La pietra angolare del saggio
di Beveraggi Allende —La teoria qualitativa
della moneta (Edizioni
di Ar)— è costituita dalla seguente affermazione:
il valore del denaro, in una economia monetaria,
dipende essenzialmente dalla "destinazione
produttiva per cui questo denaro è stato immesso
nell'economia."1
Il valore del denaro dipende, cioè, dalla
sua finalità produttiva, la "causa"
del suo essere immesso nell'economia è interpretabile
come "causa finale" - il che significa
che viene introdotta la categoria di "finalità"
nella riflessione sul denaro. Parlare di "finalità
produttiva" equivale a parlare di "finalità
sociale" e questo, a sua volta, equivale
a porre un'istanza di controllo sociale sulla
circolazione monetaria, a tentare di sottrarre
la dinamica della circolazione monetaria ai
meccanismi della speculazione e persino ai
"capricci" della distribuzione dei
redditi. Si esce così dalla logica liberistica
del laissez faire e dalla mitologia
smithiana della "mano invisibile"
che ripartirebbe "naturalmente"
la ricchezza.
E' chiaro che l'introduzione
della considerazione finalistica nel problema
della immissione del denaro in un dato sistema
economico sia impossibile senza caricare l'amministrazione
pubblica di un compito preciso di controllo
sulla moneta e sulla circolazione.
E', parimenti, chiaro che
il denaro viene considerato come strumento
della produzione, in evidente contro-tendenza
rispetto ai reali meccanismi dell'economia
finanziaria e alle sue teorie apologetiche
che fanno del denaro l'alfa e l'omega dell'intero
processo produttivo.
Per Beveraggi Allende ciò
che conta non è il "confronto globale"
tra moneta da un lato e beni e servizi dall'altro,
come nelle teorie quantitative della moneta,
bensì "la parcellizzazione settoriale"
o "interazione settoriale" tra le
parti che compongono queste variabili la quale
contribuirà non solo a chiarire la formazione
dei distinti prezzi ( e di conseguenza il
livello dei prezzi), ma anche a rendere
possibili e ad orientare l'"immissione"
dei flussi monetari, là dove essi risultino
più convenienti.2
Confrontare globalmente moneta,
beni e servizi crea, per così
dire, una "cattiva universalità"
in cui si perde, con la specificità dei diversi
settori produttivi, anche la possibilità di
orientare l'immissione dei flussi monetari,
cioè di pianificare gli interventi politici
di rettifica dei meccanismi di mercato. Tale
confronto globale è, invece, l'anima del modo
di procedere tipico della teoria quantitativa
della moneta. Che cosa significa, infatti,
"confronto globale"? Perdere di
vista quei fattori qualitativi che incidono,
comunque, sulla consistenza degli indici quantitativi
che dovrebbero darne espressione matematica
e ridursi ad amministrare pure sequenze di
cifre al netto della conoscenza qualitativa
del "modo di operare" delle specificità
dei singoli settori. I dati che compaiono
in tutta la loro veste matematica di oggettività
sarebbero, dunque, sostanzialmente non rispondenti
alle vere dinamiche del sistema economico.
La teoria quantitativa della
moneta si riconosce bene dalle terapie che
propone: "per evitare l'inflazione
bisogna evitare l'‘eccesso di mezzi di pagamento’
in rapporto alla quantità di beni e di servizi,
e per evitare la deflazione bisogna
procedere nel senso inverso, ovvero, bisogna
provocare, tra l'altro, un certo ‘eccesso
di mezzi di pagamento’"3.
La condizione ottimale del sistema economico
sarebbe la stabilità della massa monetaria
- che si tenta di ottenere "razionando"il
credito con la pratica di alti tassi di interesse.
Così, però, si colpisce lo sviluppo della
produzione, si favorisce l'elefantiasi dei
servizi e si facilitano le manovre speculative.
Il rimedio viene indicato
attraverso tre formule:
- estensione del credito
produttivo al tasso di interesse minimo affinché
non lievitino i prezzi;
- credito qualitativo destinato
alla produzione e orientato al raggiungimento
della piena occupazione dei fattori produttivi;
- credito qualitativo destinato
al consumo e orientato dal criterio del bene
comune.
E' evidente che l'interesse
dell'Autore è attratto soprattutto dai problemi
della produzione e dall'incidenza dei problemi
monetari su di essi; la distribuzione è, in
effetti, studiata sopratutto in relazione
alle finalità produttive - dove, comunque,
non risulta facilmente individuabile una analisi
sociale dell'"ambito produttivo".
Quest'ultimo si presenta, nella teoria, come
stranamente compatto, esente da conflitti
di classe o anche soltanto di interesse che
caratterizzano, invece, ogni struttura sociale
classista, basata sulla divisione del lavoro
e sull'approprazione privata del plusvalore.
Il sistema economico descritto dall'Autore
sembrerebbe una "comunità organica"
originaria; sennonché, le sue caratteristiche
salienti sembrano, invece, essere quelle di
una società divisa in classi in cui, però,
il bene comune prevale sull'appropriazione
privata. La sfera della produzione viene presupposta
come un ambito di organica collaborazione
fra lavoratori e proprietari dei mezzi di
produzione in chiara contro-tendenza rispetto
alla realtà dei rapporti sociali tipici di
un contesto moderno. In altre parole, il conflitto
di classe è assente dal modello proposto e
non viene visto neppure come forza interferente
nei processi di produzione e di scambio.
E' significativo che, proprio
perché qualitativa, la teoria monetaria
di Beveraggi Allende rinvii, sostanzialmente,
a criteri di valutazione come il "bene
comune" o come le "finalità"
(sociali, si direbbe) della creazione di nuova
moneta di matrice extra-economica,
affermando con chiarezza che l'economia è
un mezzo intenzionato ad altro
(rispetto a sé stessa). Un altro, politico,
una gestione politica dell'economia, una rottura
del cosmo dell'"uomo economico".
Ma è possibile una simile alterità
nel regno dell'alienazione, dove il denaro
è diventato fine del processo sociale- tanto
da far dire a Georg Simmel, nel 1889 "Mai
si è trasferito in modo tanto completo su
di un oggetto un valore che l'oggetto stesso
possiede solo grazie alla sua traducibilità
in un altro dotato di un valore proprio?"4.
E' possibile l'altro
là dove il denaro è sintesi sociale astratta,
"ed è l'astrattezza propria soltanto
dell'azione di scambio e non della coscienza
di coloro che scambiano, la quale, al contrario,
si occupa del valore d'uso delle merci (o
di qualsiasi altra cosa la spinga alla sua
azione d'uso) e non partecipa in nessun modo
all'astrazione"5
?
Come ogni forma di interazione
sociale, il denaro educa collettivamente:abitua
ad assumere atteggiamenti verso il mondo,
la vita, i nostri simili, il tempo, lo spazio,
l'ozio, il lavoro; prodotto dell'interazione
sociale esso conforma a se stesso l'interazione
sociale complessiva al modo di una "seconda
natura". E' proprio il caso di dire con
Marx: "Non è la coscienza degli uomini
che determina il loro essere, ma è, al contrario,
il loro essere sociale che determina la loro
coscienza."6.
Vi è, dunque, una sorta di
"inconscio sociale" attraverso cui
si affermano i meccanismi dell'astrazione
conformando i nostri comportamenti, spesso
contraddittori rispetto alle nostre idee di
valore (morali, religiose o politiche). Questa
è l'alienazione: la soggettività non è cosciente
di sé perché ha perduto la cognizione di sé
nei meccanismi astraenti dell'"inconscio
sociale" ("coloro che scambiano
si occupano del valore d'uso delle merci"
inconsapevoli di ciò che realmente
li spinge all'"azione d'uso").
Portare l'inconscio sociale
alla piena coscienza è il compito della critica
dell'economia politica, la quale è preliminare
rispetto a ogni teoria positiva della
moneta. Soltanto la critica dell'economia
politica può permettere di recuperare nozioni
come quella di "bene comune" o di
"finalità produttiva" che fondano
la teoria qualitativa stessa della moneta.
I processi di scambio, in
generale, comportano la relazionalità dei
valori delle cose scambiate:lo scambio avviene
sulla base dell'equivalente; infatti cose
incommensurabili non si possono scambiare:
non c'è equivalenza possibile tra cose ugualmente
"assolute". La relazionalità dei
valori non è, tuttavia, la loro relatività;
per il solo fatto di essere costruzioni simboliche-
o, se si preferisce, "idee senza parole"
tradotte in immagini e comportamenti - ciascun
valore è in quanto si trova in relazione di
implicazione o di esclusione rispetto ad altri,
la sua essenza si definisce continuamente
attraverso l'"alterità". Il "vero"
stesso si definisce attraverso il processo
di negazione del "falso" e, dunque,
pur essendo relazionale, non è relativo. La
relatività dei valori compare soltanto quando
un dispositivo di equivalenza "pareggia"
quantitativamente i valori; dunque, in un
sistema nel quale la quantità matematicamente
misurabile è assunta come tertium comparationis
esclusivo. Ad esempio, la possibilità
di esprimere il tempo di lavoro socialmente
necessario a produrre le merci attraverso
la struttura simbolica del denaro costituisce
il fondamento logico della possibilità della
misura matematica dei valori delle merci stesse.
Il requisito della misurabilità presuppone
che ogni aspetto del valore sia stato ridotto
a quantità; né la morale, né la religione,
né la politica costituiscono ambiti di valori
esenti da un simile processo. Per la loro
stessa destinazione sono chiamati a normare
la realtà sociale e ne devono amministrare
caratteri che non sono essi a determinare
e dai quali sono, al contrario, modellati,
se non determinati. Se la realtà sociale vive
se stessa sotto l'esclusivo profilo di una
visione quantitativa del reale, anche i valori
"non-economici" saranno sottoposti
a una sorta di "traduzione"in termini
quantitativi.
L'abitudine a tradurre la
qualità in quantità, come habitus mentale,
crea le premesse psicologico-sociali perché
non soltanto i valori d'uso ma anche i contenuti
rappresentativi della coscienza vengano trattati
come equivalenti, diventino, cioè, oggetti
esterni di scelta e commisurabili. Tale abitudine,
operante non soltanto nell'economia finanziaria,
ma al tempo stesso, nella visione tecno-scientifica
della realtà, riduce l'intero mondo vitale
a quantità equivalenti e, dunque, relative
l'una all'altra. L'economia finanziaria crea
un tipo di vissuto sociale e personale che
stimola, così, il relativismo e il nichilismo
come aspetti indissolubili della coscienza
dell'economia capitalistica avanzata. E come
punti teoretici di "non-ritorno".
Il declino della convinzione dell'assolutezza
dei valori morali ha aperto la strada al criterio
"extra-morale" della funzionalità
economica (il profitto) e tecno-scientifica
(l'efficacia, anche sganciata dal profitto)
dalla quale si ritiene di poter ricavare il
"bene comune". Al contrario, l'universalità
del denaro è un'universalità nichilistica:
nessun fine è razionale, oppure valido, in
se stesso; alla fine, scegliere l'uno oppure
l'altro è questione di punti di vista, a loro
volta determinati sul piano storico-sociale.7
E' possibile ricostruire
l'"anamnesi della genesi" di tale
nichilismo attraverso la critica dell'economia
politica se quest'ultima parte dal dato dell'alienazione
e della sua inscindibile connessione con l'evento
della proprietà privata dei mezzi di produzione,
per cogliere, nel presente, i segni che annunciano
l'"altro-dall'-alienazione". In
altri termini, porsi il problema di una finalità
sociale della moneta equivale a mettere in
discussione la forma-merce dal punto di vista
dei suoi effetti antropologici, ma nella piena
consapevolezza che non si tratta di ritornare
a epoche passate, ma si tratta di costruire
il futuro a partire dalla critica immanente
del presente ai suoi livelli più avanzati.
Non si tratta, neppure, di contrapporre un
modello di "uomo nuovo" alla "decadenza"
presente: il "nuovo" nasce dalla
dialettica dell'"attuale" o non
nasce affatto; nasce dal desiderio sociale
di liberarsi dalle forme di espropriazione
della soggettività che hanno capovolto il
progetto di emancipazione della Modernità
nel livellamento economico e tecno-scientifico
e dai luoghi sociali in cui l'alienazione
si manifesta con i caratteri più distruttivi.
Per questi motivi la critica immanente di
ciò che esiste non può che presentarsi come
critica dell'economia politica.
La nozione di "bene
comune", nella sua generalità, diventa
comprensibile soltanto alla luce dell'immagine
del soggetto espropriato della sua soggettività,
cioè alla luce dell'immagine del soggetto
metropolitano sottoposto alle dinamiche probabilistiche
dei mercati come un tempo lo era il contadino
ai capricci delle stagioni. Il "bene
comune" è il contrario di tale espropriazione.
E' possibile che soltanto
in questa prospettiva il contributo di Beveraggi
Allende sia comprensibile nelle sue più profonde
implicazioni. Ma ciò non potrà accadere fino
a che non ci si sarà convinti che le dinamiche
economiche globali non rispondono alla volontà
di chicchessia, ma si sono del tutto autonomizzate
dalla volontà dei singoli, come dalla volontà
dei consigli d'amministrazione. La complessità
del sistema mondiale, anche soltanto nelle
sue "frazioni" locali, rende impossibili
le strategie e molto ardue le tattiche. Il
denaro comanda gli oligopoli, non già viceversa;
l'astratto dirige le mosse del concreto. In
fondo, la teoria quantitativa della moneta
non fa che rispecchiare la realtà dell'economia
finanziaria assecondandone la logica, una
logica dietro la quale non c'è nessun "cattivo"
che stia manovrando. Ed è proprio questo che
fa del nostro un mondo profondamente alienato:
l'astratto domina il concreto.
1
Cfr. Walter Beveraggi Allende, Teoria qualitativa
della moneta, (1982), Tr. it. di Fabrizio
Sandrelli, Padova, Edizioni
di Ar, 1993, p.21.
2
Cfr. W. Beveraggi Allende, Teoria qualitativa
della moneta , cit., pp. 22-24.
3
Cfr. W. Beveraggi Allende, Teoria qualitativa
della moneta, cit. , p. 37.
4
Cfr. Georg Simmel, Psicologia del denaro,
tr. it. di Paola Gheri in Georg Simmel, Il
denaro nella cultura moderna, a cura di
N. Squicciarino, Roma, Armando, 1998, p. 49.
5
Cfr. Alfred Sohn Rethel, Il denaro. L'a
priori in contanti , (1990), tr. it. di
F. Coppellotti, Roma, Editori Riuniti, 1991,
p. 26.
6
Cfr. Karl Marx, Per la critica dell'economia
politica (1859), tr. it. di Emma Cantimori
Mezzamonti, in Karl Marx, Il Capitalismo.
Critica dell'economia politica, libro primo.
Appendici: Per la critica dell'economia politica,
capitolo VI inedito e altri scritti, a
cura di Giorgio Backhaus, Torino, Einaudi,
1978, p. 957.
7
Cfr. Max Horkheimer, Eclissi della ragione
(1947), tr. it. di Elena Spagnol, Torino,
Einaudi, 1974, cap. I.
L’Autore di questo scritto ha pubblicato,
per le Edizioni
di Ar, i segg. volumi:
Nietzsche. Illuminista o illuminato?,
L’automa della legge,
La Teoria e le sue ombre.
Ha curato, inoltre, la recente, quarta,
edizione della "Disintegrazione del sistema",
di Franco Freda.
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A proposito
del “Disastro di una Nazione”*
S. Verde, in 'Margini' n.
33, gennaio 2001
Il silenzio dei grandi economisti
di questo paese -non solo di quelli che fanno
la spola fra la cattedra e gli incarichi politici,
ma anche di quelli che si dicono professori
‘puri’, cioè privi
di ambizioni politiche e di aspirazioni alle
consulenze del settore pubblico- su un tema
di fondamentale importanza qual è quello
della
eliminazione del settore pubblico (e di buona
parte di quello privato) dall’‘ancoraggio’
nazionale (ossia dal mantenimento di buona
parte dell’economia italiana in mano italiana),
sarebbe sorprendente se il veleno liberista,
che tanto colpisce oggi la classe politica
e quella imprenditoriale, non fosse asceso
all’empireo del dogma pseudoscientifico.
Quell’empireo, che vanamente i vari Adam Smith
e David Ricardo cercarono di scalare nel XVIII
swecolo, allo scopo di permettere all’industria
inglese di dominare il mondo e di impedire
l’industrializzazione tanto dell’Europa continentale
quanto dei neonati Stati Uniti d’America.
Creatosi, con il crollo dell’Unione Sovietica,
il clima adatto, sulle basi gettate dalla
’scuola’ monetarista di Milton Friedman e
da tutti i ragionieri-’economisti’ allevati
nelle varie banche centrali di emissione,
BRI, Banca Mondiale, oltre che nel FMI e nel
GATT (1), era inevitabile che la classe politica
si arrendesse a discrezione, se questo era
(e lo era) il prezzo da pagare. Un prezzo
che essa ha puntualmente pagato, o meglio,
che ha pagato il popolo che bovinamente le
aveva -e le ha- affidato il proprio avvenire.
Si è tanto parlato, a proposito dell’industria
di Stato, di “carrozzoni” di cui l’IRI rappresentava
l’esempio maggiore.
Nessuno discute la necessità di risanare
quel pozzo senza fondo, in cui si scorgeva
una gestione catastrofica sopra tutto di Finsider
e Finmare. Ma una cosa è il risanamento,
ben altra cosa, invece, è la liquidazione;
Era possibile risanare?
Riguardo all’Italsider, se si tiene conto
che i deficit erano causati sopra tutto da
gravosissimi oneri bancari, da approvvigionamenti
a prezzi eccessivi e dalla pletora di mano
d’opera, la risposta deve essere affermativa:
certo, era possibile risanare.
Per azzerare gli oneri bancari, sarebbe stato
sufficiente fornire alla gestione i mezzi
necessari al normale funzionamento, a interesse
zero. Eventualmente -come già si usava
praticare nei confronti degli Enti Locali-
tramite la Cassa Depositi e Prestiti, dato
che la grande liquidità (proveniente
dal risparmio postale) di quest’ultima lo
avrebbe facilmente consentito.
Per ridurre fino al 50% gli oneri del personale,
sarebbe bastato attrezzare con le ultime applicazioni
tecnologiche gli impianti e la movimentazione,
nonché eliminare le assunzioni clientelari
e le assurde remore interne imposte da sindacati
ebbri di demagogia.
Per approvvigionarsi a prezzi di mercato,
sarebbe stato opportuno operare mediante aste
trasparenti, anziché agire sulla base
di tangenti. Inoltre si sarebbe dovuto, da
una parte, puntare maggiormente sui nuovi
processi di produzione e sugli acciai speciali;
dall’altra, diversificare ulteriormente le
fonti, acquistando magari le migliori ‘maniere’
estere. (Giappone docet). Anche per quel che
riguarda il gruppo Finmare la risposta non
può che essere affermativa. Per riportare
ordine nei suoi conti sarebbe bastato -in
difetto di idee originali- copiare il “know
how” e la tecnologia giapponesi -e/o quelli
della cantieristica norvegese- tanto in materia
di organizzazione del lavoro quanto in fatto
di flessibilità di rotte, di gestione
dei container, di riduzione dei tempi morti
di permanenza nei porti o in navigazione;
si sarebbe inoltre potuto curare una migliore
dinamica nell’acquisizione degli ordinativi
e nello sfruttamento dei volumi di carico.
Tutto ciò, senza dimostrare alcuna
sudditanza nei riguardi di committenti eccellenti
o di clienti politicamente protetti.
In entrambi i casi (Finsider e Finmare), una
immediata messa in disponibilità dei
fondi di dotazione avrebbe fatto risparmiare
-con o senza il ricorso alla Cassa Depositi
e Prestiti- migliaia di miliardi di interessi
passivi.
Il medesimo discorso vale, mutatis mutandis,
per le altre imprese del Gruppo IRI.
A quel punto, ovvero a risanamento ottenuto,
si sarebbe anche potuto vendere -però,
a imprese o a consorzi italiani (o a maggioranza
nazionale), con notevoli ricavi per l’Erario
e, quindi, per il contribuente, mantenendo
così in Italia la “cabina di pilotaggio”.
Ma tant’è... Attraverso Mario Sarcinelli
(2), Bankitalia aveva evidentemente già
promesso (3) agli uomini della Finanza internazionale
la svendita del patrimonio degli Enti di Stato
-quindi....bisognava ottemperare!
Nel suo saggio, il Venier sintetizza alcuni
aspetti del disastro dell’industria italiana,
rivelando nella propria agile ricognizione
una lucidità e una acutezza che di
rado si riscontrano pure nelle rare analisi
anticonformistiche di questo tema. Di ciò,
tutti gli italiani -o meglio tutti gli italiani
che, pensando, rimangono pensosi di fronte
alla sorte di questa Nazione- debbono essergli
grati.
La materia, in realtà, meriterebbe
un’analisi più vasta e articolata,
attraverso uno studio complessivo, munito
di tabelle a confronto e -elemento, questo,
non meno importante- integrato da un ‘libro
bianco’ (o ‘nero’?), redatto dai principali
protagonisti della galassia IRI. Un ‘libro
bianco’scritto sopra tutto da coloro che,
fra questi ultimi, non furono pedissequi esecutori
di ordini politici e di ‘ukase’ della Finanza.
Certo, sarà vano attendersi un testo
siffatto da uomini come Romano Prodi che,
dopo aver rappresentato in Italia gli interessi
della “Goldman & Sachs”, venne nominato
presidente dello stesso
IRI: con quei risultati -a suo dire- “straordinari”,
che tuttavia non impedirono la liquidazione
del Gruppo a condizioni catastrofiche non
solo per l’erario ma anche per l’indipendenza
industriale e navale nazionale, per le maestranze,
e per una miriade di professionalità
irrecuperabili.
Possa quindi questo saggio di Antonio Venier
essere il primo di una più ampia letteratura
specializzata. E siano resi al medesimo autore
la simpatia e l’omaggio che meritano i pionieri
della ricerca, in campi dove chi si avventura
deve combattere non solo contro i muri di
gomma ma, sopra tutto, contro l’ostilità
ostinata di chi sapendo non osa parlare.
* Note al testo di Antonio Venier, Il disastro
di una nazione. Saccheggio dell’Italia e globalizzazione,
presentazione di Bettino Craxi, collezione
‘Le due bestie’, pp. 160, Edizioni di Ar,
2000.
(1) Tutte istituzioni, queste, agli ordini
delle varie Lazard Bros, Lehman Bros, Goldman
& Sachs, First Boston, Warburg & Co.,
Hong Kong ¦ Shanghai B. Corp., Rothschild
etc., con contorno di Deutsche Bank, Parisbas,
UBS, Mediobanca etc.
(2) Universalmente noto, costui, peò
non essersi mai opposto, nella sua qualità
di vicepresidente della Banca europea di ricostruzione
e sviluppo, alle follie del suo infausto presidente
Jacques Attali.
(3) Nei primi anni ’90, a bordo del panfilo
reale “Britannia”?
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Walter Beveraggi Allende, Teoria
qualitativa della moneta. Contro il “monetarismo”,
l'inflazione e la disoccupazione. Edizioni
di Ar, Padova 1993.
Traduzione di F. Sandrelli, con una postfazione
di S. G. Verde. Collezione “L'Antibancor”,
pp. 102, L. 15.000
Solitamente il “mondialismo” viene criticato,
da destra, in modo generico e superficiale,
senza alcuna cognizione né delle diagnosi
né, soprattutto, delle prognosi opportune.
Si tratta, cioè, di una critica meramente
ideologica e priva di qualsivoglia solidità
analitica. Al contrario, la “teoria qualitativa
della moneta” rappresenta uno dei pochi tentativi
di delineare su base scientifica una alternativa
al monetarismo “quantitativo” alla Friedman
oggi imperante e strumento non ultimo del
trionfo globale del neoliberismo. (L. Boffa,
in 'Margini n. 31, luglio 2000)
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