Vita
e opere
Biografia
Il
visconte dimezzato
VITA E OPERE
Italo
Calvino nasce il 15 Ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, presso
L’Avana. Entrambi i genitori sono d'origine italiana; per questo motivo
quando Italo compie due anni, ritornano nel loro Paese natio.
Italo
frequenta l’asilo infantile St. George College, le Scuole Valdesi, il
ginnasio-liceo “G. D. Cassini”, la Facoltà di Agraria all’Università
di Torino (dove supera i quattro esami del primo anno) e quella di Agraria
e Forestale della Regia Università di Firenze (dove ne sostiene altri
tre).
Essendo
contrario al regime fascista si iscrive al PCI e si unisce, con suo
fratello Floriano, alla seconda divisione di assalto “Garibaldi”. Col
passare degli anni, però, si accorgerà d'aver compiuto una scelta
sbagliata e nel 1957 si dimetterà dal Comitato Federale di Torino.
Dal
1946 in poi inizia a collaborare con vari giornali e riviste nei quali,
tra l’altro, vengono pubblicati alcuni dei suoi racconti tra cui: Angoscia, Campo di mine,
La formica argentina, le prime novelle di Marcovaldo,
Gli avanguardisti a Mentone,
La gran bonaccia delle Antille (racconto che condanna l’immobilismo
del PCI), La cariocinesi e Il
sangue, il mare.
L'Einaudi
pubblica il suo primo libro: Il
sentiero dei nidi di ragno. Nel 1949 esce la raccolta di racconti Ultimo viene il corvo.
Nel
1951 termina la travagliata elaborazione del romanzo realistico-sociale I giovani del Po e scrive Il
visconte dimezzato.
Mentre
si trova in Unione Sovietica, dove sta facendo un viaggio di lavoro, muore
suo padre, che ricorderà qualche anno dopo nel racconto autobiografico La strada di San Giovanni.
Scrive
il romanzo La collana della regina.
Vengono,
intanto, pubblicati L’entrata in
guerra, Il midollo del leone
e le Fiabe Italiane.
Nell’ottobre
del 1956 viene rappresentato al Teatro Donizzetti di Bergamo l’atto
unico La panchina.
Tra
1958 e il 1959 vengono pubblicati molti suoi libri: Il
barone rampante, La speculazione
edilizia, La gallina di reparto,
La collana della regina, La
nuvola di smog, Racconti e Il cavaliere
inesistente.
Nel
settembre del 1959 viene messo in scena alla Fenice di Venezia il racconto
mimico Allez-hop. Nello stesso
anno lo scrittore fa un viaggio di sei mesi negli Stati Uniti in seguito
al quale decide di scrivere il libro Un
ottimista in America che, però, non pubblicherà mai.
Nel
1960 raccoglie la trilogia araldica nel volume Nostri
antenati.
In
seguito fa un viaggio a Parigi dove conosce Esther Judith Singer che
diverrà sua moglie a L’Avana il 19 febbraio del 1964.
Nel
1965 nasce a Roma la figlia Giovanna. Nello stesso anno Italo pubblica Le Cosmicomiche.
Due
anni dopo si trasferisce, con la famiglia, a Parigi.
Tra
il 1968 e il 1973 pubblica: La
memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, La
decapitazione dei capi, Gli
amori difficili, Orlando Furioso
di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Le
città invisibili e Il castello
dei destini incrociati.
Nel
1976 tiene delle conferenze in varie università degli Stati Uniti.
I
viaggi in Messico e in Giappone gli danno spunto per un gruppo di articoli
sul “Corriere” che poi saranno ripresi per Collezione
di sabbia, con l’aggiunta di materiale inedito.
Due
anni dopo, muore sua madre.
Poco
dopo pubblica il romanzo Se una
notte d’inverno un viaggiatore.
Nel
1980 si trasferisce a Roma. In questo stesso anno raccoglie nel volume Una
pietra sopra. Discorsi di letteratura e società la parte più
espressiva dei suoi interventi saggistici dal 1955 in poi.
Nel
1982 al Teatro alla Scala di Milano viene rappresentata La
Vera Storia, opera in due atti scritta da Berio e Calvino.
L’anno
successivo viene nominato per un mese “directeur d’études” all’Ecole
des Hautes Etudes. Esce il volume Palomar.
Nel
1984 compie un viaggio in Argentina. In questo stesso anno viene
rappresentato a Salisburgo Un re in
ascolto. Il 6 settembre 1985 è colto da ictus a Castiglione della
Pescaia; viene, quindi, ricoverato all’ospedale Santa Maria della Scala
a Siena. Muore in seguito ad emorragia cerebrale nella notte tra il 18 e
il 19.
Biografia
Il
15 ottobre 1923 Italo Calvino nasce a Santiago de las Vegas, nell'isola di
Cuba. I genitori sono entrambi sanremesi e studiosi di scienze naturali:
il padre, Mario, è agronomo e si trova a Cuba per dirigere una stazione
sperimentale di agricoltura, la madre Evelina Mameli, è botanica. Due
anni dopo la famiglia rientra a San Remo nella villa "la
Meridiana", immersa in un giardino ricco di esemplari esotici. Italo
impara presto a conoscere le piante, gli animali e i sentieri delle
Prealpi liguri. Nel 1926 nasce il fratello Floriano. Dai genitori,
entrambi di formazione laica, liberi pensatori, legati a tradizioni
repubblicane e socialiste, riceve un'educazione tollerante e
anticonformista rispetto a quella della maggioranza dei suoi coetanei.
Frequenta poi il prestigioso Liceo Cassini dove ha per compagno Eugenio
Scalfari, affascinato dal romanzo d'avventura e di formazione divora
Kipling, Conrad, Stevenson e Nievo; compone le prime poesie. Suscitano
inoltre la sua attenzione le riviste umoristiche, i fumetti e il cinema.
Negli anni del primo conflitto mondiale, il giovane Calvino è di fronte a
nette scelte politiche e morali. Durante l'occupazione tedesca è fra i
renitenti alla leva della repubblica di Salò e, dopo aver appreso della
morte in combattimento di un giovane medico comunista, si unisce insieme
al fratello sedicenne, alle Brigate partigiane Garibaldi operanti nella
zona delle alpi marittime. I suoi genitori vengono presi in ostaggio dai
tedeschi. Dopo la liberazione, iscritto al PCI, frequenta gli ambienti
della Einaudi dove conosce Pavese e Vittorini. Nel 1947 si laurea in
letteratura con una tesi su Conrad. Nel 1949 è Pavese ad esortarlo a
mettere mano al suo primo romanzo, "Il sentiero dei nidi di
ragno". Collabora con l'Unità Il Politecnico e Cultura e realtà. Il
suicidio di Pavese nel 1950 lo coglie di sorpresa e segna una svolta nella
sua vita. Nel 51 perde anche il padre. Fra il 52 e il 56 pubblica, fra gli
altri romanzi Il visconte dimezzato. Il 56 segna anche una frattura
storica: si allontana dal PCI a causa della crisi in Ungheria. Fino al 66
pubblica Fiabe italiane, Il barone Rampante, Il cavaliere inesistente.
Compie escursioni nel settore dell'astronomia, della biologia, della
cibernetica. Calvino si trasferisce poi a Parigi dove resta sino al 1980,
pubblica Le città invisibili. Dal 74 Calvino avvia una discontinua
collaborazione col Corriere della sera. Nel 78 perde la madre 92enne e
vende "La meridiana", inizia quindi la collaborazione con la
Repubblica. Pubblica “Se una notte di inverno un viaggiatore”. Nel
1980 dichiara chiusa un'intera stagione culturale pubblicando tutti i suoi
saggi con l'emblematico titolo Una pietra sopra. Nel 1980 torna in Italia
e si stabilisce a Roma, un anno dopo riceve la legione d'onore.
Nell'estate del 1985, intento a preparare un ciclo di conferenze a Harvard,
è colto da ictus muore a Siena il 19 settembre.
Il
visconte dimezzato
Quando
scrive l’opera Calvino vede svanire, nel trapasso dall’entusiasmo
della resistenza al clima della guerra fredda, il sogno di creare una
letteratura che attinga la propria linfa vitale dall’epos popolare.
L’autore proietta dunque i propri dubbi morali e ideologici sul
protagonista, il visconte Medardo, diviso fra due verità: egoismo ed
altruismo, logica e sentimento, viziosità sadica e bontà angelica.
Abbandonata l’ipotesi di conoscere la totalità delle cose, tipica della
vicenda di Pin, Calvino dà vita ad una figura irrigidita in un ritratto
elementare, emblematico e allegorico. Sposta l’ambientazione della
vicenda alla fine del 600, durante le guerre austro-turche, al fine di
costruire un‘astrazione concettuale, adatta al genere del racconto
filosofico. A ben guardare nel Visconte la metafora del dimidiamento vive
anche nei personaggi minori: mastro Pietrochiodo è un geniale artigiano
costretto a fornire solo forche e strumenti di tortura, il dottor
Trelawney è uno scienziato che vive ai margini della società, i lebbrosi
sono irrigiditi in un perenne ed irresponsabile edonismo, gli ugonotti
impersonano l’eccesso di moralismo. Resta comunque la ricerca di una
ricomposizione, di un incontro organico tra individuo e società: le due
metà del visconte alla fine si ricongiungono in un “uomo intero” per
l’amorosa virtù femminile di Pamela. Nel testo si nota la presenza di
una costante destinata a un largo sviluppo nella produzione successiva:
compaiono cioè personaggi-scrittori e personaggi-lettori che conferiscono
al testo una dimensione metanarrativa, ossia di riflessione sui meccanismi
interni alla narrazione. Il narratore testimone è, infatti, il giovane
nipote di Medardo, che ci fa sapere di aver assistito agli avvenimenti con
quella curiosità tipica del narratore calviniano, già manifestatasi in
Pin. La metà buona del visconte, inoltre, ama leggere alla pastorella le
ottave di Tasso, ma la sua lettura è sterile e lontana dalla realtà:
egli cerca nel libro solo ciò che gli sta a cuore, finendo per annoiare
il suo pubblico. La lettura - sembra avvertire Calvino - diventa fonte di
interesse solo quando si riconverte in vita, solo quando cioè un colpo di
falce del Gramo taglia in due il libro disseminandone le pagine fra i
cespugli.
L’essere
dimezzato non si riferisce più soltanto alla spaccatura tra io politico e
io naturale, ma assume una significazione più generale: Il
visconte dimezzato è simbolo di uno stato che riguarda sia la sfera
privata che quella naturale, che tutte le infinite altre relative
all’essere umano. Il dimidiamento è la prospettiva da cui valutare le
scelte possibili, un’ipotesi logica, o emotiva, che difficilmente può
essere verificata nelle sue implicazioni più ardite nella realtà quotidiana
e che quindi deve poggiare su uno zoccolo narrativo di invenzione
dichiarata: il racconto assume un tono irreale ma verosimile. In
generale la produzione di Calvino viene divisa in due settori, uno
realistico e uno fantastico. Ma sono, questi, territori stilistico-poetici
validi per le teorie letterarie dell’altro secolo, in cui infatti esse
sono nate, quando al termine realismo corrispondeva, grosso modo,
l’accettazione di una visione del mondo positivista, e al termine
fantastico l’applicazione di categorie filosofiche della
verosimiglianza, ma fatte funzionare su dati inventati o visionari, sui
“buchi neri” della causalità: in America il fantastico era il genere
popolare per eccellenza, come aveva ben capito Edgar Allan Poe che, per
vivere, scriveva racconti nati anche dall’esigenza di esorcizzare i
lettori ingenui dei magazines dalle
loro paure più elementari: quella della malattia (le eroine di Poe:
Ligeia, Morella, Eleonora, hanno un aspetto poco sano, con il loro pallore
di morte), quella della restrizione degli spazi vitali nelle grandi città
(l’angoscia claustrofobica di tanti personaggi), quella della sepoltura
prematura; o per soddisfare la loro curiosità verso le esplorazioni
geografiche (La discesa nel
Maelstrdm, Gordon Pym), o scientifiche (i racconti sul mesmerismo), o
ancora per appagare la curiosltà morbosa verso i fatti di cronaca nera
e così via. Poe, nel suo Ottocento, voleva creare una letteratura che
“non fosse troppo elevata per il gusto popolare e, insieme, non al di
sotto del gusto critico” L’obiettivo non era difficile da raggiungere,
dal momento che in America lo scrittore può contare su una cultura
naturalmente predisposta a fondere i due livelli: la scelta popolare è
determinata più dal gusto che dalla classe. Nel caso specifico, Poe si
trovava a esercitare la sua professione in un’epoca di trapasso da una
società preindustriale a una industriale, e operava in un’industria
culturale che per raggiungere anche i ceti sociali medio-bassi aveva
ridotto sensibilmente il prezzo d’acquisto di giornali e riviste. Così,
doveva scrivere per un pubblico allargato, interpretandone timori
ancestrali e problemi storici senza cullano, come accade in molta
letteratura di massa nostrana, nelle sue illusioni. Critico verso il perbenismo
predicato nelle rubriche delle stesse testate per cui scriveva, metteva
così in guardia, implicitamente, dai rischi di vivere nella violenza
delle città industriali, e in quella esercitata nell’intimità delle
case di una società così puritana. Calvino quando scrive il Visconte
si trova anche lui in un momento delicato dello sviluppo della
nazione, e vive il dramma dell’intellettuale di sinistra che vede svanire
non solo il sogno, cullato sul «Politecnico», di dar vita a una
letteratura che attinga la propria linfa dal basso, ma anche la
prospettiva di una ricostruzione armonica della vita democratica del
paese. Il racconto risente del clima teso della guerra fredda e delle
forti tensioni interne e dà luogo a una serie di situazioni chiastiche: i
lebbrosi, che potrebbero alludere a una società malata, vivono in un gaio
edonismo, mentre gli ugonotti, che potrebbero alludere a una società
teoricamente sana, quella socialista, tirano a campare in uno sterile
moralismo. L’autore poi proietta i propri dubbi morali e ideologici sul
protagonista, personaggio dimidiato per eccellenza, il visconte Medardo
di Terralba spaccato in due da una cannonata turca durante la guerra tra
Austria e Turchia. Ma mentre in questo si identifica, contemporaneamente
si nasconde, come aveva visto fare a uno dei suoi maestri, l’Ariosto,
facendosi raccontare da un altro personaggio, il narratore, per potersi
leggere come proiettato su uno schermo, fuori di sé: “E restituii lo
sguardo a me stesso nel completo distacco della distanza", racconta
il narratore della Linea d’ombra (Conrad,
La linea d’ombra, in Al
limite estremo) a cui il nostro aveva già preso l’epigrafe per il
Sentiero: “A Kim, e a tutti
gli altri”. Il narratore comincia la storia dalle ultime fasi di una
guerra in qualche modo santa, presumibilmente vinta, ma non senza qualche
incertezza, dai nostri. Ma il narratore, il giovane nipote del visconte
Medardo, a lume di logica, non poteva aver seguito lo zio in battaglia,
tanto è vero che lo ritroviamo nella ligure Terralba ad attendere l’arrivo
del congiunto, anzi della sua metà cattiva, il Gramo. E dunque
ipotizzabile che anche dietro il nipote sia l’autore stesso, che cerca
di vedersi allo specchio dopo il ritorno da una esperienza di lotta che
lo aveva dimezzato: la guerra partigiana, dopo la quale la prospettiva
intera e rassicurante di un antifascismo naturale si era, come sappiamo,
incrinata. Comincia quindi a colpire le persone a lui “naturalmente”
più care, il padre, la balia Sebastiana, il nipote; a piegare la tecnica
per costruire strumenti di tortura; a spaventare il popolo degli ugonotti,
che però avevano perduto la loro religiosità, e i lebbrosi, che nonostante
la malattia si godevano edonisticamente la vita. La cattiveria, rivolta
anche verso i propri averi, suggerisce il senso di una necessaria
distruzione degli affetti, evidentemente anche ideologici, più cari,
per cogliere il nocciolo del proprio rapporto contraddittorio con quel
preciso momento storico: “Ero intero e tutte le cose erano per me
naturali e confuse, stupide come l’aria; credevo di veder tutto e non
era che la scorza”, racconta il visconte al nipote, cioè a se stesso.
L’invito a diventare sempre la metà di se stessi è fatto per capire
“cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi”. La
cattiveria è dunque il risultato di uno sforzo d’intelligenza, che per
conoscere deve rompere a metà qualsiasi oggetto in questione. Quando
arriva inaspettatamente l’altra metà, il Buono, non solo gli esseri
dimezzati del Gramo vengono ricomposti, ma anche i personaggi usi fino a
questo momento a compiere studi socialmente inutili (il dottor Trelawney)
o persecutori (il carpentiere Pietrochiodo) vengono inutilizzati per
alleviare i bisogni e le sofferenze degli altri. Tuttavia, se idilliaci
diventano i rapporti individuali tra questo mezzo visconte e i singoli,
disastrosi si rivelano le prospettive di bontà per ugonotti e lebbrosi,
cioè i due gruppi sociali. L’ipotesi complementare a quella del Gramo,
di non analizzare il mondo, ma di immergervisi col cuore, funziona male
anch’essa: “capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno
ha per la propria incompletezza”, avere “una fraternità [...] con
tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo", e “soffrire dei
mali di ciascuno”, non basta a mettere a punto un piano d’azione valido per
l’intera collettività: “ci sentivamo come perduti tra malvagità e
virtù egualmente disumane” è infatti la sensazione diffusa. Passato il
momento eroico in cui era la storia a spingerci a una scelta obbligata,
Calvino comincia impercettibilmente a declinare le proprie responsabilità
di intellettuale impegnato a indicare, come dice Fenoglio, “the right
side”, la parte giusta. Le categorie che stabilivano i modi corretti di
rapportarsi a un essere almeno storicamente autentico non sembrano più
istintivamente separabili da quelle che incoraggiavano un atteggiamento
contrario. Già nell’Essere e il
nulla Sartre aveva chiarito che:
“Il
pensiero moderno ha realizzato un notevole progresso col ni-. durre
l’esistente alla serie di apparizioni che lo manifestano […]. Le
apparizioni che manifestano l’esistente non sono né interiori né
esteriori: esse hanno tutte uno stesso valore, rinviano ad altre
apparizioni e nessuna di esse è privilegiata […]. Il dualismo
essere-apparire non deve più trovare diritto di cittadinanza in filosofia.
L’apparenza rinvia alla serie completa delle apparenze e non ad un reale
nascosto che verrebbe ad assorbire per sé tutto l’essere
dell’esistente […]. Perché l’essere di un esistente è precisamente
ciò che esso appare […]. L’essenza d’un esistente è la legge
manifesta che presiede la successione delle sue apparizioni, è la
ragione della serie […]. Così l’essere fenomenico si manifesta,
manifesta tanto la sua essenza che la sua esistenza, e non è altro che la
serie ben collegata delle sue manifestazioni”.
Nel
rapporto essere-apparire il primo termine non permette più di
gerarchizzare i molteplici aspetti di una realtà i cui contorni
cominciano a sfumare. L’antinomia kantiana si fa serie: su questa
ipotesi Calvino sembra far muovere il proprio personaggio che risulta
dimidiato tra egoismo e altruismo, logica e sentimento, sadismo e
sacrificio di sé, distruzione e risanamento, assolutezza e compromesso, e
così via, ma senza che le norme comportamentali di una delle due serie di
termini antinomici possono essere senz’altro prese a modello. La vita
ritorna alla normalità solo quando il medico riesce a far combaciare
perfettamente le due metà, affrontatesi in un ultimo grottesco duello. Ma
Trelawney alla fine fugge su una nave carica di cancarone, il suo vino
preferito, dove un capitano Cook sbucato all’improvviso lo aspetta per
continuare una partita di tresette; e il narratore, che vorrebbe
disperatamente seguirli nel loro viaggio verso il continente australiano
da poco scoperto e quindi ancora da colonizzare, deve restare in quello
vecchissimo, “pieno di responsabilitá
e di fuochi fatui”. Certo che non bastava un visconte completo a
far diventare completo tutto il mondo, ma l’esperienza dell’una e
dell’altra metà fuse insieme poteva offrire qualche garanzia, se non di
felicità, almeno di saggezza. Se Nino aveva chiuso il suo diario con il
proposito di vederci più chiaro, non si può certo dire che questo cauto
invito all’ottimismo abbia risolto il suo problema, anzi, da un punto di
vista politico si può dire che l’abbia ulteriormente complicato.
Ricomposta si è, piuttosto, la scissione tra impegno e sentimento, perché
scivolata anch’essa in quell’indistinto che è il mondo. La donna, qui
personificata nella pastorella Pamela amata sia dal Gramo che dal Buono e
sposata dal visconte riunito, si rivela l’essere intero e quindi
disposta naturalmente al compromesso: aggirando le scelleratezze
dell’uno e le sdolcinatezze dell’altro, riesce sempre a decodificare
in tempo i messaggi cniptici dei due e a salvaguardare la propria indipendenza,
sentimentale e decisionale: la predisposizione alla sintesi tra gli
opposti può valere nella vita pratica, ma non può dare una soluzione a
una ricerca teorica, che il narratore sfoga, ancora una volta, nel
racconto: “Un ago di pino poteva rappresentare per me un cavaliere, o
una dama, o un buffone; io lo facevo muovere dinanzi ai miei occhi e
m’esaltavo in racconti interminabili. Poi mi prendeva la vergogna di
queste fantastichenie e scappavo. Sembra quasi una dichiarazione di
poetica, fatta da un autore che vuole sottolineare da un parte la serietà
del suo tema e dall’altra la libertà di fantastichenia da indurre in un
lettore che nel testo voglia trovare anche altro. Come in una fiaba, non
solo i personaggi sembrano inventati di sana pianta, ma anche la
dimensione temporale, pur resa concreta dall’allusione a precisi
eventi storici, finisce per perdersi in percettibili anacronismi fino a
sfumare in un tempo e in uno spazio indefinibili. La vicenda, insomma, non
si sottrae a una decodifica molto più generalizzabile, come allegoria
dell’essere uomo. L’io storico dell’autore dimidiato, quello
narratologico del fabulatore, e ancora quello falso-ingenuo del
personaggio narrante recintano una forma abbastanza simile a quella di
un’epica nazional-popolare. All’artificiosità della ricerca del punto
di vista da cui guardare i fatti si aggiunge anche l’artificiosità di
una lingua che appare depurata rispetto a quella del Sentiero. Calvino
scrive come se l’italiano non fosse affetto dalla secolare questione,
appunto, della lingua. Pasolini, in un articolo famoso, La confusione
degli stili, aveva ben notato la sua scrittura lucida, nitida, asciutta e
nello stesso tempo spregiudicata e corrosiva. Pin ha ricevuto un’educazione
linguistica che, se non gli ha evitato l’emarginazione dal mondo dei
grandi, gli ha tuttavia permesso di raccontare le sue storie a tutto il
mondo. Una volta abbandonata l’ipotesi di conoscere nell’interezza,
il narratore ha a disposizione solo immagini parziali, che vengono
tuttavia ordinate una accanto all’altra secondo l’ordine sintattico
ridotto alla elementarità della paratassi. Si capisce allora che le
figure così sbozzate e irrigidite in ritratti e pose forzate solo in
apparenza possano simulare levita e astrazione. Sotto la calma si
intuisce invece la passione, come se da queste statuine di cristallo
potesse sgorgare sangue: è forse proprio il motivo per cui queste pagine
ci sembrano ancora così vicine.
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