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CORRIERE DELLA SERA

«Scuoterò Venezia con il mio ribelle antimafia»

Giordana in gara alla Mostra: ancora omertà su Impastato, ucciso dopo aver rinnegato il padre boss

Italia, addì 9 maggio 1978. Mentre a Roma viene trovato il cadavere di Aldo Moro, sui binari della ferrovia presso Punta Raisi, salta in aria imbottito di tritolo il trentenne Peppino Impastato, la cui morte occupa solo un trafiletto sui giornali e viene rubricata con sbrigativa faciloneria come un suicidio dovuto a fragilità psicologica e solitudine. Soltanto vent’anni anni dopo, con le confessioni dei pentiti, diventa un delitto di mafia di Badalamenti, anche se qualcuno dice che sono stati i Corleonesi, per far incolpare i rivali. Un altro delitto italiano, dopo il film sul caso Pasolini, con cui il regista Marco Tullio Giordana, milanese che ha vissuto a lungo nell'isola per capire lingua, gesti e idee, cerca per la vittima un risarcimento postumo almeno di memoria e orgoglio. E con «I cento passi» sarà per la quarta volta alla Mostra di Venezia, primo film in concorso il 31 agosto, seconda giornata della rassegna.
Ci va con animo sereno?
«No, quello no, quello mai, non ci sono abituato».
Lei ha traslocato per adeguarsi a una nuova realtà?
«Ho voluto vivere in Sicilia per rendermi conto e in 10 mesi a Cinisi ho trovato aiuto, rispetto e mi sono fatto amici, rifiutando ogni protezione interessata. Finora sapevo di quest'isola solo cose ovvie e generiche, anche se mio nonno diresse "L'Ora" a Palermo dal 1908 al 1912, ma io nascevo quando lui moriva».
Partiamo dal titolo: cosa sono i cento passi?
«Sono quelli che separano casa Impastato e casa Badalamenti: come dire siamo complici, adiacenti, nello stesso organismo, vicino c'è l'aeroporto, dove si smista per ovvie ragioni l'economia mafiosa».
Un film inchiesta come quello su Pasolini?
«Non è un film sul processo che si farà nel 2001, e forse neanche sulla mafia, che è poi il nostro western, ma è la storia di una vocazione di opposizione, di una ribellione alla famiglia».
Famiglia o «famiglia»?
«Entrambe. Peppino, brillante e intelligente, fu allevato come figlio di boss, suo padre ospitò Liggio ed era affiliato al clan Badalamenti, un così detto «portatore d’acqua». Ma il ragazzo, che ha vent'anni nel '68, scopre con allegria che i giovani di tutto il mondo stanno in quel momento tentando di cambiare tutto. Così usa per primo gli strumenti dell'ironia contro la mafia, fa la denuncia con nome e cognome, fonda un circolo di musica e cultura per i ragazzi, marcia con i contadini contro l'esproprio delle terre. Insomma mette in gioco i propri sentimenti privati, disdice se stesso in casa. Pubblica libri e un giornale che titola "La mafia è una montagna di merda", organizza mostre e spettacoli di strada per i siciliani che davvero amano molto il teatro, fonda la stazione "Radio Out", che diventa popolare in loco. E denuncia in piazza Tano Seduto cioè Badalamenti, Cinisi diventa Mafiopoli. Si candida al Comune per Democrazia Proletaria. Il padre si rese conto del pericolo che corre il figlio e tentò di proteggerlo andando in America a parlare col boss: non a caso Giuseppe è ucciso nel 78, un anno dopo la morte del padre, in un incidente con un'auto pirata».
A chi può dare fastidio questo film sceneggiato con Claudio Fava e Monica Zappelli?
«Naturalmente a chi vorrebbe dimenticare questo giornalista che per primo capì il valore dei mezzi di informazione. Ho parlato con i suoi amici e nemici, tutti oggi ne discutono, ma allora si diceva solo "La mafia non esiste", mentre la mafia esiste, si reincarna, si modifica secondo le esigenze, come Alien. Eppure ai funerali di Peppino andarono, e fu la prima rottura con l’omertà, in 1500 con la madre e il fratello a testa alta, senza piangere».
A chi può fare cambiare idea il suo film?
«Peppino fu un sessantottino con la sua fervida immaginazione al potere, anche se lontano dai centri nevralgici del Movimento, da Milano, per esempio, dove io ho vissuto da liceale militante un bellissimo '68. Che non fu solo il padre dei vizi e l'anticamera del terrorismo, non avendone denunciato in tempo la violenza, come oggi si crede, ma anche una scarica di vitalità, la voglia di cambiare tutti insieme qualcosa e di rimettere in primo piano gli ideali».
A quale cinema italiano si riferisce «I cento passi»? Sta uscendo anche il film «americano» di Ricky Tognazzi su Falcone e Borsellino.
«Bene che se ne parli, ma io non mi sento militante di un genere, ho una mia idea e cito non a caso una scena di "Le mani sulla città" di Rosi. Del resto abbiamo girato vicino a Montelepre, dove era il set di "Salvatore Giuliano". Ma ricordiamoci che il cinema non può cambiare il mondo: quindi, prima di tutto, bisogna fare un bel film, che convinca e interessi la gente».
E questo povero nostro cinema sempre in crisi?
«Ha bisogno di essere guardato a vista. Io porterò in giro il mio film, specie in Sicilia, a osservare le reazioni. E poi mi rimetterò a lavorare. "Menzogna e sortilegio" della Morante è un romanzo che per esempio mi piace da sempre, mi piacerebbe che diventasse un film per la tv, come si faceva una volta».

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