26 LUGLIO 2002

L’ARCADIA TEATRALE
di MASSIMO MARINO

Nell’entrata vedi cassette di frutta, piatti di ortaggi. Lo spazio è un semicerchio di bassi tavolini apparecchiati, in un cortile. Due galline e un gallo stanno in una gabbia, un semicerchio di terra smossa vede spuntare palloncini colorati. Annaffiatoi, secchi, mattarelli, manifesti di agricoltura biologica o di rassegne di teatro. Un uomo impasta, batte, inforna. Un altro taglia il formaggio. Lo serve. Una donna mesce altri condimenti. Poi porta le schiacciatine, il pane.
“teatro da mangiare?” si intitolava lo spettacolo precedente del Teatro delle Ariette, un gruppo con una storia lunga. Da Bologna, dagli anni Ottanta dell’ultimo impegno politico e del riflusso, a un podere fra Bazzano e Castello di Serravalle, nella Valle del Marzatore, a coltivare la terra, a gestire un agriturismo. E poi di nuovo il bisogno di raccontare dieci anni di vita, le storie personali e quelle di una generazione, con il teatro. Ora nel nuovo spettacolo ritroviamo cibo, canzoni straziate che hanno Tom Waits come nume ispiratore, dolori col naso di clown, azioni lente come quelle della campagna. “Teatro di terra” ha debuttato in prima nazionale nell’importante festival di Volterra e sarà nel bolognese per la rassegna d’autunno di “A teatro nelle case” nella loro Val Samoggia.
Il Teatro delle Ariette, Stefano Pasquini, Paola Berselli, Maurizio Ferraresi, ai quali si sono aggiunti Stefano Massari e Claudio Ponzana, fa spettacoli lenti come un rito di campagna, richiamando, in questo ultimo caso, perfino un’orientale cerimonia del tè. La lentezza non è difetto ma rispetto, attesa di una maturazione dell’attenzione, un tentativo di coniugare la rappresentazione, il racconto, a un ascolto scandito da atti primari come il bere, il mangiare. Se Pasquini per quasi tutto lo spettacolo batterà ritmicamente sulla pasta per stendere le schiacciate, Ponzana cucinerà la polenta. Gli altri serviranno, ma anche metteranno in scena il rito della semina e del raccolto innaffiando senz’acqua i palloncini che palpiteranno, si gonfieranno, scoppieranno.
Non c’è mai descrizione nel Teatro delle Ariette: piuttosto slittamenti continui, nei dolori di una generazione perduta, nella gioia delle nascite di due gemelli vicino al podere, nel conto di quanti semi bisogna piantare, nell’elenco dei semi, che vengono fatti girare fra gli spettatori, diversi semi, nel catalogo dei prodotti del loro podere grande quanto “quattro campi da calcio”, nei tempi dei morti attorno, fra Genova e l’Argentina, che irrompono in “Arcadia” con un colpo di pistola, come i disamoramenti, come un sistema mondiale, diverso da quel tempo dell’ascolto, del salto del seme in frutto, della sorpresa.
Non ci sono ideali che valgono un pupazzo di neve. La globalizzazione incombe in strane sigle di ibridi come il cetriolo samurai Akito F1, su quella terra che ci sarà quando noi, con le nostre pene, non ci saremo più. Si offende il Dio, perfino, strappando una banconota: ma è espediente per raccoglierne altre, fra un pubblico che timidamente vorrebbe prestarsi all’iconoclastia …..
Le Ariette, nella luce del tramonto, fra un urlo muto, una carezza, una dimostrazione, una storia che fa affiorare il sorriso, materializzano una leggera poesia amara, mentre noi spettatori ascoltiamo, mangiamo, ogni tanto col boccone, il bicchiere sospeso per l’emozione.
Raccontano anche la necessità del teatro, del sogno, la felicità e la prigionia dei rapporti, con una pioggia d’acqua che si trasforma in lacrime di donna, con affetto e sofferenza che si mutano in uno sguardo capace di attendere la voce profonda delle cose. Lo spettacolo si scioglie davanti alla polenta, via i nasi rossi, le parrucche, le lacrime dipinte, il silenzio, mentre la voce roca di Patty Pravo ricorda che è sempre una “pazza idea” l’amore, qualsiasi amore capace di restituirci l’orecchio, lo sguardo, la passione.