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LA REPUBBLICA

Johnny, ragazzo in guerra
Chiesa: non denuncio né esalto la Resistenza

dal nostro inviato MARIA PIA FUSCO

VENEZIA - "Scusatemi se non scateno polemiche", ironizza Guido Chiesa. Il suo Partigiano Johnny non suggerisce accuse a nessuna parte politica, non denuncia né esalta aspetti della Resistenza. "Ho quarant'anni, non ho fatto la Resistenza, non ho nessuna pretesa di dire la verità sulla Resistenza. Ho letto Fenoglio a 17, 18 anni, quando in Italia sembrava avvicinarsi la possibilità di una guerra civile e allora mi appassionava capire la complessità della Resistenza, leggevo Il partigiano Johnny come una lezione, un'esperienza da studiare. Un paio di anni fa, quando grazie al produttore Domenico Procacci il progetto del film è diventato concreto, mi sono reso conto che l'aspetto storico-politico era quello che mi interessava meno, ma che l'importanza della storia era proprio nella sua non attualità", dice il regista.
E spiega: "Oggi le scelte di campo non ci sono più, le parole d'ordine della modernità sono altre, sono globalizzazione, finanza, Borsa, Internet, impariamo l'inglese. Non è certo attuale la storia di un ragazzo che invece fa la sua scelta, e arriva fino in fondo con rigore e coerenza, ponendosi costantemente il dubbio, chiedendosi che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. In questo senso la storia di Johnny si lega all'attualità".
E, se proprio si vuole parlare di politica "in un paese in cui i partigiani ormai sono considerati quasi delinquenti, non è già politica la scelta di fare un film su un partigiano onesto? Non mi interessa il revisionismo sulla Resistenza, la mia ambizione, se mai, è quella di proporre Johnny come modello, in antitesi ai modelli diffusi tra i giovani di oggi, personaggi dello spettacolo o dello sport, ragazzi che aspirano al successo, all'affermazione sui media, a qualunque costo".
Procacci si dichiara orgoglioso di aver fatto il film - "A prescindere dal risultato e dagli esiti commerciali, è un film "necessario", non mi sono chiesto se c'è un pubblico". Così come Chiara Muti e Barbara Lerici hanno accettato piccoli ruoli pur di esserci e Stefano Dionisi, il partigiano Johnny, che ha aderito al progetto con un entusiasmo che supera il normale impegno di un attore: "Ho letto prima la sceneggiatura poi il romanzo, ho ritrovato la stessa passione rara di "La tregua", la forza e la ricchezza di umanità che c'è in pochi capolavori della letteratura. Non è solo un pezzo di storia, è l'avventura di un ragazzo che in pochi mesi attraversa circostanze eccezionali e cresce, diventa un uomo. Di fronte alla scelta dell'antifascismo, che importanza ha se va con i partigiani rossi o azzurri?".
Tra i valori del film, che Chiesa ha sceneggiato con Antonio Leotti, c'è anche quello di tornare ad una memoria spesso trascurata, visto che "ad Alba, dov'era la casa di mio padre adesso c'è un buco nero", come dice Margherita Fenoglio, figlia dello scrittore scomparso nel 1962, a Venezia a sostenere il film che ha autorizzato dopo mille esitazioni: "Non perché non credessi nel progetto, ma mi sembrava impossibile che da un libro così si potesse trarre un film. Mi hanno convinto la passione e la tenacia di Chiesa, che conoscevo bene per le altre sue opere in cui si era occupato di mio padre e della Resistenza".
A Venezia sono venuti anche Marisa e Walter, la sorella e il fratello di Fenoglio. Anche Walter Fenoglio ha fatto la Resistenza: "Sono andato in montagna perché era l'unica scelta possibile allora, ma a differenza di mio fratello io non ho saputo trattenere e offrire agli altri la grande lezione di umanità e di vita di quell'esperienza. Eravamo diversi, lui cercava di capire le cose della politica, cercava la coerenza, la passione per la cultura anglosassone lo rendeva liberale, al referendum votò per la monarchia, era anticomunista forse anche per ragioni estetiche. Quando ci scontravamo, come succede tra fratelli, per insultarlo lo chiamavo "letterato"".

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