La compagnia Le Ariette e Il Teatro da mangiare: un grano di teatro
Diamo a Cesare quello che
è di Cesare e cioè a Valeriano Gialli quello che gli spetta. Un
sostegno intellettuale, quindi, assai più che un applauso, perché
il suo teatro che puzza o che è buono da mangiare è ciò
che le nostre menti intorpidite inconsapevolmente chiedono e perché non
basta l'attitudine da pecore plaudenti degli spettatori a fare di uno spettacolo
un evento.
Serve il movimento dei cervelli, serve la critica o la condivisione cosciente,
serve il riscatto della passività. Lo "Scenario sensibile",
bontà sua, ha regole d'uso sue proprie e ben vengano coloro che l'anno
passato si alzarono e uscirono di fronte a "Fanny e Alexander" e ben
vengano le insofferenze di chi ha trovato "L'agenda di Seattle" ideologico
e tendenzioso. Il teatro e, mi si consenta, l'arte tutta o è un pugno
nello stomaco o è insipido melodramma. Troviamoci allora davanti a un
piatto di tagliatelle e ascoltiamo Tom Waits magistralmente "rifatto"
in italiano da Paola Berselli, mangiamo biologico e mangiamo parole di Camus,
ascoltiamo la fatica di contadini neofiti e teatranti insoddisfatti, che raccontano
di cani, polli e gatti propri, parlano di faccende che ci riguardano tutti.
Rimaniamo onesti, però, diciamocelo che l'antieconomico, ideale e cifra
esistenziale e poetica del Teatro delle Ariette, non è esattamente il
principio che governa le nostre vite. E allora forse il teatro ci farà
migliori, più consapevoli, meno ceto medio dirozzato che usa l'arte per
inventarsi coscienze immacolate che non ha.
Ripartiamo dai chicchi di grano che fanno "un " teatro, ma forse,
a ben vedere, tutto il teatro del mondo e impariamo a imparare. Altrimenti l'arte
a cosa serve?
Grazie, allora, alle Ariette, a Paola Berselli, a Stefano Pasquini, a Maurizio
Ferraresi, che sabato 9 e domenica 10 febbraio hanno servito un pranzo e due
cene e hanno fatto teatro perché ci hanno obbligato a pensare ai mulini
ad acqua e alla delusione venata di nostalgia che si accompagna alle note dell'Internazionale.
Grazie per aver ironizzato sul teatro di ricerca che assomiglia pericolosamente
alle strategie socializzanti del Club Med. Grazie per aver raccontato il piccolo
pensando al grande, per essere emiliani eppure "assoluti", una donna
e due uomini che si confrontano con il proprio passato e con i mulini industriali
della Barilla e impastano terra e teatro per indicarci una via possibile.