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Economia e finanza

Indice:

- La moneta come mezzo o come fine del processo sociale.
Un confronto tra W. Beveraggi Allende e G. Simmel.

- A proposito del “Disastro di una Nazione”

 

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La moneta come mezzo o come fine del processo sociale.
Un confronto tra W. Beveraggi Allende e G. Simmel.

Francesco Ingravalle, in "Margini" n. 31, aprile 2000


La pietra angolare del saggio di Beveraggi Allende —La teoria qualitativa della moneta  (Edizioni di Ar)— è costituita dalla seguente affermazione: il valore del denaro, in una economia monetaria, dipende essenzialmente dalla "destinazione produttiva per cui questo denaro è stato immesso nell'economia."1 Il valore del denaro dipende, cioè, dalla sua finalità produttiva, la "causa" del suo essere immesso nell'economia è interpretabile come "causa finale" - il che significa che viene introdotta la categoria di "finalità" nella riflessione sul denaro. Parlare di "finalità produttiva" equivale a parlare di "finalità sociale" e questo, a sua volta, equivale a porre un'istanza di controllo sociale sulla circolazione monetaria, a tentare di sottrarre la dinamica della circolazione monetaria ai meccanismi della speculazione e persino ai "capricci" della distribuzione dei redditi. Si esce così dalla logica liberistica del laissez faire e dalla mitologia smithiana della "mano invisibile" che ripartirebbe "naturalmente" la ricchezza.

E' chiaro che l'introduzione della considerazione finalistica nel problema della immissione del denaro in un dato sistema economico sia impossibile senza caricare l'amministrazione pubblica di un compito preciso di controllo sulla moneta e sulla circolazione.

E', parimenti, chiaro che il denaro viene considerato come strumento della produzione, in evidente contro-tendenza rispetto ai reali meccanismi dell'economia finanziaria e alle sue teorie apologetiche che fanno del denaro l'alfa e l'omega dell'intero processo produttivo.

Per Beveraggi Allende ciò che conta non è il "confronto globale" tra moneta da un lato e beni e servizi dall'altro, come nelle teorie quantitative della moneta, bensì "la parcellizzazione settoriale" o "interazione settoriale" tra le parti che compongono queste variabili la quale contribuirà non solo a chiarire la formazione dei distinti prezzi ( e di conseguenza il livello dei prezzi), ma anche a rendere possibili e ad orientare l'"immissione" dei flussi monetari, là dove essi risultino più convenienti.2

Confrontare globalmente moneta, beni e servizi crea, per così dire, una "cattiva universalità" in cui si perde, con la specificità dei diversi settori produttivi, anche la possibilità di orientare l'immissione dei flussi monetari, cioè di pianificare gli interventi politici di rettifica dei meccanismi di mercato. Tale confronto globale è, invece, l'anima del modo di procedere tipico della teoria quantitativa della moneta. Che cosa significa, infatti, "confronto globale"? Perdere di vista quei fattori qualitativi che incidono, comunque, sulla consistenza degli indici quantitativi che dovrebbero darne espressione matematica e ridursi ad amministrare pure sequenze di cifre al netto della conoscenza qualitativa del "modo di operare" delle specificità dei singoli settori. I dati che compaiono in tutta la loro veste matematica di oggettività sarebbero, dunque, sostanzialmente non rispondenti alle vere dinamiche del sistema economico.

La teoria quantitativa della moneta si riconosce bene dalle terapie che propone: "per evitare l'inflazione bisogna evitare l'‘eccesso di mezzi di pagamento’ in rapporto alla quantità di beni e di servizi, e per evitare la deflazione bisogna procedere nel senso inverso, ovvero, bisogna provocare, tra l'altro, un certo ‘eccesso di mezzi di pagamento’"3. La condizione ottimale del sistema economico sarebbe la stabilità della massa monetaria - che si tenta di ottenere "razionando"il credito con la pratica di alti tassi di interesse. Così, però, si colpisce lo sviluppo della produzione, si favorisce l'elefantiasi dei servizi e si facilitano le manovre speculative.

Il rimedio viene indicato attraverso tre formule:

- estensione del credito produttivo al tasso di interesse minimo affinché non lievitino i prezzi;

- credito qualitativo destinato alla produzione e orientato al raggiungimento della piena occupazione dei fattori produttivi;

- credito qualitativo destinato al consumo e orientato dal criterio del bene comune.

E' evidente che l'interesse dell'Autore è attratto soprattutto dai problemi della produzione e dall'incidenza dei problemi monetari su di essi; la distribuzione è, in effetti, studiata sopratutto in relazione alle finalità produttive - dove, comunque, non risulta facilmente individuabile una analisi sociale dell'"ambito produttivo". Quest'ultimo si presenta, nella teoria, come stranamente compatto, esente da conflitti di classe o anche soltanto di interesse che caratterizzano, invece, ogni struttura sociale classista, basata sulla divisione del lavoro e sull'approprazione privata del plusvalore. Il sistema economico descritto dall'Autore sembrerebbe una "comunità organica" originaria; sennonché, le sue caratteristiche salienti sembrano, invece, essere quelle di una società divisa in classi in cui, però, il bene comune prevale sull'appropriazione privata. La sfera della produzione viene presupposta come un ambito di organica collaborazione fra lavoratori e proprietari dei mezzi di produzione in chiara contro-tendenza rispetto alla realtà dei rapporti sociali tipici di un contesto moderno. In altre parole, il conflitto di classe è assente dal modello proposto e non viene visto neppure come forza interferente nei processi di produzione e di scambio.

E' significativo che, proprio perché qualitativa, la teoria monetaria di Beveraggi Allende rinvii, sostanzialmente, a criteri di valutazione come il "bene comune" o come le "finalità" (sociali, si direbbe) della creazione di nuova moneta di matrice extra-economica, affermando con chiarezza che l'economia è un mezzo intenzionato ad altro (rispetto a sé stessa). Un altro, politico, una gestione politica dell'economia, una rottura del cosmo dell'"uomo economico". Ma è possibile una simile alterità nel regno dell'alienazione, dove il denaro è diventato fine del processo sociale- tanto da far dire a Georg Simmel, nel 1889 "Mai si è trasferito in modo tanto completo su di un oggetto un valore che l'oggetto stesso possiede solo grazie alla sua traducibilità in un altro dotato di un valore proprio?"4.

E' possibile l'altro là dove il denaro è sintesi sociale astratta, "ed è l'astrattezza propria soltanto dell'azione di scambio e non della coscienza di coloro che scambiano, la quale, al contrario, si occupa del valore d'uso delle merci (o di qualsiasi altra cosa la spinga alla sua azione d'uso) e non partecipa in nessun modo all'astrazione"5 ?

Come ogni forma di interazione sociale, il denaro educa collettivamente:abitua ad assumere atteggiamenti verso il mondo, la vita, i nostri simili, il tempo, lo spazio, l'ozio, il lavoro; prodotto dell'interazione sociale esso conforma a se stesso l'interazione sociale complessiva al modo di una "seconda natura". E' proprio il caso di dire con Marx: "Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza."6.

Vi è, dunque, una sorta di "inconscio sociale" attraverso cui si affermano i meccanismi dell'astrazione conformando i nostri comportamenti, spesso contraddittori rispetto alle nostre idee di valore (morali, religiose o politiche). Questa è l'alienazione: la soggettività non è cosciente di sé perché ha perduto la cognizione di sé nei meccanismi astraenti dell'"inconscio sociale" ("coloro che scambiano si occupano del valore d'uso delle merci" inconsapevoli di ciò che realmente li spinge all'"azione d'uso").

Portare l'inconscio sociale alla piena coscienza è il compito della critica dell'economia politica, la quale è preliminare rispetto a ogni teoria positiva della moneta. Soltanto la critica dell'economia politica può permettere di recuperare nozioni come quella di "bene comune" o di "finalità produttiva" che fondano la teoria qualitativa stessa della moneta.

I processi di scambio, in generale, comportano la relazionalità dei valori delle cose scambiate:lo scambio avviene sulla base dell'equivalente; infatti cose incommensurabili non si possono scambiare: non c'è equivalenza possibile tra cose ugualmente "assolute". La relazionalità dei valori non è, tuttavia, la loro relatività; per il solo fatto di essere costruzioni simboliche- o, se si preferisce, "idee senza parole" tradotte in immagini e comportamenti - ciascun valore è in quanto si trova in relazione di implicazione o di esclusione rispetto ad altri, la sua essenza si definisce continuamente attraverso l'"alterità". Il "vero" stesso si definisce attraverso il processo di negazione del "falso" e, dunque, pur essendo relazionale, non è relativo. La relatività dei valori compare soltanto quando un dispositivo di equivalenza "pareggia" quantitativamente i valori; dunque, in un sistema nel quale la quantità matematicamente misurabile è assunta come tertium comparationis esclusivo. Ad esempio, la possibilità di esprimere il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre le merci attraverso la struttura simbolica del denaro costituisce il fondamento logico della possibilità della misura matematica dei valori delle merci stesse. Il requisito della misurabilità presuppone che ogni aspetto del valore sia stato ridotto a quantità; né la morale, né la religione, né la politica costituiscono ambiti di valori esenti da un simile processo. Per la loro stessa destinazione sono chiamati a normare la realtà sociale e ne devono amministrare caratteri che non sono essi a determinare e dai quali sono, al contrario, modellati, se non determinati. Se la realtà sociale vive se stessa sotto l'esclusivo profilo di una visione quantitativa del reale, anche i valori "non-economici" saranno sottoposti a una sorta di "traduzione"in termini quantitativi.

L'abitudine a tradurre la qualità in quantità, come habitus mentale, crea le premesse psicologico-sociali perché non soltanto i valori d'uso ma anche i contenuti rappresentativi della coscienza vengano trattati come equivalenti, diventino, cioè, oggetti esterni di scelta e commisurabili. Tale abitudine, operante non soltanto nell'economia finanziaria, ma al tempo stesso, nella visione tecno-scientifica della realtà, riduce l'intero mondo vitale a quantità equivalenti e, dunque, relative l'una all'altra. L'economia finanziaria crea un tipo di vissuto sociale e personale che stimola, così, il relativismo e il nichilismo come aspetti indissolubili della coscienza dell'economia capitalistica avanzata. E come punti teoretici di "non-ritorno". Il declino della convinzione dell'assolutezza dei valori morali ha aperto la strada al criterio "extra-morale" della funzionalità economica (il profitto) e tecno-scientifica (l'efficacia, anche sganciata dal profitto) dalla quale si ritiene di poter ricavare il "bene comune". Al contrario, l'universalità del denaro è un'universalità nichilistica: nessun fine è razionale, oppure valido, in se stesso; alla fine, scegliere l'uno oppure l'altro è questione di punti di vista, a loro volta determinati sul piano storico-sociale.7

E' possibile ricostruire l'"anamnesi della genesi" di tale nichilismo attraverso la critica dell'economia politica se quest'ultima parte dal dato dell'alienazione e della sua inscindibile connessione con l'evento della proprietà privata dei mezzi di produzione, per cogliere, nel presente, i segni che annunciano l'"altro-dall'-alienazione". In altri termini, porsi il problema di una finalità sociale della moneta equivale a mettere in discussione la forma-merce dal punto di vista dei suoi effetti antropologici, ma nella piena consapevolezza che non si tratta di ritornare a epoche passate, ma si tratta di costruire il futuro a partire dalla critica immanente del presente ai suoi livelli più avanzati. Non si tratta, neppure, di contrapporre un modello di "uomo nuovo" alla "decadenza" presente: il "nuovo" nasce dalla dialettica dell'"attuale" o non nasce affatto; nasce dal desiderio sociale di liberarsi dalle forme di espropriazione della soggettività che hanno capovolto il progetto di emancipazione della Modernità nel livellamento economico e tecno-scientifico e dai luoghi sociali in cui l'alienazione si manifesta con i caratteri più distruttivi. Per questi motivi la critica immanente di ciò che esiste non può che presentarsi come critica dell'economia politica.

La nozione di "bene comune", nella sua generalità, diventa comprensibile soltanto alla luce dell'immagine del soggetto espropriato della sua soggettività, cioè alla luce dell'immagine del soggetto metropolitano sottoposto alle dinamiche probabilistiche dei mercati come un tempo lo era il contadino ai capricci delle stagioni. Il "bene comune" è il contrario di tale espropriazione.

E' possibile che soltanto in questa prospettiva il contributo di Beveraggi Allende sia comprensibile nelle sue più profonde implicazioni. Ma ciò non potrà accadere fino a che non ci si sarà convinti che le dinamiche economiche globali non rispondono alla volontà di chicchessia, ma si sono del tutto autonomizzate dalla volontà dei singoli, come dalla volontà dei consigli d'amministrazione. La complessità del sistema mondiale, anche soltanto nelle sue "frazioni" locali, rende impossibili le strategie e molto ardue le tattiche. Il denaro comanda gli oligopoli, non già viceversa; l'astratto dirige le mosse del concreto. In fondo, la teoria quantitativa della moneta non fa che rispecchiare la realtà dell'economia finanziaria assecondandone la logica, una logica dietro la quale non c'è nessun "cattivo" che stia manovrando. Ed è proprio questo che fa del nostro un mondo profondamente alienato: l'astratto domina il concreto.

 

1 Cfr. Walter Beveraggi Allende, Teoria qualitativa della moneta, (1982), Tr. it. di Fabrizio Sandrelli, Padova, Edizioni di Ar, 1993, p.21.

2 Cfr. W. Beveraggi Allende, Teoria qualitativa della moneta , cit., pp. 22-24.

3 Cfr. W. Beveraggi Allende, Teoria qualitativa della moneta, cit. , p. 37.

4 Cfr. Georg Simmel, Psicologia del denaro, tr. it. di Paola Gheri in Georg Simmel, Il denaro nella cultura moderna, a cura di N. Squicciarino, Roma, Armando, 1998, p. 49.

5 Cfr. Alfred Sohn Rethel, Il denaro. L'a priori in contanti , (1990), tr. it. di F. Coppellotti, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 26.

6 Cfr. Karl Marx, Per la critica dell'economia politica (1859), tr. it. di Emma Cantimori Mezzamonti, in Karl Marx, Il Capitalismo. Critica dell'economia politica, libro primo. Appendici: Per la critica dell'economia politica, capitolo VI inedito e altri scritti, a cura di Giorgio Backhaus, Torino, Einaudi, 1978, p. 957.

7 Cfr. Max Horkheimer, Eclissi della ragione (1947), tr. it. di Elena Spagnol, Torino, Einaudi, 1974, cap. I.


L’Autore di questo scritto ha pubblicato, per le Edizioni di Ar, i segg. volumi: 
Nietzsche. Illuminista o illuminato?

L’automa della legge

La Teoria e le sue ombre.
Ha curato, inoltre, la recente, quarta, edizione della "Disintegrazione del sistema", di Franco Freda.

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A proposito del “Disastro di una Nazione”*

S. Verde, in 'Margini' n. 33, gennaio 2001

Il silenzio dei grandi economisti di questo paese -non solo di quelli che fanno la spola fra la cattedra e gli incarichi politici, ma anche di quelli che si dicono professori ‘puri’, cioè privi
di ambizioni politiche e di aspirazioni alle consulenze del settore pubblico- su un tema di fondamentale importanza qual è quello della
eliminazione del settore pubblico (e di buona parte di quello privato) dall’‘ancoraggio’ nazionale (ossia dal mantenimento di buona parte dell’economia italiana in mano italiana), sarebbe sorprendente se il veleno liberista, che tanto colpisce oggi la classe politica e quella imprenditoriale, non fosse asceso all’empireo del dogma pseudoscientifico.
Quell’empireo, che vanamente i vari Adam Smith e David Ricardo cercarono di scalare nel XVIII swecolo, allo scopo di permettere all’industria inglese di dominare il mondo e di impedire l’industrializzazione tanto dell’Europa continentale quanto dei neonati Stati Uniti d’America.
Creatosi, con il crollo dell’Unione Sovietica, il clima adatto, sulle basi gettate dalla ’scuola’ monetarista di Milton Friedman e da tutti i ragionieri-’economisti’ allevati nelle varie banche centrali di emissione, BRI, Banca Mondiale, oltre che nel FMI e nel GATT (1), era inevitabile che la classe politica si arrendesse a discrezione, se questo era (e lo era) il prezzo da pagare. Un prezzo che essa ha puntualmente pagato, o meglio, che ha pagato il popolo che bovinamente le aveva -e le ha- affidato il proprio avvenire.
Si è tanto parlato, a proposito dell’industria di Stato, di “carrozzoni” di cui l’IRI rappresentava l’esempio maggiore.
Nessuno discute la necessità di risanare quel pozzo senza fondo, in cui si scorgeva una gestione catastrofica sopra tutto di Finsider e Finmare. Ma una cosa è il risanamento, ben altra cosa, invece, è la liquidazione; Era possibile risanare?
Riguardo all’Italsider, se si tiene conto che i deficit erano causati sopra tutto da gravosissimi oneri bancari, da approvvigionamenti a prezzi eccessivi e dalla pletora di mano d’opera, la risposta deve essere affermativa: certo, era possibile risanare.
Per azzerare gli oneri bancari, sarebbe stato sufficiente fornire alla gestione i mezzi necessari al normale funzionamento, a interesse zero. Eventualmente -come già si usava praticare nei confronti degli Enti Locali- tramite la Cassa Depositi e Prestiti, dato che la grande liquidità (proveniente dal risparmio postale) di quest’ultima lo avrebbe facilmente consentito.
Per ridurre fino al 50% gli oneri del personale, sarebbe bastato attrezzare con le ultime applicazioni tecnologiche gli impianti e la movimentazione, nonché eliminare le assunzioni clientelari e le assurde remore interne imposte da sindacati ebbri di demagogia.
Per approvvigionarsi a prezzi di mercato, sarebbe stato opportuno operare mediante aste trasparenti, anziché agire sulla base di tangenti. Inoltre si sarebbe dovuto, da una parte, puntare maggiormente sui nuovi processi di produzione e sugli acciai speciali; dall’altra, diversificare ulteriormente le fonti, acquistando magari le migliori ‘maniere’ estere. (Giappone docet). Anche per quel che riguarda il gruppo Finmare la risposta non può che essere affermativa. Per riportare ordine nei suoi conti sarebbe bastato -in difetto di idee originali- copiare il “know how” e la tecnologia giapponesi -e/o quelli della cantieristica norvegese- tanto in materia di organizzazione del lavoro quanto in fatto di flessibilità di rotte, di gestione dei container, di riduzione dei tempi morti di permanenza nei porti o in navigazione; si sarebbe inoltre potuto curare una migliore dinamica nell’acquisizione degli ordinativi e nello sfruttamento dei volumi di carico. Tutto ciò, senza dimostrare alcuna sudditanza nei riguardi di committenti eccellenti o di clienti politicamente protetti.
In entrambi i casi (Finsider e Finmare), una immediata messa in disponibilità dei fondi di dotazione avrebbe fatto risparmiare -con o senza il ricorso alla Cassa Depositi e Prestiti- migliaia di miliardi di interessi passivi.
Il medesimo discorso vale, mutatis mutandis, per le altre imprese del Gruppo IRI.
A quel punto, ovvero a risanamento ottenuto, si sarebbe anche potuto vendere -però, a imprese o a consorzi italiani (o a maggioranza nazionale), con notevoli ricavi per l’Erario e, quindi, per il contribuente, mantenendo così in Italia la “cabina di pilotaggio”. Ma tant’è... Attraverso Mario Sarcinelli (2), Bankitalia aveva evidentemente già promesso (3) agli uomini della Finanza internazionale la svendita del patrimonio degli Enti di Stato -quindi....bisognava ottemperare!
Nel suo saggio, il Venier sintetizza alcuni aspetti del disastro dell’industria italiana, rivelando nella propria agile ricognizione una lucidità e una acutezza che di rado si riscontrano pure nelle rare analisi anticonformistiche di questo tema. Di ciò, tutti gli italiani -o meglio tutti gli italiani che, pensando, rimangono pensosi di fronte alla sorte di questa Nazione- debbono essergli grati.
La materia, in realtà, meriterebbe un’analisi più vasta e articolata, attraverso uno studio complessivo, munito di tabelle a confronto e -elemento, questo, non meno importante- integrato da un ‘libro bianco’ (o ‘nero’?), redatto dai principali protagonisti della galassia IRI. Un ‘libro bianco’scritto sopra tutto da coloro che, fra questi ultimi, non furono pedissequi esecutori di ordini politici e di ‘ukase’ della Finanza.
Certo, sarà vano attendersi un testo siffatto da uomini come Romano Prodi che, dopo aver rappresentato in Italia gli interessi della “Goldman & Sachs”, venne nominato presidente dello stesso
IRI: con quei risultati -a suo dire- “straordinari”, che tuttavia non impedirono la liquidazione del Gruppo a condizioni catastrofiche non solo per l’erario ma anche per l’indipendenza industriale e navale nazionale, per le maestranze, e per una miriade di professionalità irrecuperabili.
Possa quindi questo saggio di Antonio Venier essere il primo di una più ampia letteratura specializzata. E siano resi al medesimo autore la simpatia e l’omaggio che meritano i pionieri della ricerca, in campi dove chi si avventura deve combattere non solo contro i muri di gomma ma, sopra tutto, contro l’ostilità ostinata di chi sapendo non osa parlare.
* Note al testo di Antonio Venier, Il disastro di una nazione. Saccheggio dell’Italia e globalizzazione, presentazione di Bettino Craxi, collezione ‘Le due bestie’, pp. 160, Edizioni di Ar, 2000.

(1) Tutte istituzioni, queste, agli ordini delle varie Lazard Bros, Lehman Bros, Goldman & Sachs, First Boston, Warburg & Co., Hong Kong ¦ Shanghai B. Corp., Rothschild etc., con contorno di Deutsche Bank, Parisbas, UBS, Mediobanca etc.
(2) Universalmente noto, costui, peò non essersi mai opposto, nella sua qualità di vicepresidente della Banca europea di ricostruzione e sviluppo, alle follie del suo infausto presidente Jacques Attali.
(3) Nei primi anni ’90, a bordo del panfilo reale “Britannia”?


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Walter Beveraggi Allende, Teoria qualitativa della moneta. Contro il “monetarismo”, l'inflazione e la disoccupazione. Edizioni di Ar, Padova 1993.
Traduzione di F. Sandrelli, con una postfazione di S. G. Verde. Collezione “L'Antibancor”, pp. 102, L. 15.000
Solitamente il “mondialismo” viene criticato, da destra, in modo generico e superficiale, senza alcuna cognizione né delle diagnosi né, soprattutto, delle prognosi opportune. Si tratta, cioè, di una critica meramente ideologica e priva di qualsivoglia solidità analitica. Al contrario, la “teoria qualitativa della moneta” rappresenta uno dei pochi tentativi di delineare su base scientifica una alternativa al monetarismo “quantitativo” alla Friedman oggi imperante e strumento non ultimo del trionfo globale del neoliberismo. (L. Boffa, in 'Margini n. 31, luglio 2000)

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