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LA REPUBBLICA

Impastato, la voce che ha ferito la mafia
Commuove "I cento passi" di Giordana, in concorso

dal nostro inviato IRENE BIGNARDI

VENEZIA - Se il punto di domanda più grosso circa il cartellone di Venezia 2000 riguardava il numero dei film italiani in concorso e, ovviamente, la loro qualità, la sfida di Alberto Barbera, con la proiezione del primo dei quattro, I cento passi di Marco Tullio Giordana, è vinta almeno per un quarto. Anzi, di più, visto il potere emotivo, la forza, la semplice efficacia della regia e della storia (vera), che ha strappato alle proiezioni per la stampa, solitamente contenute e frigide, un lungo applauso.
La forza dell'emotività, diranno i più sospettosi, visto soprattutto quell'epico e nostalgico finale al suono di A Whiter Shade of Pale, in cui i giovani, le donne, la gente per bene di Cinisi, Palermo, Sicilia, sfilano sotto striscioni e bandiere rosse al funerale di Peppino Impastato, ucciso dalla mafia - con un delitto troppo presto archiviato e dimenticato, perché quello stesso giorno, 9 maggio 1978, veniva ritrovato il corpo di Aldo Moro ucciso dalle brigate Rosse.
E invece no, quel finale è forse la cosa più facile e ovvia di un film costruito in finezza, frammento dopo frammento, sempre in crescendo, su una storia emozionante e brutale, in cui si intrecciano la liberazione di un giovane dalla famiglia (sull'onda del Sessantotto) e la sua più dura liberazione dalla famiglia mafiosa che incombe sulla città e sulla cultura familiare. I cento passi del titolo sono quelli che separano la casa di Peppino dall'abitazione del boss mafioso Tano Badalamenti - che, dopo un lungo silenzio della giustizia, per questo assassinio è stato finalmente incriminato. Cento passi che nonostante tutto congiuri per farglieli percorrere - la storia familiare, la debolezza di suo padre, l'omertoso clima cittadino - Peppino non percorrerà mai, scoprendo fin da ragazzino, attraverso l'amico e maestro pittore Stefano Venuti, l'impegno politico con il Pci, poi allontanandosene per le troppe prudenze che impone, infine inventandosi attraverso una radio messa su con gli amici un canale fantasioso e irriverente per parlare e dire la sua verità: Badalamenti diventa Tano Seduto, Cinisi è ribattezzata Mafiopoli e il ridicolo è un'arma che dà molto fastidio agli intoccabili.
Marco Tullio Giordana, in quello che è il suo film migliore, più forte, più diretto, ibrida con successo il cinema di impegno civile (viene citato Le mani sulla città) con umori più personali e generazionali (ci ritroverete un po' di Radio Freccia alla siciliana), intreccia la denuncia e il ritratto toccante e autentico di un angelo ribelle. E se la sceneggiatura (che il regista firma con Claudio Fava e Monica Zappelli) è scritta con inconsueta precisione, schivando retorica e colore, gran parte della riuscita del film la si deve a una squadra di attori di sorprendente bravura, guidati senza sbavature da Giordana. Al suo primo ruolo sullo schermo, Luigi Lo Cascio si incide nella memoria per simpatia e febbrile passione, è bravissimo Luigi Maria Barruano nella parte di suo padre - un pover'uomo diviso tra l'affetto per il figlio e la sua affiliazione mafiosa-, Lucia Sardo ha una dolorosa intelligenza e Tony Sperandeo, senza sprecare un gesto di troppo, fa sempre paura. Da vedere, anche per chi non è sensibile all'effetto nostalgia.
Temo sia destinato invece al dimenticatoio - o alla benemerita rubrica del New Yorker intitolata "Stop that Metaphor" (fermate quella metafora) - il bengalese Uttara, firmato da Buddhadeb Dasgupta. Che, appunto, sullo sfondo dei remoti paesaggi del Bengala, a base di calcolati controluce e martellanti metafore (la comunità dei nani buoni, due maschi che passano la vita a fare la lotta, i cattivi che distruggono la pace della comunità, la donna che rappresenta la gentilezza e la grazia brutalmente assassinata), compone un quadretto indiano pateticamente ambizioso e ingenuo. Che cosa ci fa in concorso?

CORRIERE DELLA SERA

Applausi vibranti e prolungati per «I cento ...

Applausi vibranti e prolungati per «I cento passi» di Marco Tullio Giordana, primo italiano in concorso della Mostra, da spartire tra i film e l’eroica vicenda che c’è dietro. Ovvero il martirio del giovane siciliano Peppino Impastato, fatto a pezzi dalla mafia e in attesa da oltre un ventennio che gli sia resa giustizia. Venezia ha dato la spinta, vedremo ora se il grande pubblico continuerà a mostrarsi disamorato del nostro cinema o saprà accogliere con l’interesse che merita questo ritorno all’impegno. Non a caso a un certo punto Giordana ci mostra il suo protagonista mentre presenta in un circolo circolare «Mani sulla città» (1963): ma quando all’epoca delle «nuove frontiere» il film di Rosi vinse il Leone lo schermo rifletteva speranze e illusioni d’una società in movimento. Oggi - tra l’indifferenza e l’effimero - chi prende le cose sul serio viaggia contromano.
I «cento passi» che Peppino rifiuta di fare portano al palazzotto del mafioso Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi, ribattezzato «Tano seduto» nelle trasmissioni di Radio Aut. Animata da Impastato sull’onda sessantottina, a lungo l’emittente sbeffeggia e accusa i potenti di «mafiopoli» finché nelle segrete stanze si decide che basta: e l’esecuzione dell’incauto Don Chisciotte, buttato sui binari del treno con sei chili di tritolo legati addosso, avviene proprio nel giorno funesto del ritrovamento del cadavereo di Moro, 9 maggio 1978. Questo «bildungsroman» con finale da horror è l’avventura d’un ragazzo che dietro la famiglia scoprì «la Famiglia» e volle scrollarsele di dosso tutt’e due.
Il copione, convalidato dall’esperto di sicule dietrologie, Claudio Fava, impeccabile nell’indicare forze in campo e motivazioni, meno riuscito sul fronte dell’abilità drammaturgica. La fattura del film, a parte taluni poverismi (un viaggio negli Usa in cui si vede niente), è di qualità. In un contesto usurato dalle piovre cinetelevisive spicca per originalità il personaggio del padre di Peppino (il bravissimo Luigi Maria Burruano), un uomo che la mafia ha tirato fuori dalla povertà e che si trova per figlio uno scomodo bastiancontrario.
Più nella tradizione, ma pure eccellente, il Tano di Tony Sperandeo. Luigi Lo Cascio, ardente e ossessivo Peppinos, non cerca le vie della facile simpatia: il che avrebbe potuto suggerire nell’apoteosi finale un trattamento meno accattivante. Per tornare al grande modello, Rosi non avrebbe alternato alle scene del funerale con bandiere rosse e pugni alzati le immagini di Peppino sorridente. Ma forse senza quest’affondo sentimentale l’applauso sarebbe stato meno commosso.


I cento passi di Marco Tullio Giordana. Con Luigi Lo Cascio, Luigi Maria Burruano, Lucia Sardo, Tony Sperandeo (Italia)

CORRIERE DELLA SERA

Dieci minuti di applausi per l’eroe antimafia Commuove la storia di Impastato. Lo sceneggiatore Fava: i clan lo ucciderebbero ancora

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
VENEZIA

Applaus i e lacrime. Emozione ed entusiamo. Un’ovazione di dieci minuti ha accolto ieri «I cento passi» di Marco Tullio Giordana, primo film italiano in gara. Un esordio felice per il nostro cinema, un vero trionfo. «Cento passi» in più sul crinale del recupero di credibilità e fiducia presso il pubblico. Che da oggi potrà vedere il film a Palermo, Roma, Milano e dall'8 settembre nel resto d'Italia. E conoscere o ricordare, a seconda dell'età, la storia vera di Peppino Impastato, ragazzo di Cinisi, vicino a Palermo, fatto esplodere il 9 maggio del '78 con sei chili di tritolo per aver osato ribellarsi, lui nato in una famiglia legata al «padrino» Tano Badalamenti, alla mafia e, peggio ancora, colpirla al cuore con le armi affilate dell'ironia e della satira. «La mafia può sopportare tutto ma non il ridicolo. Quando Peppino dai microfoni della sua scalcinata Radio Aut chiama Cinisi "Mafiopoli" e Badalamenti "Tano Seduto", l'intero paese ascolta di nascosto e ride. Questo per un potere criminale che si basa sull'autorità e l'onnipotenza è intollerabile», spiega Giordana.
Ma questo non è solo un film sulla mafia. La passione civile di Giordana, regista di pochi ma rigorosi film (sei in 20 anni, da «Maledetti vi amerò» a «Pasolini. Un delitto di Stato») stavolta si addentra nei meandri della memoria e nei grovigli dei legami di sangue.
«La mafia ha successo perché non è un'associazione, ma una famiglia. E le parentele, veicolo di affetti e di protezioni, non si possono mai spezzare. Come diceva Visconti, la famiglia è il regno degli amori impossibili. Peppino si mette contro il padre ma non può far a meno d'amarlo. Il padre lo butta fuori di casa, ma quando gli fanno capire che farebbe bene a eliminarlo lui stesso dice: prima dovete uccidere me».
Tutt'altro il rapporto con la madre, sempre schierata al fianco del figlio. «Una donna straordinaria, capace di crescere insieme a Peppino, di capire che è giusto lottare. Quando le uccidono il figlio, lei caccia di casa i parenti mafiosi, denuncia don Tano e va al funerale con gli amici del ragazzo, migliaia di giovani arrivati da tutta Italia fra bandiere rosse e pugni chiusi. Per tanti versi somiglia alla mamma di Pasolini, autore amatissimo da Peppino. La sua libreria mi ha ricordato la mia di ragazzo: tutte le opere di Pasolini, i libri di cinema, quelli di politica. Queste, nell'ordine, le sue tre passioni. E anche le mie».
Domani sera, a Cinisi, «I cento passi» verranno presentati al paese. Ci saranno tutti. I mille e più giovani che, senza compenso, hanno accettato di far le comparse al funerale di Peppino, il regista e gli attori, quel che resta della famiglia Impastato: il fratello Giovanni, la madre, la signora Felicia, 84 anni. «Quando l'ho incontrata, prima di iniziare le riprese, mi ha guardato a lungo e mi ha detto solo: "vai, saprai tu cosa fare". Devo poter reggere il suo sguardo, mi sono imposto. Non so se vorrà e se potrà vedere il film. Per lei non è una storia. Inoltre Luigi Lo Cascio, il protagonista, somiglia a Peppino in modo impressionante».
«La mafia oggi è molto cambiata ma lo ucciderebbe ancora - assicura Claudio Fava, autore della sceneggiatura con Monica Zapelli, oltre che giornalista, scrittore e figlio di quel Giuseppe Fava ucciso lui pure dalla mafia -. Quelli come Impastato, come don Puglisi, sono gli uomini davvero pericolosi per i boss. Sono la morte della mafia. Perché insegnano ai giovani l'alfabeto della libertà, la potenza dell'ironia. Piccoli eroi quotidiani in lotta contro la lunga linea d'ombra racchiusa in quei cento passi che separano la via della "normalità" da quella del crimine».

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