1923-1985

ITALO CALVINO

 

Vita e opere                                                         Biografia

                         Il visconte dimezzato                           

 

VITA E OPERE

Italo Calvino nasce il 15 Ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, presso L’Avana. Entrambi i genitori sono d'origine italiana; per questo motivo quando Italo compie due anni, ritornano nel loro Paese natio.

Italo frequenta l’asilo infantile St. George College, le Scuole Valdesi, il ginnasio-liceo “G. D. Cassini”, la Facoltà di Agraria all’Università di Torino (dove supera i quattro esami del primo anno) e quella di Agraria e Forestale della Regia Università di Firenze (dove ne sostiene altri tre).

Essendo contrario al regime fascista si iscrive al PCI e si unisce, con suo fratello Floriano, alla seconda divisione di assalto “Garibaldi”. Col passare degli anni, però, si accorgerà d'aver compiuto una scelta sbagliata e nel 1957 si dimetterà dal Comitato Federale di Torino.

Dal 1946 in poi inizia a collaborare con vari giornali e riviste nei quali, tra l’altro, vengono pubblicati alcuni dei suoi racconti tra cui: Angoscia, Campo di mine, La formica argentina, le prime novelle di Marcovaldo, Gli avanguardisti a Mentone, La gran bonaccia delle Antille (racconto che condanna l’immobilismo del PCI), La cariocinesi e Il sangue, il mare.

L'Einaudi pubblica il suo primo libro: Il sentiero dei nidi di ragno. Nel 1949 esce la raccolta di racconti Ultimo viene il corvo.

Nel 1951 termina la travagliata elaborazione del romanzo realistico-sociale I giovani del Po e scrive Il visconte dimezzato.

Mentre si trova in Unione Sovietica, dove sta facendo un viaggio di lavoro, muore suo padre, che ricorderà qualche anno dopo nel racconto autobiografico La strada di San Giovanni.

Scrive il romanzo La collana della regina.

Vengono, intanto, pubblicati L’entrata in guerra, Il midollo del leone e le Fiabe Italiane.

Nell’ottobre del 1956 viene rappresentato al Teatro Donizzetti di Bergamo l’atto unico La panchina.

Tra 1958 e il 1959 vengono pubblicati molti suoi libri: Il barone rampante, La speculazione edilizia, La gallina di reparto, La collana della regina, La nuvola di smog, Racconti e Il cavaliere inesistente.

Nel settembre del 1959 viene messo in scena alla Fenice di Venezia il racconto mimico Allez-hop. Nello stesso anno lo scrittore fa un viaggio di sei mesi negli Stati Uniti in seguito al quale decide di scrivere il libro Un ottimista in America che, però, non pubblicherà mai.

Nel 1960 raccoglie la trilogia araldica nel volume Nostri antenati.

In seguito fa un viaggio a Parigi dove conosce Esther Judith Singer che diverrà sua moglie a L’Avana il 19 febbraio del 1964.

Nel 1965 nasce a Roma la figlia Giovanna. Nello stesso anno Italo pubblica Le Cosmicomiche.

Due anni dopo si trasferisce, con la famiglia, a Parigi.

Tra il 1968 e il 1973 pubblica: La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, La decapitazione dei capi, Gli amori difficili, Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Le città invisibili e Il castello dei destini incrociati.

Nel 1976 tiene delle conferenze in varie università degli Stati Uniti.

I viaggi in Messico e in Giappone gli danno spunto per un gruppo di articoli sul “Corriere” che poi saranno ripresi per Collezione di sabbia, con l’aggiunta di materiale inedito.

Due anni dopo, muore sua madre.

Poco dopo pubblica il romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Nel 1980 si trasferisce a Roma. In questo stesso anno raccoglie nel volume Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società la parte più espressiva dei suoi interventi saggistici dal 1955 in poi.

Nel 1982 al Teatro alla Scala di Milano viene rappresentata La Vera Storia, opera in due atti scritta da Berio e Calvino.

L’anno successivo viene nominato per un mese “directeur d’études” all’Ecole des Hautes Etudes. Esce il volume Palomar.

Nel 1984 compie un viaggio in Argentina. In questo stesso anno viene rappresentato a Salisburgo Un re in ascolto. Il 6 settembre 1985 è colto da ictus a Castiglione della Pescaia; viene, quindi, ricoverato all’ospedale Santa Maria della Scala a Siena. Muore in seguito ad emorragia cerebrale nella notte tra il 18 e il 19.

Biografia 

Il 15 ottobre 1923 Italo Calvino nasce a Santiago de las Vegas, nell'isola di Cuba. I genitori sono entrambi sanremesi e studiosi di scienze naturali: il padre, Mario, è agronomo e si trova a Cuba per dirigere una stazione sperimentale di agricoltura, la madre Evelina Mameli, è botanica. Due anni dopo la famiglia rientra a San Remo nella villa "la Meridiana", immersa in un giardino ricco di esemplari esotici. Italo impara presto a conoscere le piante, gli animali e i sentieri delle Prealpi liguri. Nel 1926 nasce il fratello Floriano. Dai genitori, entrambi di formazione laica, liberi pensatori, legati a tradizioni repubblicane e socialiste, riceve un'educazione tollerante e anticonformista rispetto a quella della maggioranza dei suoi coetanei. Frequenta poi il prestigioso Liceo Cassini dove ha per compagno Eugenio Scalfari, affascinato dal romanzo d'avventura e di formazione divora Kipling, Conrad, Stevenson e Nievo; compone le prime poesie. Suscitano inoltre la sua attenzione le riviste umoristiche, i fumetti e il cinema. Negli anni del primo conflitto mondiale, il giovane Calvino è di fronte a nette scelte politiche e morali. Durante l'occupazione tedesca è fra i renitenti alla leva della repubblica di Salò e, dopo aver appreso della morte in combattimento di un giovane medico comunista, si unisce insieme al fratello sedicenne, alle Brigate partigiane Garibaldi operanti nella zona delle alpi marittime. I suoi genitori vengono presi in ostaggio dai tedeschi. Dopo la liberazione, iscritto al PCI, frequenta gli ambienti della Einaudi dove conosce Pavese e Vittorini. Nel 1947 si laurea in letteratura con una tesi su Conrad. Nel 1949 è Pavese ad esortarlo a mettere mano al suo primo romanzo, "Il sentiero dei nidi di ragno". Collabora con l'Unità Il Politecnico e Cultura e realtà. Il suicidio di Pavese nel 1950 lo coglie di sorpresa e segna una svolta nella sua vita. Nel 51 perde anche il padre. Fra il 52 e il 56 pubblica, fra gli altri romanzi Il visconte dimezzato. Il 56 segna anche una frattura storica: si allontana dal PCI a causa della crisi in Ungheria. Fino al 66 pubblica Fiabe italiane, Il barone Rampante, Il cavaliere inesistente. Compie escursioni nel settore dell'astronomia, della biologia, della cibernetica. Calvino si trasferisce poi a Parigi dove resta sino al 1980, pubblica Le città invisibili. Dal 74 Calvino avvia una discontinua collaborazione col Corriere della sera. Nel 78 perde la madre 92enne e vende "La meridiana", inizia quindi la collaborazione con la Repubblica. Pubblica “Se una notte di inverno un viaggiatore”. Nel 1980 dichiara chiusa un'intera stagione culturale pubblicando tutti i suoi saggi con l'emblematico titolo Una pietra sopra. Nel 1980 torna in Italia e si stabilisce a Roma, un anno dopo riceve la legione d'onore. Nell'estate del 1985, intento a preparare un ciclo di conferenze a Harvard, è colto da ictus muore a Siena il 19 settembre. 

 

Il visconte dimezzato 

Quando scrive l’opera Calvino vede svanire, nel trapasso dall’entusiasmo della resistenza al clima della guerra fredda, il sogno di creare una letteratura che attinga la propria linfa vitale dall’epos popolare. L’autore proietta dunque i propri dubbi morali e ideologici sul protagonista, il visconte Medardo, diviso fra due verità: egoismo ed altruismo, logica e sentimento, viziosità sadica e bontà angelica. Abbandonata l’ipotesi di conoscere la totalità delle cose, tipica della vicenda di Pin, Calvino dà vita ad una figura irrigidita in un ritratto elementare, emblematico e allegorico. Sposta l’ambientazione della vicenda alla fine del 600, durante le guerre austro-turche, al fine di costruire un‘astrazione concettuale, adatta al genere del racconto filosofico. A ben guardare nel Visconte la metafora del dimidiamento vive anche nei personaggi minori: mastro Pietrochiodo è un geniale artigiano costretto a fornire solo forche e strumenti di tortura, il dottor Trelawney è uno scienziato che vive ai margini della società, i lebbrosi sono irrigiditi in un perenne ed irresponsabile edonismo, gli ugonotti impersonano l’eccesso di moralismo. Resta comunque la ricerca di una ricomposizione, di un incontro organico tra individuo e società: le due metà del visconte alla fine si ricongiungono in un “uomo intero” per l’amorosa virtù femminile di Pamela. Nel testo si nota la presenza di una costante destinata a un largo sviluppo nella produzione successiva: compaiono cioè personaggi-scrittori e personaggi-lettori che conferiscono al testo una dimensione metanarrativa, ossia di riflessione sui meccanismi interni alla narrazione. Il narratore testimone è, infatti, il giovane nipote di Medardo, che ci fa sapere di aver assistito agli avvenimenti con quella curiosità tipica del narratore calviniano, già manifestatasi in Pin. La metà buona del visconte, inoltre, ama leggere alla pastorella le ottave di Tasso, ma la sua lettura è sterile e lontana dalla realtà: egli cerca nel libro solo ciò che gli sta a cuore, finendo per annoiare il suo pubblico. La lettura - sembra avvertire Calvino - diventa fonte di interesse solo quando si riconverte in vita, solo quando cioè un colpo di falce del Gramo taglia in due il libro disseminandone le pagine fra i cespugli. L’essere dimezzato non si riferisce più soltanto alla spaccatura tra io politico e io naturale, ma assume una significazione più generale: Il visconte dimezzato è simbolo di uno stato che riguarda sia la sfera privata che quella naturale, che tutte le infinite altre relative all’essere umano. Il dimidiamento è la prospettiva da cui valutare le scelte possibili, un’ipotesi logica, o emotiva, che difficilmente può essere veri­ficata nelle sue implicazioni più ardite nella realtà quoti­diana e che quindi deve poggiare su uno zoccolo narrativo di invenzione dichiarata: il racconto assume un tono ir­reale ma verosimile. In generale la produzione di Calvino viene divisa in due settori, uno realistico e uno fantastico. Ma sono, questi, territori stilistico-poetici validi per le teorie letterarie dell’altro secolo, in cui infatti esse sono nate, quando al termine realismo corrispondeva, grosso modo, l’accettazione di una visione del mondo positivista, e al termine fantastico l’applicazione di categorie filosofiche della verosimiglianza, ma fatte funzionare su dati inventati o visionari, sui “buchi neri” della causalità: in America il fantastico era il genere popolare per eccel­lenza, come aveva ben capito Edgar Allan Poe che, per vivere, scriveva racconti nati anche dall’esigenza di esor­cizzare i lettori ingenui dei magazines dalle loro paure più elementari: quella della malattia (le eroine di Poe: Ligeia, Morella, Eleonora, hanno un aspetto poco sano, con il loro pallore di morte), quella della restrizione degli spazi vitali nelle grandi città (l’angoscia claustrofobica di tanti personaggi), quella della sepoltura prematura; o per sod­disfare la loro curiosità verso le esplorazioni geografiche (La discesa nel Maelstrdm, Gordon Pym), o scientifiche (i racconti sul mesmerismo), o ancora per appagare la curio­sltà morbosa verso i fatti di cronaca nera e così via. Poe, nel suo Ottocento, voleva creare una letteratura che “non fosse troppo elevata per il gusto popolare e, insieme, non al di sotto del gusto critico” L’obiettivo non era difficile da raggiungere, dal momento che in America lo scrittore può contare su una cultura naturalmente predisposta a fondere i due li­velli: la scelta popolare è determinata più dal gusto che dalla classe. Nel caso specifico, Poe si trovava a esercitare la sua professione in un’epoca di trapasso da una società preindustriale a una industriale, e operava in un’indu­stria culturale che per raggiungere anche i ceti sociali me­dio-bassi aveva ridotto sensibilmente il prezzo d’acquisto di giornali e riviste. Così, doveva scrivere per un pubblico allargato, interpretandone timori ancestrali e problemi storici senza cullano, come accade in molta letteratura di massa nostrana, nelle sue illusioni. Critico verso il perbe­nismo predicato nelle rubriche delle stesse testate per cui scriveva, metteva così in guardia, implicitamente, dai ri­schi di vivere nella violenza delle città industriali, e in quella esercitata nell’intimità delle case di una società così puritana. Calvino quando scrive il Visconte si trova anche lui in un momento delicato dello sviluppo della nazione, e vive il dramma dell’intellettuale di sinistra che vede sva­nire non solo il sogno, cullato sul «Politecnico», di dar vita a una letteratura che attinga la propria linfa dal bas­so, ma anche la prospettiva di una ricostruzione armonica della vita democratica del paese. Il racconto risente del clima teso della guerra fredda e delle forti tensioni interne e dà luogo a una serie di situazioni chiastiche: i lebbrosi, che potrebbero alludere a una società malata, vivono in un gaio edonismo, mentre gli ugonotti, che potrebbero alludere a una società teoricamente sana, quella socialista, tirano a campare in uno sterile moralismo. L’autore poi proietta i propri dubbi morali e ideologici sul protagoni­sta, personaggio dimidiato per eccellenza, il visconte Medardo di Terralba spaccato in due da una cannonata turca durante la guerra tra Austria e Turchia. Ma mentre in questo si identifica, contemporaneamente si nasconde, come aveva visto fare a uno dei suoi maestri, l’Ariosto, facendosi raccontare da un altro personaggio, il narrato­re, per potersi leggere come proiettato su uno schermo, fuori di sé: “E restituii lo sguardo a me stesso nel com­pleto distacco della distanza", racconta il narratore della Linea d’ombra (Conrad, La linea d’ombra, in Al limite estremo) a cui il nostro aveva già preso l’e­pigrafe per il Sentiero: “A Kim, e a tutti gli altri”. Il nar­ratore comincia la storia dalle ultime fasi di una guerra in qualche modo santa, presumibilmente vinta, ma non senza qualche incertezza, dai nostri. Ma il narratore, il giovane nipote del visconte Medardo, a lume di logica, non poteva aver seguito lo zio in battaglia, tanto è vero che lo ritroviamo nella ligure Terralba ad attendere l’ar­rivo del congiunto, anzi della sua metà cattiva, il Gramo. E dunque ipotizzabile che anche dietro il nipote sia l’au­tore stesso, che cerca di vedersi allo specchio dopo il ri­torno da una esperienza di lotta che lo aveva dimezzato: la guerra partigiana, dopo la quale la prospettiva intera e rassicurante di un antifascismo naturale si era, come sap­piamo, incrinata. Comincia quindi a colpire le persone a lui “naturalmente” più care, il padre, la balia Sebastiana, il nipote; a piegare la tecnica per costruire strumenti di tortura; a spaventare il popolo degli ugonotti, che però avevano perduto la loro religiosità, e i lebbrosi, che no­nostante la malattia si godevano edonisticamente la vita. La cattiveria, rivolta anche verso i propri averi, suggeri­sce il senso di una necessaria distruzione degli affetti, evi­dentemente anche ideologici, più cari, per cogliere il nocciolo del proprio rapporto contraddittorio con quel preciso momento storico: “Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse, stupide come l’aria; credevo di veder tutto e non era che la scorza”, racconta il visconte al nipote, cioè a se stesso. L’invito a diventare sempre la metà di se stessi è fatto per capire “cose al di là della co­mune intelligenza dei cervelli interi”. La cattiveria è dunque il risultato di uno sforzo d’intelligenza, che per conoscere deve rompere a metà qualsiasi oggetto in questione. Quando arriva inaspettatamente l’altra metà, il Buono, non solo gli esseri dimezzati del Gramo vengono ricom­posti, ma anche i personaggi usi fino a questo momento a compiere studi socialmente inutili (il dottor Trelawney) o persecutori (il carpentiere Pietrochiodo) vengono inutiliz­zati per alleviare i bisogni e le sofferenze degli altri. Tut­tavia, se idilliaci diventano i rapporti individuali tra que­sto mezzo visconte e i singoli, disastrosi si rivelano le prospettive di bontà per ugonotti e lebbrosi, cioè i due gruppi sociali. L’ipotesi complementare a quella del Gra­mo, di non analizzare il mondo, ma di immergervisi col cuore, funziona male anch’essa: “capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno ha per la propria incompletezza”, avere “una fraternità [...] con tutte le mu­tilazioni e le mancanze del mondo", e “soffrire dei mali di ciascuno”, non basta a mettere a punto un pia­no d’azione valido per l’intera collettività: “ci sentivamo come perduti tra malvagità e virtù egualmente disumane” è infatti la sensazione diffusa. Passato il mo­mento eroico in cui era la storia a spingerci a una scelta obbligata, Calvino comincia impercettibilmente a decli­nare le proprie responsabilità di intellettuale impegnato a indicare, come dice Fenoglio, “the right side”, la parte giusta. Le categorie che stabilivano i modi corretti di rap­portarsi a un essere almeno storicamente autentico non sembrano più istintivamente separabili da quelle che incoraggiavano un atteggiamento contrario. Già nell’Essere e il nulla Sartre aveva chiarito che: “Il pensiero moderno ha realizzato un notevole progresso col ni-. durre l’esistente alla serie di apparizioni che lo manifestano […]. Le apparizioni che manifestano l’esistente non sono né interiori né esteriori: esse hanno tutte uno stesso valore, rinviano ad altre apparizioni e nessuna di esse è privilegiata […]. Il dualismo essere-apparire non deve più trovare diritto di cittadinanza in fi­losofia. L’apparenza rinvia alla serie completa delle apparenze e non ad un reale nascosto che verrebbe ad assorbire per sé tutto l’essere dell’esistente […]. Perché l’essere di un esistente è pre­cisamente ciò che esso appare […]. L’essenza d’un esistente è la legge manifesta che presiede la successione delle sue apparizio­ni, è la ragione della serie […]. Così l’essere fenomenico si ma­nifesta, manifesta tanto la sua essenza che la sua esistenza, e non è altro che la serie ben collegata delle sue manifestazioni”. Nel rapporto essere-apparire il primo termine non permette più di gerarchizzare i molteplici aspetti di una realtà i cui contorni cominciano a sfumare. L’antinomia kantiana si fa serie: su questa ipotesi Calvino sembra far muovere il proprio personaggio che risulta dimidiato tra egoismo e altruismo, logica e sentimento, sadismo e sacrificio di sé, distruzione e risanamento, assolutezza e compromesso, e così via, ma senza che le norme comportamentali di una delle due serie di termini antinomici pos­sono essere senz’altro prese a modello. La vita ritorna alla normalità solo quando il medico riesce a far combaciare perfettamente le due metà, affrontatesi in un ultimo grottesco duello. Ma Trelawney alla fine fugge su una nave carica di cancarone, il suo vino preferito, dove un capitano Cook sbucato all’improvviso lo aspetta per continuare una partita di tresette; e il narratore, che vorrebbe disperatamente seguirli nel loro viaggio verso il continente australiano da poco scoperto e quindi ancora da colonizzare, deve restare in quello vecchissimo, “pieno di responsabi­litá  e di fuochi fatui”. Certo che non bastava un visconte completo a far diventare completo tutto il mondo, ma l’esperienza dell’una e dell’altra metà fuse insieme poteva offrire qualche garanzia, se non di felicità, almeno di sag­gezza. Se Nino aveva chiuso il suo diario con il proposito di vederci più chiaro, non si può certo dire che questo cauto invito all’ottimismo abbia risolto il suo problema, anzi, da un punto di vista politico si può dire che l’abbia ulteriormente complicato. Ricomposta si è, piuttosto, la scissione tra impegno e sentimento, perché scivolata anch’essa in quell’indistinto che è il mondo. La donna, qui personificata nella pastorella Pamela amata sia dal Gramo che dal Buono e sposata dal visconte riunito, si rivela l’es­sere intero e quindi disposta naturalmente al compromes­so: aggirando le scelleratezze dell’uno e le sdolcinatezze dell’altro, riesce sempre a decodificare in tempo i messaggi cniptici dei due e a salvaguardare la propria indipen­denza, sentimentale e decisionale: la predisposizione alla sintesi tra gli opposti può valere nella vita pratica, ma non può dare una soluzione a una ricerca teorica, che il nar­ratore sfoga, ancora una volta, nel racconto: “Un ago di pino poteva rappresentare per me un cavaliere, o una da­ma, o un buffone; io lo facevo muovere dinanzi ai miei occhi e m’esaltavo in racconti interminabili. Poi mi prendeva la vergogna di queste fantastichenie e scappavo. Sembra quasi una dichia­razione di poetica, fatta da un autore che vuole sottoli­neare da un parte la serietà del suo tema e dall’altra la libertà di fantastichenia da indurre in un lettore che nel testo voglia trovare anche altro. Come in una fiaba, non solo i personaggi sembrano inventati di sana pianta, ma anche la dimensione temporale, pur resa concreta dall’al­lusione a precisi eventi storici, finisce per perdersi in per­cettibili anacronismi fino a sfumare in un tempo e in uno spazio indefinibili. La vicenda, insomma, non si sottrae a una decodifica molto più generalizzabile, come allegoria dell’essere uomo. L’io storico dell’autore dimidiato, quel­lo narratologico del fabulatore, e ancora quello falso-ingenuo del personaggio narrante recintano una forma ab­bastanza simile a quella di un’epica nazional-popolare. All’artificiosità della ricerca del punto di vista da cui guardare i fatti si aggiunge anche l’artificiosità di una lin­gua che appare depurata rispetto a quella del Sentiero. Calvino scrive come se l’italiano non fosse affetto dalla secolare questione, appunto, della lingua. Pasolini, in un articolo famoso, La confusione degli stili, aveva ben notato la sua scrittura lucida, nitida, asciutta e nello stesso tem­po spregiudicata e corrosiva. Pin ha ricevuto un’educa­zione linguistica che, se non gli ha evitato l’emarginazio­ne dal mondo dei grandi, gli ha tuttavia permesso di raccontare le sue storie a tutto il mondo. Una volta ab­bandonata l’ipotesi di conoscere nell’interezza, il narratore ha a disposizione solo immagini parziali, che vengo­no tuttavia ordinate una accanto all’altra secondo l’ordine sintattico ridotto alla elementarità della paratas­si. Si capisce allora che le figure così sbozzate e irrigidite in ritratti e pose forzate solo in apparenza possano simu­lare levita e astrazione. Sotto la calma si intuisce invece la passione, come se da queste statuine di cristallo potesse sgorgare sangue: è forse proprio il motivo per cui queste pagine ci sembrano ancora così vicine.