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CORRIERE DELLA SERA

L’INTERVISTA Il regista di «Segreti segreti»: si preferiscono opere straniere anche perché alla gente evidentemente non piace vedersi raccontata come in uno specchio

Scettico sul nostro cinema Giuseppe Bertolucci, unico italiano in giuria: la qualità è spesso scarsa

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
VENEZIA - «E' curioso, la Mostra del Cinema in tanti anni non mi ha mai invitato in gara, e adesso mi chiama dritto in giuria». Fa in fretta Giuseppe Bertolucci, 53 anni, a tracciare un bilancio del suo rapporto con il festival veneziano. «C'è stata una sola volta, l'anno scorso con "Il dolce rumore della vita", in una sezione collaterale», ricorda con la rassegnata ironia di chi sa quanto sia dura la vita di un autore schivo, autarchico e fuori dal coro in questo Paese. Pazienza, chi ama il cinema i suoi film non se li perde comunque, da «Berlinguer ti voglio bene» a «Oggetti smarriti» da «Segreti segreti» a «Amori in corso». Senza rancori quindi e con grande entusiasmo ha accettato di essere l’unico italiano in giuria, accanto a registi come Milos Forman e Claude Chabrol, a un giovane talento come Samira Makhmalbaf, all'attrice Jennifer Jason Leigh, al critico Andreas Kilb, allo scrittore Tahar Ben Jelloun. «Una bella occasione per immergersi nel cinema, per vedere tanti buoni film, per riflettere e confrontare opinioni».
Vista dal catalogo, che ne pensa della selezione?
«Ho letto l'elenco una sola volta. Non so nulla di quel che mi aspetta. E mi sta bene così. Mi piace l'idea di entrare nell'oscuro di una sala all'oscuro di tutto».
Un tempo i festival erano un bel biglietto da visita per un film. Oggi spesso accade il contrario.
«Ho la sensazione che gli spettatori si dividano ormai in tre categorie: ci sono quelli (e sono i più) che vanno al cinema per "stordirsi" e scelgono i filmoni americani. Ci sono gli autolesionisti, che prediligono le improbabili caricature di un genere comico-farsesco. Infine ci sono quelli (e sono i meno) che vogliono riflettere e sognare e optano per qualche opera di autore».
Resta però da capire perché, nonostante gli appelli, le sale che proiettano film italiani continuano a restar deserte.
«Il vero problema del nostro cinema è proprio questo: gli italiani non vogliono vedere film italiani. Un rifiuto in parte giustificato dalla scarsa qualità di alcuni prodotti, ma forse anche un non volersi guardare allo specchio».
Dopo il periodo del minimalismo, oggi molti nostri autori, come dimostra più di un film in programma qui a Venezia, sembrano aver riscoperto un neo-neorealismo.
«E' l'effetto fiction. Il realismo del cinema è finito in gran parte in tv, con gran fortuna di pubblico ma anche con una serie di cliché insopportabili. Che funzionano perché non turbano, non fanno pensare. La fiction paga in termini di numeri ma cosa resta? Un gran vuoto dentro cui crescono talora dei mostri. I mass media si affannano a domandarsi dove nascono. Una risposta è: da quel livello infimo e abitudinario che gli somministra la tv».
Lei che pensa di fare?
«Cinema s'intende. Ho terminato un nuovo film, "L'amore probabilmente", un viaggio di una giovane attrice, Sonia Bergamasco, fra i meandri del cuore e del teatro. I suoi incontri con tre muse, Mariangela Melato, Stefania Sandrelli, Alida Valli. "Il teatro è inganno", le dice Melato; "Il teatro è verità", risponde Sandrelli; "Il teatro è illusione, intesa come seduzione", dice Valli. Quest'ultima è la mia opinione. Anche per il cinema».

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