Venerdì 17 gennaio 2003

di MASSIMO MARINO

Sta emergendo un nuovo teatro politico. Non è fatto di proclami, non combatte battaglie ideologiche, non incita all’azione. Racconta storie, parla di emozioni, inclina al dolore per le perdite e le violenze, ma non rinuncia a cercare i bagliori della felicità. Comunica direttamente con gli spettatori, catturandoli nel gioco scenico per poi allontanarli. Mette in moto partecipazione e produce distanza per riaprire le frontiere del giudizio.
A Modena apre la stagione del Teatro delle Passioni uno di questi lavori, “Teatro di terra”, del Teatro delle Ariette. Il pubblico circonda a semicerchio una gabbia con un gallo e una gallina, a forma di casa. Sul fondo stanno gli attori, vestiti da fornai, da camerieri, vicini a pentoloni, fornelli, formaggi. Uno di loro impasta, stende, inforna, cuoce schiacciate. Siamo seduti su bassi seggiolini, di fronte a tavolini ricavati su cassette di frutta. Gli attori ci racconteranno storie di abbandoni, dolori d’amore; spareranno e cadranno su un cumulo di terra a forma di cadavere disegnato sul selciato sotto voci di bombe, di attentati, di spari,di scontri, Genova 2001 e venti di guerra.
Sentiremo storie di semi, quante carote o grano producono, di acqua, di morte apparente nella terra e di germinazione. Sui piatti vengono imbanditi una minestra di ceci speziata e deliziosamente calda, formaggio e mandorle, schiacciate e vino. Chiamati al rito del cibo, la nostra quotidiana voracità di consumo viene bloccata dalla necessità di ascoltare, rapiti dall’emozione, con groppi che le canzoni di Tom Waits e le parole roche ci attaccano alla gola e riportati a noi dal gioco degli attori, che entrano nella tragedia leggermente , magari con un naso da clown.
Siamo in una cerimonia che sembra orientale, con la sua circolarità e lentezza a momenti ieratica, ed è molto padana: il pensiero si mescola con il boccone, e da un mucchio di terra innaffiata senz’acqua germogliano palloncini colorati mossi da aria sottile. Una ragazza accende un fornelletto e inizia a cucinare la polenta. Si parla delle terra violentata, della proliferazione di ibridi dai nomi inquietanti.
Dopo “Teatro da mangiare?” il Teatro delle Ariette torna all’autobiografia poetica, mai compiaciuta, sempre raffreddata dall’ironia, narrazione esemplare di una passione nata dalla delusione, dal conflitto col mondo della prestazione, della produzione a tutti i costi. Se nella storia del gruppo sta l’abbandono della città e del teatro per i paradisi promessi dell’agricoltura biologica, in questo spettacolo ritroviamo la voglia di fare i conti, profondamente, con il teatro come macchina per costruire mondi.
Pian piano entriamo nel ritmo della terra, che deve essere curata, viva anche quando l’uomo non esisterà più, bella perché nonostante le sconfitte e gli strazi nascono sempre bambini e perché non c’è impero o ideale che valga un solo pupazzo di neve.
Fra gli spettatori gira una cassetta piena di semi. Si brucerà del denaro, in un atto di suprema iconoclastia, che si rovescerà, anch’esso, in commercio. Stefano Pasquini, con Paola Berselli e Maurizio Ferraresi l’anima del gruppo, racconta a quanti campi di calcio corrispondono i loro 2,8 ettari di terra in pendenza, lungo la Valle del Marcatore, sopra Bazzano. Le storie virano una nell’altra, mentre i polli, sollevati in aria, dolcemente chiocciano. Un ultimo racconto d’amore disperato, di miseria, di dolore, raccontato con una parrucca stopposa, sotto una pioggia di lacrime versate da un annaffiatoio. Un ultima visione della campagna, del lavoro e del riposo, della capacità di vedere le cose vicine e di sognare, mentre Patty Pravo canta che è stata una pazza idea amare e la polenta calda e profumata di rosmarino viene servita.