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Revisionismo


Indice:


- Negazione del disincanto e confisca della memoria. Note su La banalità del bene. Come nasce una predica critica, di Martin Walser".

- Il caso Irving



"Negazione del disincanto e confisca della memoria
Note su La banalità del bene. Come nasce una predica critica, 
di Martin Walser".

Giovanni Damiano, in Margini n. 30, Gennaio 2000

Una delle massime "parole incantate" della modernità è disincanto. Non a caso proprio agli inizi dell'età moderna si ritrovano alcuni "gesti" fondamentali, incomprensibili senza il rimando a tale parola. Alludo, ad esempio, alla baconiana "distruzione degli idoli" e, ancor più, al dubbio cartesiano, radicale revoca d'ogni tradizione ad esso precedente. Dubbio, tra l'altro, non iperbolico bensì metodico, ossia parte ineliminabile del nuovo edificio del sapere, norma essenziale dalla quale, appunto metodicamente, prendere le mosse. Certo, dal dubbio scaturisce una rinnovata pretesa fondazionistica —l'io penso—, a testimonianza del fatto che ben più "moderno" è Hobbes con il suo convenzionalismo e la sua riduzione di quella che ancora per Cartesio era recta ratio, ossia ragione in grado di "afferrare" la verità, a ragione meramente strumentale. Però l'ego cogito sorge, alla lettera, dal nulla, da un nulla, si badi bene, non "sorvegliato" da alcun Dio (è l'ancora inconsapevole "ateismo" di Cartesio, "ateismo" destinato a giungere a compimento con Spinoza; cfr. K. Loewith, Spinoza. Deus sive natura, Roma, 1999). Insomma, il disincanto è a tal punto uno dei maggiori titoli di legittimità della modernità che si potrebbe agevolmente definire quest'ultima come un'epoca del sospetto, sempre attenta nello "stanare" ogni residuo sostanzialistico, ogni "mitologia", ogni verità non passata al vaglio, inquisitoriale e dissezionante, della "critica". Eppure, nell'oggi, si assiste ad un singolare fenomeno: qualsiasi tentativo "disincantante" nei confronti del nazionalsocialismo viene aspramente condannato e combattuto. In breve: si finisce per rinnegare proprio quel disincanto che è la stessa ragion d'essere della modernità. Il nazionalsocialismo viene, così, consegnato, paradossalmente, all'universo del mito. E ciò vale in modo particolare per quello che è considerato il centro simbolico e fattuale del nazionalsocialismo, vale a dire Auschwitz. Ed è evidente che tale atteggiamento ha ripercussioni decisive sulla memoria, in questo caso storica. Se il nazionalsocialismo, ed Auschwitz in particolare, assurgono a "mito", essi finiscono per costituire un esempio paradigmatico di ciò che E. Nolte ha definito"un passato che non passa" e, bisogna aggiungere, che non può passare, per sempre sottratto al "deterioramento" della storia, quasi la riproposizione, nel cuore del moderno, di una sorta di "eterno presente" parmenideo. Un passato, pertanto, dal quale non ci si distanzia ma che, al contrario, a conferma del suo carattere fondamentalmente mitico, va costantemente ri-attualizzato, affinché non "precipiti" nello scorrere usurante del tempo. Ovviamente tutto ciò non vuol dire che il passato vada considerato un mero "deposito" di episodi egualmente omogenei e vuoti (per dirla alla Benjamin), anzi: il passato resta "carico" di attualità. Ma è indubbio che basta dare uno sguardo anche distratto alle semplici cronache quotidiane per percepire che il nazionalsocialismo vi occupa un posto tutto speciale, e innanzitutto per l'enorme carica di affettività moralistica che l'investe. Non solo; per essere più precisi: la nostra epoca è sovente accusata di possedere scarso senso storico, il che è indubitabile e, al contempo, ovvio. Un'epoca incessantemente volta al futuro non è, di per sé, portata a "guardare indietro" ma, appunto, a ritenere il passato un cumulo indifferenziato di episodi, smentendo così ogni possibilità di ri-attualizzazione. Anzi, "vedere" il passato nel senso benjaminiano costituisce scandalo ed eresia, significa, è l'invariabile accusa, volgere le spalle al futuro per affidarsi ad una nostalgica e "passatista" concezione del mondo o, peggio, pensare che il passato possa imprevedibilmente irrompere nel presente per dar vita ad un nuovo inizio. Con una sola eccezione: appunto il nazionalsocialismo. » È questo l'unico passato che sembra sempre e in ogni dove in procinto di tornare, l'unico caso in cui la memoria è confiscata al tempo per essere sempre "a disposizione" del presente. La cosa non sorprende, essendo il nazionalsocialismo, in negativo, la fonte di legittimità dei nostri ultimi cinquant'anni e passa. La nostra epoca si è edificata in modo specularmente rovesciato rispetto al nazionalsocialismo. Ossia: tutto ciò che quest'ultimo era, la nostra epoca lo è di segno opposto. Il nazionalsocialismo come "teologia" negativa o anche come "teodicea secolarizzata", ovvero come male assoluto che, per contraccolpo, giustifica e rende possibile quel bene assoluto altrimenti non più raggiungibile. In altre parole: quel bene assoluto che il disincanto della modernità aveva azzerato è attingibile al solo prezzo di dichiarare previamente il nazionalsocialismo "male assoluto"; ma, così facendo, si è costretti a mitizzarlo. Di qui, l'impossibilità che il nazionalsocialismo diventi un evento disincantabile, con le conseguenze più sopra esaminate.Ed è proprio a questa costellazione problematica che si rivolgono le osservazioni svolte da Martin Walser, uno dei maggiori scrittori tedeschi contemporanei, nella "predica critica" da lui tenuta l'11 ottobre 1998 nella Paulskirche di Francoforte, in occasione del ricevimento del premio della pace dei librai tedeschi per il 1998. Martin Walser ha in quel giorno chiamato le cose col loro nome, ha svelato l'uso strumentale, ideologico e morale, in ultima analisi "mitico", del nazionalsocialismo e di Auschwitz. Gli lascio pertanto la parola: " nessuna persona degna di questo nome nega Auschwitz o cavilla intorno alla sua mostruosità; quando però i 'media' ogni giorno ripropongono questo passato, io noto in me qualcosa che si ribella contro questa permanente presentazione della nostra vergogna. Invece di ringraziare per la costante presentazione della nostra vergogna, comincio a guardare da un'altra parte. Mi piacerebbe sapere perché proprio in questo decennio questo passato viene presentato come non mai. Quando io noto che in me qualcosa si ribella contro tutto ciò, tento di comprendere i motivi della presentazione continua della nostra vergogna e sono quasi felice quando credo di poter scoprire che, il più delle volte, non si tratta della memoria, della necessità di non dimenticare, bensì della strumentalizzazione della nostra vergogna per scopi del presente" (p. 21). E ancora: "Auschwitz non deve diventare routine della minaccia, un mezzo sempre pronto di intimidazione, una clava morale, o soltanto un esercizio obbligato" (p. 23). Di poi: "nella discussione sul monumento all'olocausto a Berlino le generazioni future potranno leggere quello che 'costruirono' persone che si sentivano responsabili per la coscienza degli altri. La cementazione del centro della capitale tedesca con un incubo onirico grande come un campo di calcio. La monumentazione della vergogna. Oso supporre che questo ‘nazionalismo negativo’, come lo chiama lo storico Heinrich August Winkler, per quanto sembri mille volte meglio non sia certamente da preferire al suo contrario. Vi è in realtà anche una banalità del bene" (pp. 23-25). La denuncia di Walser non conosce infingimenti: Auschwitz è oramai un rito, con i suoi officianti, i luoghi di culto sparsi ovunque (i vari musei, memoriali), i "pellegrinaggi", le "giornate mondiali", ecc. Ed è, al contempo, una formidabile arma di intimidazione e, lo si è già detto, di legittimazione. Non a caso i pur timidi tentativi di "storicizzare Auschwitz" procedono con mille distinguo e con accortezza, ben sapendo di muoversi su un terreno minato. Una sola prova al riguardo: "storicizzare il tentativo di genocidio compiuto al centro del nostro secolo [...] non vuol dire affatto normalizzare il passato ma, al contrario, denormalizzare il presente" (G. Gozzini, Capire Auschwitz: la ricerca e l'insegnamento, in "Giano", 1997, n. 24, p. 86) e inoltre: "storicizzare il nazismo vuol dire abbattere la rassicurante barriera tra noi e il 'mostro' e aprire una crisi di fiducia sul mondo attuale che torna periodicamente a parlare la lingua della pulizia etnica" (ibidem). In breve: la storicizzazione viene piegata ad esiti totalmente "attualizzanti". Lungi dal creare distanza, lo sforzo storicizzante tende a vieppiù rafforzare "l'eterno presente" nazionalsocialista. Anzi, e Gozzini lo scrive senza reticenze, la storicizzazione deve contribuire ad annullare anche un possibile accenno di distanza, deve incessantemente "lavorare" in modo da far sì che il nazionalsocialismo sia sempre percepito come qualcosa che si "aggira" ancora tra noi (il richiamo alla pulizia etnica si commenta da solo). La storia al servizio dell'ideologia, "guardiana" e complice del mito, insomma. Di fronte, e di contro a tutto ciò, il testo di Walser rappresenta una delle poche voci dissonanti. Sarebbe un buon viatico se ad essa altre si affiancassero affinché non resti vox clamantis in deserto. Ultimo punto e davvero paradossale: proprio la riflessione più matura della destra radicale, ossia di quell'area che, secondo la vulgata contemporanea, sarebbe naturaliter "neonazista", si è da tempo liberata di ogni nostalgia verso il nazionalsocialismo, grazie ad un approccio, esso sì, genuinamente storico. Ad esempio, F. G. Freda, pur riconoscendosi genealogicamente nelle radici metapolitiche del "nazifascismo", scrive: "non conserviamo santini unti di patina agiografica, né proseguiamo le esperienze concluse e gli esperimenti esauriti dal movimento legionario rumeno, da quello nazionalsocialista tedesco e da quello fascista italiano. Rappresentiamo invece un nuovo segmento sulla medesima linea retta, punti successivi che subentrano ai precedenti nello stesso significato in loro racchiuso —provvisori quanto i precedenti negli atti e nelle opere, provvidenziali quanto i precedenti nelle opere e nelle funzioni" (F. G. Freda, "Professione d'identità", in Risguardo IV, Edizioni di Ar, Padova, 1985, p. 12). Ed infine, inequivocabilmente: "il fascismo e il nazionalsocialismo debbono considerarsi fenomeni storici esauriti" (Franco Freda, L'albero e le radici, Edizioni di Ar, Padova, 1996, p. 119).

L'Autore di questo scritto, Giovanni Damiano, ha pubblicato per le Edizioni di Ar:
 - "La filosofia della libertà in Julius Evola",  
 - "Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione". 
Ha, inoltre, curato la nuova edizione di "Imperialismo pagano", di Julius Evola; la postfazione al libro di Piero Di Vona "Metafisica e politica in Julis Evola"; Un suo saggio compare, pure, nella nuova, la quarta, edizione della  "Disintegrazione del sistema", di Franco Freda.

 

Il caso “Irving”

Giovanni Damiano, in 'Margini' n. 31, aprile 2000

E' bene sgombrare subito il campo da un equivoco: lo storico inglese David Irving, appellandosi a un tribunale del suo paese, non aveva, ovviamente, alcuna intenzione di far legittimare per via giudiziaria le sue tesi, essendo evidente che la validità o meno delle stesse potrebbe essere accertata esclusivamente in sede scientifica. Il punto essenziale è un altro. Ricapitolando i termini della questione: Irving aveva querelato Deborah Lipstadt, autrice di un volume (Denying the Olocaust. The Growing Assault on Truth and Memory, A Plume Book, New York, 1994) in cui lo studioso inglese veniva ripetutamente, meglio dire ossessivamente, accusato di neonazismo, razzismo, antisemitismo in quanto negatore dell'Olocausto. Ora, la mossa di Irving era comprensibile: si trattava di salvaguardare la sua onorabilità di storico e la credibilità dei suoi lavori da accuse infamanti. Lavori, quelli di Irving, che saranno pure contestabili ma, ed è lo snodo decisivo, solo sullo stretto terreno scientifico, senza ricorrere a squalifiche a priori, pesantemente moralistiche.
Però, e qui si entra nel vivo della questione, l'intento della Lipsdadt non era affatto quello di discutere le tesi negazioniste di Irving (e, in primis, gli argomenti da quest'ultimo addotti a loro sostegno) ma di screditarle appunto a priori, in base alla semplice contestazione che chiunque metta in discussione l'Olocausto non potrà non essere un neonazista, ecc. Sta tutta qui la “regola aurea” della metodologia antinegazionista: non discutere con i negazionisti (o revisionisti), il che significherebbe l'implicito riconoscimento perlomeno del loro status di storici, ma limitarsi ad accusarli dei peggiori crimini ideologici. Questo metodo, inaugurato da Pierre Vidal-Naquet in Francia, ha trovato nella Lipstadt una solerte seguace. Non a caso l'autrice americana scrive: "Non bisogna perdere tempo a rispondere ad ognuna delle asserzioni dei negatori. Sarebbe un lavoro interminabile rispondere a coloro che falsificano conclusioni, citano fuori contesto e respingono risme di testimonianze poiché sono contrarie ai loro argomenti. E' la capziosità dei loro argomenti, non gli argomenti stessi, a richiedere una risposta. Il modo con cui essi confondono e travisano è ciò che voglio dimostrare; soprattutto, è essenziale esporre l'illusione di una indagine ragionata che nasconde le loro finalità estremistiche" (D. Lipstadt, op. cit., p. 28). Ora: queste parole della Lipstadt suonano oltremodo oscure. Da un lato si afferma che l'esame critico degli argomenti addotti dai negazionisti sarebbe una mera "perdita di tempo", dall'altro, però, si dedica un'intera opera alla confutazione del negazionismo. I conti non tornano, perché delle due l'una: o i negazionisti espongono tesi del tutto inconsistenti dal punto di vista storico (alla stregua di chi affermasse, ad esempio, che Napoleone non è mai esistito), e allora non si comprende affatto perché la Lipstadt si sia presa la briga di attaccarli, oppure le tesi negazioniste poggiano su fondamenta documentali e allora l'unico modo per liquidarle sarà il sottoporle al vaglio dell'esame critico. Tertium non datur. In breve: le tesi negazioniste sono, popperianamente, falsificabili, in quanto si basano su documenti e analisi tecniche rese di pubblico dominio e quindi facilmente verificabili. E dunque solo il ricorso all'impegno degli storici seri e all'impiego dei normali criteri metodologici garantirà la piena risoluzione della querelle. Ma di “storici” come la Lipstadt (e del tribunale che le ha dato incredibilmente ragione) davvero non si sa che cosa farne.

 


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