Anno II - n.10 - 10/03/2001

PRIMA DELLE TAGLIATELLE FUMANTI

Teatro da mangiare?, con le Ariette di Stefano Pasquini, Paola Berselli e Maurizio Ferraresi, tra i colli bolognesi. Tre cuochi-artefici si trasformano in narratori di un viaggio mentale attraverso dieci e più anni della loro e della nostra vita. Il gruppo trova con questo emozionante spettacolo uno sbocco alto a una ricerca continua, sempre attenta a coniugare autoanalisi e osservazione politica e d’ambiente
di MASSIMO MARINO

Castello di Serravalle (BO) - Fra i colli bolognesi si replica da circa un mese uno strano spettacolo, straordinario: Teatro da mangiare?. E’ un pranzo vero e proprio, in un agriturismo sperso nel paesaggio di fine inverno, lungo una strada del vino fiancheggiata da spogli boschetti. Condito da azioni teatrali tese sul crinale della confessione, dell’autobiografia, in un allegro e impietoso scrutarsi dentro percorrendo sentimenti, fallimenti, sogni.

Da Bologna si prende la strada che porta a Vignola, nel modenese, e prima di Bazzano si sale verso Monteveglio. Fra campi e capannoni industriali si apre la via del Rio Marzatore. Ora la campagna vince, fino alle Ariette. Si lascia la macchina di fronte alla casa che serve da ristorante e bed & breakfast e ci si arrampica fino al "teatro", una capannone quadrangolare tirato su mattone per mattone da Stefano Pasquini, Paola Berselli e Maurizio Ferraresi, il Teatro delle Ariette per l’appunto. Ci sono famiglie e comitive, per poco più di venti persone. Si entra tutti insieme e il caldo ci avvolge mentre i tre, in maglietta a mezze maniche e grembiule, sono intenti a tirare la sfoglia con piccoli matterelli. Un pentolone bolle. Una grande tavola è imbandita con un cesto di mele, un grande piatto di noci, stoviglie e posate, acqua e vino.

Teatro da mangiare. Mentre assaggiamo i primi antipasti l’Internazionale (Compagni avanti il gran partito… ricordate?) ci lancia alla fine degli anni Ottanta, al crollo dei muri nel ricordo di Paola: la città lasciata, abbandonati la politica, il teatro, per vivere in campagna. In un silenzio, in una notte che facevano paura. Un’irruzione che crea imbarazzo, che rallenta il ritmo naturale del pranzo. I tre cuochi-artefici si trasformano in narratori, in Virgili di un viaggio mentale attraverso dieci e più anni della loro e della nostra vita, scelte, immaginazioni, domande, sogni, dolori.

Stefano spiega il ciclo del grano e di come il pane che stiamo mangiando è prodotto là, o nei dintorni, biologico, biodinamico, e dell’ultimo caparbio mulino ad acqua che ha trovato per macinare quel grano. Non c’è nessuna Arcadia nelle sue parole, ma nuda precisione. Racconta di amori, di amore, con canzoni ispirate a Tom Waits, tradotte e adattate a quella pianura, a quella città da cui proviene, provengono i tre. Racconta di come questo spettacolo sia nato per Volterra, da uno stimolo di Armando Punzo a collegare le loro anime divise di teatranti e di coltivatori, cuochi, ristoratori. Narra e mostra il teatro che facevano prima quel 1989, quando sono andati via e hanno smesso per anni.

Le storie si moltiplicano, come pure i punti di vista: lo sguardo muto e profondo degli animali, la costruzione del teatro, certi silenzi e certi desideri, corse e morti, il rapporto con una madre che capisce e non comprende, i nomi dei loro tanti animali, il lavoro nelle assicurazioni, i figli, la mancanza di figli, il divorzio… Un clown corre intorno alla tavola ripetendo ossessivo, ansimante il menu, biologico, biodinamico. Ironia, dolore, gioia, malinconia. Due mani strette, due sguardi verso l’alto che sembrano vedere qualcosa che solo la nostra corta vista non ci consente di riconoscere, due noccioline sgranocchiate lentamente, col sorriso.

Uno strano teatro da mangiare. Continuano ad arrivare in tavola le portate, ma c’è qualcosa che rallenta sempre di più il nostro pasto. Facciamo fatica a servirci: ci stanno rapendo, prendendo alla radice dell’emozione. All’inizio lo senti come un’intrusione in quest’aria domenicale, da pranzo di famiglia: ti richiede troppa attenzione, si mettono tanto in gioco da trascinare anche te dentro, senza rete. Il teatro prende il centro, allora, ma non come rappresentazione bensì come intensità, svelamento, perfino affratellamento. Qualcosa di quelle storie sta insidiosa dentro ognuno di noi, non solo per motivi generazionali. Lo scorgi negli occhi non più imbarazzati dei bambini presenti, sgranati, dentro la storia. Il teatro si consuma con il coltello che taglia finalmente la sfoglia, ritmico, martellante, su parole di un qualche altra sofferenza o smarrimento, per celebrarsi poi nell’arrivo delle tagliatelle fumanti. Gialle e verdi, profumate di pesto, sono la sintesi di quelle storie fatte a mano. Introducono il lieto scioglimento della tensione nelle chiacchiere intorno al cibo, in un momento ritornato quotidiano, necessario, prezioso sigillo a un viaggio così denso, alle soglie del sacro.

Il Teatro delle Ariette trova con questo emozionante evento uno sbocco alto a una ricerca continua, con risultati alterni, sempre attenta a coniugare autoanalisi e osservazione politica e d’ambiente. Ricordiamo le originali rivisitazioni di figure come Antigone e Madre Courage, i lavori su episodi della Resistenza in collaborazione con anziani protagonisti di quel tempo e gli spettacoli su temi ecologici ed esistenziali. Una ricerca che ha inventato una rassegna di teatro nelle case della zona: dal 24 marzo al 6 maggio si ripeterà anche quest’anno, per la quinta volta.