventato, come un vecchio pioniere che ha attraversato la modernità per ritrovare lo spirito e la semplicità delle origini. Per questo Clint Eastwood, che pochi anni fa poteva vedersi rifiutare un film in concorso in nome dell'arte cinematografica, ora può ricevere, dallo stesso Festival, un Leone d'oro e i massimi onori. Col tempo ha dimostrato di che legno era fatto.

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