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Julius Evola

Indice:

- Studi evoliani

- L’Islam a viso scoperto. Note sull’intervista allo sceicco Pallavicini su Julius Evola

- Lettera di Julius Evola a Franco Freda

- Recensioni


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Studi evoliani

Piero Di Vona, in 'Margini' n. 32

Quando si pubblica un libro si è lieti per aver raggiunto un risultato intellettuale, ma insieme ci si rammarica per i pensieri che inevitabilmente il libro pubblicato fa sorgere, e che non possono più essere affidati al libro stesso. E tuttavia gli studiosi sanno bene che una ricerca non può essere protratta all’infinito. Inevitabilmente, giunti ad una certa maturità e completezza, la ricerca deve terminare, e permettere di pubblicare il suo risultato. Altrimenti, se si procedesse all’infinito in una ricerca senza termine, svanirebbe il risultato della ricerca e questa perderebbe ogni ragion d’essere. Bisogna perciò accettare serenamente l’insorgere dei nuovi motivi di studio che inevitabilmente un libro pubblicato porta con sé, ed essere lieti se dal libro già pubblicato nascono nuove riflessioni che allargano o correggono la prospettiva della ricerca già condotta a termine.
Questo è accaduto anche col nostro libro Metafisica e politica in Julius Evola. La nostra principale occupazione fu di mettere in luce in questo libro la necessità che lo studio del pensiero di Evola assumesse l’onere delle ricerche filologiche che facessero da premessa necessaria di ogni indagine e ricerca successiva. Di questa necessità abbiamo dato tre ragioni nel libro, tutte interne all’opera intellettuale prodotta da Evola. La prima è che questi ha sempre arrecato mutamenti spesso rilevanti nell’allestire le numerose ristampe dei suoi libri. La seconda è che Evola col libro Il Cammino del Cinabro si fece interprete del suo stesso pensiero, gettando su di esso una luce che spesso ne modifica la prospettiva. La terza ragione è la vasta attività di saggista e di scrittore di articoli che ha accompagnato la sua attività intellettuale fino ai suoi ultimi anni. Questi scritti non sono mai stati ordinati e commentati in un unico corpo. Riflettendo su questa produzione intellettuale così vasta e molteplice, altri pensieri ci sono venuti in mente sempre restando in questo ordine di considerazione attinente al metodo col quale si deve studiare Evola. L’ultima ragione da noi accennata è almeno in parte esteriore, perché concerne il rapporto di Evola con editori e direttori di riviste e giornali, e con un pubblico certo più vasto e meno specializzato di quello dei lettori dei suoi libri. Ma, oltre alle tre ragioni indicate, vi sono altre ragioni, queste esteriori, che ostacolano lo studioso, e pongono dei limiti ad ogni ricerca rigorosa sul pensiero di Evola. Infatti, una quarta ragione è rappresentata dalla dispersione della biblioteca privata di Evola, se le informazioni da noi ricevute sono veritiere. Una biblioteca non è un fatto indifferente ed anodino per la vita intellettuale di uno scrittore e di chi porta interesse ai suoi scritti. Tutt’al contrario nella biblioteca privata dello scrittore si rispecchia la vita della sua mente, con le sue preferenze intellettuali, le sue tendenze ed i suoi orientamenti. Anche l’eventuale presenza di libri intonsi in una biblioteca indica qualcosa che nella vita di uno scrittore si è sforzato di venire alla luce senza esserci riuscito. Perciò la dispersione della biblioteca di Evola ci preclude una delle vie che potevano permetterci di gettare uno sguardo indiretto, ma sempre importante ed interessante, sulla mente stessa di Evola, e su aspetti forse poco noti e considerati della sua vita intellettuale. Valga come esempio la conservazione ancora ai nostri giorni della biblioteca di Spinoza in Olanda, sulla quale si è formata persino una letteratura. La dispersione della biblioteca di Evola è una perdita per gli studi cui sarà ben difficile rimediare. l’Unica cosa fattibile sarebbe di recensire tutte le citazioni che si ritrovano negli scritti, e ricostruire in questo modo e per questa via non fisicamente, ma almeno idealmente, il catalogo dei libri effettivamente utilizzati da Evola. Questo non ci restituirebbe la conoscenza dei libri che Evola ha posseduto, ma non ha ritenuto di poter usare pei suoi libri e scritti, ma sarebbe sempre meglio che ignorare tutto della biblioteca di Evola.
La quinta ragione che ci viene in mente circa la difficoltà dello studio di Evola, è la mancanza ancor oggi di una pubblicazione organica ed unitaria di tutti i documenti concernenti Evola che possano ritrovarsi negli archivi e nelle raccolte delle istituzioni statali europee ed extraeuropee, e anche negli archivi privati, e in genere ovunque si possa ritenere che Evola abbia lasciato una traccia. Di tutti questi documenti le lettere finora pubblicate costituiscono soltanto una parte. La necessità di reperire ed ordinare tutti i documenti concernenti Evola, oltre che dallo studio del suo pensiero, è imposta dal fatto che egli, per quanto è dato capire dai suoi scritti, fu implicato in alcuni degli avvenimenti più oscuri della storia italiana ed europea. Ci rendiamo conto della vastità e della difficoltà che imporrebbero le raccolte e le edizioni di cui parliamo, ma questi compiti ci appaiono pur sempre necessari quando si rifletta sull’importanza e sulla vastità dei rapporti intrattenuti da Evola nel corso della sua vita.
Sempre restando nell’ordine di questi problemi, alle difficoltà generali attinenti ad uno studio, e non ad una semplice lettura di Evola, altre se ne aggiungono quando si passi ai vari campi particolari nei quali Evola esercitò la sua attività intellettuale. Così chi si occupi del suo periodo artistico si troverà di fronte al compito di valutare Evola non solo come pittore e poeta, ma anche come critico d’arte, e ancora come filosofo dell’arte per le riflessioni da lui svolte nella Fenomenologia dell’Individuo assoluto e in Cavalcare la tigre. Allo stesso modo del periodo filosofico, neppure il periodo artistico è davvero chiuso negli anni indicati da Il Cammino del Cinabro. Chi si dedichi ai suoi studi orientalistici, dovrà chiedersi quale conoscenza avesse Evola del pali, del sanscrito e del cinese classico, lingue in cui erano scritti i testi delle tradizioni delle quali si occupava, o se lavorò con traduzioni, e quali. Inoltre, quali rapporti intrattenne, oltre che con Guénon, con studiosi italiani e stranieri delle tradizioni orientali? Se ci volgiamo a La Tradizione Ermetica, sappiamo che questo libro per volontà dell’editore fu ridotto di un terzo, e che Evola dové rinunciare a molti dei testi che aveva raccolto e interpretato. Perché allora nel dopoguerra, quando poteva contare su di un pubblico di lettori fedeli, non pensò a reintegrare il libro nella versione originale, e si contentò di riprodurre l’edizione più divulgativa del 1931 nelle successive ristampe?
Problemi specifici e particolari si impongono poi a chi volesse studiare il problema della razza. Evola fu razzista? Entro quali limiti lo fu? Quali problemi e quali limiti gli impose la sua adesione alla politica razziale attuata in Germania e in Italia? Al giorno d’oggi s’è formata una storiografia sulla questione ebraica e della razza. Perciò ci si dovrà chiedere preliminarmente quale posto occupi e quale significato abbia Il mito del sangue sia nella storia del razzismo, sia nella storia della storiografia sul razzismo. Addentrandosi nell’argomento lo studioso dovrà distinguere tra l’antisemitismo in generale e l’antisemitismo che riguarda specificamente l’ebraismo. Circa il primo è facile rilevare che Evola non fu per principio antisemita perché in Rivolta contro il mondo moderno diede un giudizio positivo sull’Islam e la civiltà da esso ispirata. Circa il secondo si impongono allo studioso rigorose distinzioni. Evola non fu un antisemita fanatico; al contrario criticò l’antisemitismo fanatico ed i suoi eccessi fino a vedere in essi qualcosa di molto sospetto. Evola distinse la tradizione ebraica dall’ebraismo impegnato nelle rivoluzioni intellettuali e politiche del mondo moderno. Fu soprattutto all’ebraismo moderno ch’egli rivolse la sua critica. Ma non per questo fu indotto a vedere nell’ebraismo moderno la sola ed unica causa della crisi e della decadenza del mondo moderno. Per lui il mondo moderno non comincia con l’ebraismo moderno, ma col Rinascimento, con la Riforma e col Cartesianesimo. Perciò non si può attribuire ogni colpa all’ebraismo, proprio come non la si può attribuire alla Massoneria o al Protestantesimo. Evola fu uno studioso dei famigerati Protocolli dei Savi Anziani di Sion, ma, se vide in essi l’indicazione di qualcosa che infallibilmente si viene realizzando, d’altra parte considerò l’ebraismo non solo come un attore, ma anche come una vittima della sovversione mondiale. Dall’insieme di tutti questi problemi, da noi semplicemente accennati e degni di un adeguato sviluppo, risulta evidente quanta cautela e quanta capacità critica richiedono lo studio del problema della razza in Evola. A quelle indicate si aggiungono altre difficoltà. Bisognerà valutare criticamente tutto il lungo percorso che ebbe nella vita intellettuale di Evola il problema della razza. Questo passò almeno per tre periodi dagli scritti dell’anteguerra a quelli del periodo bellico e infine a quelli del dopoguerra. Oltre ai libri e ai saggi Evola scrisse numerosi articoli sul problema della razza. A coloro che vogliano veramente studiare l’argomento, s’impone anche in questo campo un riordinamento sistematico ed unitario di tutto il materiale di studio lasciato da Evola. Inoltre a questo riordinamento deve seguire una valutazione organica che collochi ogni intervento di Evola nel tempo in cui fu scritto, studi l’occasione che diede ad esso origine, tenga conto degli eventuali interventi o suggerimenti dei direttori delle riviste e dei giornali sui quali Evola scriveva, e le eventuali influenze politiche che poterono spingerlo a trattare certi argomenti o a presentarli in una particolare luce. A parer nostro queste sono le condizioni irrinunciabili di ogni ricerca e di ogni giudizio che si voglia esprimere con fondatezza sull’arduo problema del pensiero di Evola.

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L’Islam a viso scoperto.
Note sull’intervista allo sceicco Pallavicini su Julius Evola

Giovanni Damiano, in 'Margini' n. 32

Il “Corriere della sera” del 5 luglio 2000 ha ospitato nelle pagine culturali, dandogli ampio risalto, un articolo-intervista di Sandro Scabello dedicato a Felice Pallavicini, che, oltre ad essere presidente di una confraternita islamica milanese, il Co.re.is., è ambasciatore della moschea di Roma presso il Segretariato vaticano per il dialogo interreligioso e membro del consiglio dei saggi della grande moschea di Parigi; insomma, si tratta di un esponente di assoluto rilievo della comunità islamica italiana, e non solo. Ora, questo articolo-intervista, che giunge improvviso e inaspettato (nel senso che nei giorni e nelle settimane precedenti non erano comparsi sul “Corriere della sera” altri articoli, inchieste o commenti in qualche modo attinenti alle questioni affrontate nell’intervista), ha un titolo alquanto “strano” (a dir poco): Pallavicini: Evola, traditore dello spirito. Ma andiamo con ordine: innanzitutto l’articolo ricapitola sommariamente la biografia di Pallavicini. Due dati emergono immediatamente: Pallavicini, nato nel 1924, esibisce subito un bel certificato d’antifascismo: è stato partigiano monarchico ed ha, per di più, rischiato la fucilazione; inoltre è un seguace di René Guénon. Non solo, perché, a quanto si rileva dall’articolo medesimo, proprio “l’essere sfuggito per un soffio alla fucilazione”, spinge il Pallavicini ad incontrare...Evola! Insomma, nonostante il suo “radicato antifascismo”, Pallavicini si avvicina ad Evola, a quanto pare per poter “verificare se Evola fosse davvero il Guénon italiano”. Per inciso, ma ci ritorneremo, Evola è presentato come “l’ideatore del razzismo dello spirito”; in più vengono citate due sue opere: Imperialismo pagano e Rivolta contro il mondo moderno (citazioni non casuali, visto che nella scheda su Evola che accompagna l’intervista vengono segnalati appunto Imperialismo pagano, unico testo seguito da un brevissimo accenno al suo contenuto, accenno relativo alla proposta di “modelli anticristiani”, 'Rivolta contro il mondo moderno', 'Il mito del sangue', 'Gli uomini e le rovine', 'Cavalcare la tigre'1 ; non manca, inoltre, essendo ovviamente funzionale alle tesi avanzate nell’intervista, un riferimento al processo dei Far). Il resoconto biografico continua, inframmezzato da descrizioni tanto retoriche da ricordare certi libri dell’epoca fascista sul Graziani conquistatore della Tripolitania (il Pallavicini “a 75 anni, la lunga barba bianca, ha conservato l’espressione vigorosa. La tradizionale jallabia che lo avvolge fino ai piedi ne accentua l’apparenza orientale”). Pallavicini ammette che è stato Evola “fra i primi a indirizzarlo verso l’Islam e il sufismo”, il che è, a ben vedere, una grande lezione, da parte di Evola naturalmente, di antidogmatismo e di ampiezza di vedute. Ma ecco partire le accuse: Evola sarebbe stato “attaccato dai germi corrosivi dell’antitradizione”, sarebbe, inoltre, “scivolato su tendenze occultiste ed esoteriche” costituenti una mera “parodia della spiritualità”, sino a giungere “a tradire il pensiero di Guénon che con la sua ortodossia religiosa resta il vero depositario della Tradizione”. Anzi, incalza Pallavicini, in quello che viene presentato come “un atto di accusa senza appello”: “la spiritualità, secondo Guénon, deve riportare l’uomo a Dio, mentre la tradizione italico-greco-romana serve ad Evola per cementare il piedistallo politico-ideologico del suo superuomo senza alcuna finalità religiosa”. Inoltre, sempre Pallavicini, pur riconoscendo, bontà sua, che “Evola non è stato il capo di una banda di dinamitardi”, arriva ad affermare che “quando si parla di nichilismo, di Nietzsche, di rivolta contro il mondo moderno, di superuomo, bisognerebbe sempre aver presente l’influenza che un certo tipo di indottrinamento esercita sui giovani. Da studiosi a teorici del terrorismo il passo è breve”. L’esito ultimo di un simile discorso non può che essere radicalmente negativo: “l’evolismo ha prodotto fascismo, razzismo e antisemitismo. La rivolta ha senso solo se alla distruzione segue la ricostruzione, ma Evola ha badato solo a distruggere, a differenza di Guénon che ha ricostruito la Tradizione, ancorandola a valori di purezza celestiale ed angelica [sic]”.
Fin qui il discorso su Evola. Ma l’articolo-intervista prosegue. Pallavicini sostiene che “gli stessi problemi” riguardano il fondamentalismo islamico. Di qui l’esortazione che “come tradizionalisti veri dobbiamo combattere il fascismo islamico [sic], il cancro dei sedicenti fratelli musulmani”, i quali, incredibile ma vero, sarebbero “imbevuti delle concezioni di un orientalismo fasullo, attizzato a volte dagli stessi occidentali, che vogliono islamizzare il mondo per sottometterlo ai vari partiti politici”. È chiaro poi, ça va sans dire, che quello del Pallavicini è un “Islam interiore, spirituale”, che non avanza “rivendicazioni politiche, sociali o nazionali” e che, e non poteva essere diversamente, rappresenta “l’Islam ortodosso”. Di poi, parole che dovrebbero allarmare non poco cristiani ed ebrei, il Pallavicini continua affermando candidamente che “per noi sono musulmani anche cattolici ed ebrei, esprimono diversamente la stessa fede nello stesso Dio”. Ancora: all’osservazione riguardante le affermazioni di Don Gelmini sul pericolo Islam, si arriva all’apoteosi: “il Servo dell’Unico si liscia la folta barba. Non perde il sorriso” e così risponde: “nella religione musulmana non esiste coercizione, il voler convertire appartiene al fanatico. Bisogna saper distinguere fra religione e integralismo”. Eccezionale! Non solo: ovviamente è la Chiesa cattolica ad avere “un atteggiamento di chiusura”. All’ultima domanda sui cattivi maestri di oggi la risposta è ancora una volta di una sconcertante ovvietà: i cattivi maestri sono immancabilmente “i nuovi guru del buddismo, della New Age, dello pseudozen”. Anzi, conclude Pallavicini, gli occidentali “dovrebbero tenere a mente le parole del Dalai Lama: voi occidentali non avete bisogno di convertirvi, non tanto perché non c’è più necessità del buddismo, ma perché non riuscirete mai a capire la spiritualità orientale”; così, e servendosi delle stesse parole del Dalai Lama, il buon Pallavicini cerca di “scalzare” un pericoloso avversario nella corsa alle conversioni.
Adesso il commento: innanzitutto è bene sgombrare il campo da una impostazione fuorviante, quella, cioè, imperniata sull’ennesima difesa di Evola dalle accuse di essere stato il “cattivo maestro” della destra eversiva. Non ci vuole molto, infatti, per capire la strumentalità delle accuse di Pallavicini. Pertanto, rispolverare le usuali letture sull’Evola del tutto lontano dal ruolo assegnatogli dal Pallavicini significa soltanto fare il gioco di quest’ultimo, chiudersi esclusivamente a difesa e perdere di vista i più profondi significati contenuti nell’articolo. Evola, infatti, è un semplice pretesto per ottenere risultati ben più sostanziosi. E, d’altronde, basta poco per dimostrarlo. Accusare l’autore di Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo di “occultismo” è semplicemente ridicolo. Ricordare solo determinate opere evoliane è chiaramente capzioso. Passare sotto silenzio il lunghissimo rapporto diretto intercorso tra Evola e Guénon, testimoniato da lettere, traduzioni, articoli elogiativi di Evola (basti ricordare, fra tutti, Un maestro dei tempi moderni: René Guénon, apparso nel 1935 su “La Vita Italiana”), collaborazioni dello stesso Guénon al quotidiano cremonese “Il Regime Fascista” (collaborazione durata dal febbraio 1934 al febbraio 1940 e richiesta personalmente da Evola, per un totale di venticinque articoli, ora integralmente ripubblicati in R. Guénon, 'Precisazioni necessarie'. I saggi di Diorama-Regime fascista, Edizioni di Ar, Padova, 1988) denota la cattiva fede del Pallavicini. Mettere assieme, con grande disinvoltura concettuale, nichilismo, Nietzsche e il superuomo e la rivolta contro il mondo moderno è testimonianza certa solo di una notevole confusione mentale (o di semplice ignoranza). Veniamo, pertanto, ai punti davvero decisivi, che sono perlomeno tre: Pallavicini 1) si serve di Evola per promuovere una immagine rassicurante dell’Islam; 2) attacca Evola sul versante della Tradizione perché sa che lo stesso Evola è l’unico ostacolo ad una piena vittoria dei “guénoniani” islamici. In breve, una volta “scomunicato” definitivamente Evola, la Tradizione diviene libero “territorio di caccia” per i “guénoniani” islamici; il passo successivo è elementare: se essere tradizionalisti significa essere guénoniani e se essere guénoniani significa essere islamici, è evidente l’obiettivo che Pallavicini vuole raggiungere; 3) cerca comunque, al di là delle critiche, di ingraziarsi i cattolici (espliciti, in tal senso, i rimandi a Imperialismo pagano, accompagnati ai riferimenti a new age e buddismo, “correnti” spirituali a cui, prescindendo ora dal loro effettivo “valore”, la Chiesa guarda con innegabile timore). E’ poi evidente che Pallavicini si sia servito dell’articolo-intervista non solo per far guadagnare spazio alla sua comunità (il Co.re.is., per intenderci) all’interno del mondo musulmano italiano, ma anche per proporsi (o per riaffermarsi come tale, visto l’incarico che già ricopre) come interlocutore privilegiato o comunque affidabile.Tutto questo a danno di Evola, probabilmente scelto come occasionale, e in fondo facile, bersaglio, grazie alle lontane frequentazioni avute con lui dallo stesso Pallavicini e che servivano per dare, come dire, un “tocco di autenticità” alla cosa, il che, è risaputo, non guasta mai.
Articolando più in dettaglio le riflessioni sopra riportate: in primis, il tentativo di Pallavicini di accreditare una immagine assolutamente non preoccupante dell’Islam è sin troppo scoperto. Sottolineare, infatti, il razzismo, il fascismo e l’antisemitismo di Evola non ha altro significato. Per non parlare poi del delirante discorso sul fondamentalismo, in cui, accanto a spropositi pseudocomplottistici (che può mai significare il parlare di “occidentali che vogliono islamizzare il mondo per sottometterlo ai vari partiti politici”? Debbo confessare che per quanti sforzi abbia fatto la cosa mi risulta assolutamente incomprensibile), si ritrovano accuse spinte tanto oltre nella ricerca di una qualche captatio benevolentiae da risultare nemmeno incongrue quanto, molto più semplicemente, grottesche: alludo al “fascismo islamico”. In tutta sincerità mi ero convinto, col passare degli anni, che la moda di etichettare come fascista qualsiasi cosa non riscuotesse le nostre simpatie fosse oramai finita. Evidentemente mi sbagliavo. Di poi, altri dettagli che confermano il quadro sin qui tratteggiato: il rimando ad un Islam puramente interiore, sovranamente lontano da qualsivoglia rivendicazione, alieno dalle conversioni, scevro da fanatismi, pronto a riconoscere le altre religioni. Una immagine da Arcadia, però singolarmente in contrasto, guarda caso, con l’aumento esponenziale degli islamici in Italia, con l’edificazione di sempre nuove moschee, con la continua richiesta di “piattaforme rivendicative” (tra le tante, quella sulla scuola, di cui Pallavicini dovrebbe ben ricordarsi, articolata sui seguenti punti: uso dello chador nelle aule scolastiche, attenzione, nelle mense, alle consuetudini alimentari del mondo musulmano, rigida separazione tra maschi e femmine durante le lezioni di educazione fisica, possibilità di studiare il Corano e, infine, corsi di studio e perfezionamento della lingua araba). Insomma, si tratta di una presenza, quella islamica in Italia, che non mi sentirei proprio di definire “interiore”. E poi come passare sotto silenzio dei particolari così preziosi, quali l’affermazione di Pallavicini che il suo gruppo rappresenta “la spiritualità ecumenica”? Tanto ecumenica che, in fondo, “sono musulmani anche cattolici ed ebrei”. Piccole spie, sulle quali meditare. In merito a Guénon il discorso è altrettanto palese. È probabile che a Pallavicini di Guénon importi ben poco. Anzi, diciamo meglio: a Pallavicini la cosa che davvero interessa di Guénon è la sua conversione all’Islam. Tutto il resto è secondario. Sarebbe, infatti, sin troppo facile mostrare la siderale lontananza di Guénon dalle mitologie della modernità, oppure sottolineare il fatto che non ha senso criticare, come fa Pallavicini, la “rivolta” evoliana contro il mondo moderno in nome di un Guénon, visto che proprio quest’ultimo è l’autore di quel limpidissimo atto d’accusa intitolato La crisi del mondo moderno, oppure segnalare la straordinaria attenzione dedicata da Guénon all’induismo o molto altro ancora. Ma non servirebbe a nulla, perché tutto il discorso di Pallavicini è teso esclusivamente all’Islam e, in fondo, anche Guénon è un mero pretesto, al pari di Evola. Solo che Guénon, essendosi convertito all’Islam, è funzionale alle tesi di Pallavicini. Tutto qui. Per essere ancora più chiari: tutto l’articolo è una formidabile manipolazione e di Evola e di Guénon, in nome dell’unico e unilaterale interesse che sta davvero a cuore a Pallavicini: l’Islam. E quel che conta è poter dire che “Guénon resta il vero depositario della Tradizione” e che “come tradizionalisti veri dobbiamo combattere il fascismo islamico”. Ecco il punto: allontanare Guénon da Evola, dopo aver previamente accusato quest’ultimo dei peggiori crimini ideologici, significa poter rendere credibile la seguente correlazione: Guénon = vera Tradizione = antifascismo = vero islamismo. Il termine ultimo è ovviamente l’Islam, depurato delle sue “tossine” e reso del tutto accettabile. E il fatto che il più diffuso e importante quotidiano italiano si sia prestato a diffondere il “verbo” di Pallavicini la dice lunga su quella “accettabilità”.
In via di conclusione: che quella di Pallavicini sia una prova della forza che oggi le comunità islamiche mostrano di avere è indiscutibile. Non si giocano in modo così protervo e, soprattutto, così manifestamente “sporco”, le proprie carte se non si è sicuri di ottenere alti dividendi. Questa mi sembra una constatazione desolata ma realistica. A ciò va aggiunto l’alto profilo, per così dire “istituzionale”, del personaggio in questione. Ben diverso peso avrebbero avuto queste dichiarazioni se fossero venute da un oscuro musulmano. E ben diverso peso, perché Pallavicini è per di più un italiano convertito all’Islam e quindi le sue parole acquistano (e la cosa è ovviamente voluta) un ulteriore e, diciamolo francamente, insidioso significato. Però, more solito, anche da simili occasioni è possibile ricavare insegnamenti positivi. Non c’è nemmeno bisogno di molte parole. Infatti le affermazioni di Pallavicini si commentano da sole, ma sarebbe davvero grave se anche uno solo non si accorgesse della loro pericolosità. Una tale opportunità non va sprecata. Quella di Pallavicini è una “scelta di campo” che non dev’essere minimizzata né, tantomeno, deve lasciare indifferenti. Adesso si sa a cosa si va incontro. E, ultimo punto ma essenziale: da dove riceve la forza Pallavicini? Da cosa viene legittimato? Cosa c’è dietro Pallavicini? Se Pallavicini fosse espressione di un gruppuscolo sparuto e insignificante ci saremmo affaticati nel denunciare le sue imposture? La risposta è semplice e drammatica: dietro Pallavicini c’è l’immigrazione extraeuropea. È soltanto grazie ad essa che gli islamici hanno oggi in Italia una forza impensabile già solo una diecina d’anni fa. E si tratta di una immigrazione in crescita record (aumento del 13,8% solo nell’ultimo anno) e con alti tassi di natalità. Una immigrazione che non è “una assicurazione sulla vita per il Bel Paese del terzo millennio” come si affanna a ripetere il solerte G. Bolaffi sul “Corriere della sera” del 12 luglio 2000 (è chiaro che per l’ineffabile Bolaffi l’Italia è soltanto un mero luogo geografico da ripopolare, indifferentemente, con chiunque) ma la certa assicurazione della morte dell’Italia, essendo per noi evidente che una Italia in cui gli italiani “autoctoni” siano ridotti a tragica minoranza sarà tutto tranne che il nostro paese. Questo è quanto, questo è tutto.

1 Indicazioni bibliografiche relative ai testi evoliani citati nella scheda: Imperialismo pagano, Edizioni di Ar, Padova, 1996; Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma, 1998; Il mito del sangue, II ed., del 1942, accresciuta e riveduta, Edizioni di Ar, Padova, 1994; Gli uomini e le rovine, Settimo Sigillo, Roma, 1990; Cavalcare la tigre, Mediterranee, Roma, 1995.

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Lettera di Julius Evola a Franco Freda
(In occasione della costituzione delle Edizioni di Ar)


Roma, 3 febbraio 1963

Egregio Sig. Freda

Ho avuto la Sua lettera e La ringrazio per l’attenzione dedicata alla mia attività.
Se vedo con simpatia iniziative come quella di cui Lei mi dà notizia, per il loro valore, almeno, dimostrativo, non credo tuttavia di poter andar incontro al Suo desiderio; le esperienze fatte mi consigliano a non affiancarmi ormai a nessuna formazione che anche consequenzialmente partecipi ad una lotta politica.
Il mio punto di vista, oggi, è quello di cui il mio ultimo libro, “Cavalcare la tigre”, può dare una idea. Proprio in questo periodo mi era venuto in mente di ripubblicare una rivista che già diressi nel 1930 e che già a quel tempo suscitò molto rumore, “La Torre”, però col sottotitolo provocatorio “Quindicinale del pensiero reazionario e antisociale”. Si sarebbe trattato di una pura azione aggressiva e di rottura, anticonformista in ogni senso e su tutti i piani, senza nessun intento costruttivo: da “anarchici di Destra”, sullo stile della rivista “Lacerba” del Papini del 1914, ma naturalmente con un ben altro sfondo dottrinale, sia pure tacito. Ma sembra che le condizioni, soprattutto materiali, per realizzare una simile iniziativa non esistano.

Con auguri e cordiali saluti

Trascrizione della lettera originale, riprodotta in:
Julius Evola, L’Idea di Stato, Edizioni di Ar, 1994.

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Recensioni

Un segno evidente del rinnovato interesse per l’opera evoliana è costituito dalla presenza di alcune “voci” dedicate ad Evola in recenti volumi collettanei. Infatti, nell’Enciclopedia del pensiero politico, diretta da Carlo Galli e Roberto Esposito, Laterza, Roma-Bari, 2000, figura una voce “Evola” a cura di Francesco Ingravalle, mentre nel Dizionario delle opere filosofiche, Bruno Mondadori, Milano 2000, sono inclusi, e ampiamente commentati da Franco Volpi, due testi di Evola: Metafisica del sesso e Rivolta contro il mondo moderno.

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P. Di Vona, Metafisica e politica in Julius Evola, Postfazione di G. Damiano, Collezione 'gli Inattuali'. L. 30.000
Il testo di Piero Di Vona rappresenta il primo contributo organico e analitico dedicato all’esame della “metafisica” evoliana, nozione spessissimo richiamata ma sinora mai studiata con rigore e profondità. Di Vona, oltre ad analizzare il senso generale della “metafisica” nell’opera di Evola, si sofferma, con cura e ricchezza di interpretazioni, sul significato metafisico del razzismo evoliano, sull’importanza di Rivolta contro il mondo moderno, testo in cui traspaiono con la massima chiarezza i principi metafisici fatti propri da Evola, sul ruolo e il significato della politica, sulla scienza della sovversione e, infine, sul “pensiero finale” di Evola, pensiero che lo stesso Di Vona rintraccia, con mossa originale, ne 'Il cammino del cinabro', libro che, di conseguenza, non è più considerato semplicemente l’autobiografia di Evola. (F. Masulli in 'Margini n. 32)


Beniamino M. di Dario, La via romana al Divino. Julius Evola e la religione romana. Collezione 'Paganitas', L. 30.000
Con questo studio, l'autore tenta per la prima volta di ricostruire in maniera organica l'interpretazione del culto romano e, più in generale, della civiltà di Roma propria di Julius Evola. Nel ciclo romano Evola coglieva infatti la manifestazione di alcuni capisaldi della sua formulazione dell'idea di tradizione: le dottrine della regalità e dell'imperium, la forza impersonale del rito, la via dell'azione. E' soprattutto su quest'ultima che l'autore si sofferma ogni qualvolta essa conduca l'interpretazione di Evola verso determinate conclusioni, marcandone in tal modo il carattere di "predisposizione". Nel delineare progressivamente la visione evoliana del culto e della civiltà romana, il libro tocca via via questioni imprescindibili, quali la sistemazione del ciclo romano all'interno delle complesse concezioni cosmostoriche di Evola e la comprensione del "significato ultimo" di Roma, nonché il tema del rapporto tra Evola e il cristianesimo - meglio definito dallo svolgersi del suo "paganesimo" - fino a trattare della posizione tenuta da Evola nei confronti del fascismo e del tradizionalismo romano.


G. Damiano, La filosofia della libertà in Julius Evola. Nota introduttiva di Roberto Melchionda. Edizioni di Ar, Padova 1998. Collezione Consonanze, pp. 85, L. 18.000
"Il merito principale di Damiano sta nell'aver saputo ripensare il tema centrale della filosofia di Julius Evola con mente libera e direi creativa, e di averlo fatto alla luce della cultura filosofica contemporanea più vivace: così da inserirlo senza sforzo nel mezzo del dibattito in corso sul nichilismo" (dalla prefazione di R. Melchionda).
Attraverso un serrato confronto tra il pensiero filosofico evoliano e gli esiti più interessanti della riflessione contemporanea sul nichilismo, Damiano prova a leggere la “teoria dell’individuo assoluto” come una filosofia della libertà. Per Damiano, però, la “libertà” mostrata dall’individuo assoluto evoliano, non ha nulla a che fare con le libertà dei moderni: queste sono concepibili solo all’interno di un ambito che è già nichilistico, mentre la libertà che è nel cuore dell’individuo evoliano è pura potenza, precedente ogni realizzazione e ab-soluta da ogni necessità. Una libertà libera anche dal dover necessariamente essere se stessa: e quindi sempre in forse, sempre nel “frammezzo” tra essere e non – essere, sempre revocabile. Una libertà che può costituire il principio di una risposta – sempre rischiosa, mai pacificamente assicurata - al nichilismo del moderno. (G. Amendola, in 'Margini' n. 23)


Philippe Baillet, Julius Evola e l’affermazione assoluta.Introduzione all’opera di Julius Evola, Edizioni di Ar.
Trascrizione di due conferenze, tenute dall’Autore verso la metà degli anni Settanta, il testo sviluppa un’introduzione al pensiero evoliano, preceduta da essenziali note biografiche. Da queste pagine emergono alcuni elementi che mettono in risalto la particolarità del pensatore, che presentava, già in giovane età, quell’impulso osservatore e critico verso la realtà contingente che lo accompagnerà, poi, per tutta la sua vita e in tutte le sue opere. Impulso, c’é da precisare, non orizzontale, sterile, informe, bensì verticale, in costante formazione, basato sulla dicotomia distruttivo/costruttivo - cioè impulso distruttivo verso gli schemi culturali e sociali proiettati dallo ‘spirito borghese’; costruttivo, invece, in senso formativo. Ossia: indirizzato interiormente verso qualcosa di trascendente, Evola sarà portato ad avvicinarsi alle nuove correnti artistiche che nei primi anni Venti contenevano, almeno apparentemente, il germe di una rivoluzione culturale ed interiore. In particolare sarà il movimento Dadaista ad attrarlo. Il fascino del’abbattimento, appunto, di tutte le ‘impalcature’ mentali e comportamentali per giungere ad una totale affermazione individuale - e l’espressione artistica era il campo perfetto per la sua attuazione - , aveva colpito anche il giovane Evola. Egli però aveva compreso quasi subito, attraverso riflessioni personali che assumeranno talvolta aspetti interiori anche critici, che più che affermazione liberatoria, il risultato di un semplice smantellamento delle ‘strutture imposte dall’esterno’, poteva portare, e nella maggior parte dei casi era proprio così, ad un ancora più pericoloso appesantimento dell’ego quale ‘struttura imposta dall’interno’. Avendo sospettato la pericolosità di questo incatenamento del pensiero individuale a se stesso, Evola comprende che verà libertà si realizza solo nel successivo e fondamentale superamento di sé. E se ego vuol dire ‘impropria’ rappresentazione della realtà quale campo d’azione per l’affermazione dei propri scopi individualistici - quasi una battaglia da super-uomo - la direzione da seguire è quella verso l’alto, al di sopra dell’ego, oltre gli scopi; anzi, superamento, anche e soprattutto, dello scopo stesso del raggiungimento della libertà. Nirvana è non aver bisogno del Nirvana. Praticamente quasi un illuminazione. Da qui il giro di boa di Evola che, allontanatosi dalle correnti artistiche, si dedica esclusivamente all’approfondimento filosofico, periodo nel quale cercherà di dare un’impostazione chiara e ordinata alle sue intuizioni sul microcosmo umano. Sono di questo periodo le prime opere importanti. Continua, inoltre, il suo cammino sulla via della Tradizione attraverso l’esplorazione delle varie dottrine sapienziali. Questa sua ricerca lo porterà, insieme ad altri illustri studiosi, alla costituzione del gruppo di ‘Ur’, i cui approfondimenti nell’ambito dell’esoterismo, ancora oggi, varranno come veri punti di riferimento generali nel tortuoso cammino verso la conoscenza.
Al crocevia storico degli anni ‘30/’40, Evola, alla luce dei suoi studi sulla dottrina dello Stato e sul principio di Autorità, esprimerà delle riserve tanto verso il fascismo che verso il nazionalsocialismo, considerandoli tentativi incompiuti di restaurazione di una Stato tradizionale.
Nel dopoguerra Evola continuerà a sviluppare le sue riflessioni sui principi tradizionali su due diversi piani: da un lato impegnandosi nella chiarificazione dei presupposti metafisici dell’azione politica; dall’altro indicando i riferimenti interiori per chi volesse affrontare lo sconvolgimento in atto anche sul piano esistenziale. (Sante Carini, in 'Margini' n. 32, aprile 2001)

 

P. Di Vona, Evola Guénon Di Giorgio, Sear, L. 65.000
Con questo secondo saggio dedicato al pensiero metafisico di Guénon, Piero Di Vona apporta un contributo determinante allo studio dell'opera del pensatore francese. Già con il precedente Evola e Guénon (Napoli 1985) l'Autore aveva offerto un significativo approfondimento dei contenuti dell'opera di René Guénon, studiata sia in rapporto al pensiero di Evola, sia nel contesto della cultura europea della prima metà del secolo. Un approfondimento la cui importanza fu posta in evidenza immediatamente da due lati fondamentali: il primo rappresentato dalla puntualità e dall'ampiezza che caratterizzavano la stesura del saggio, come si conviene ad uno studioso del livello del Di Vona; il secondo per avere sottratto Guénon a quei giudizi sommari provenienti dagli ambienti della cultura cosiddetta 'ufficiale'. Liquidare Guénon come uno dei tanti scrittori dell'ambiente occultista francese di inizio secolo era un'operazione che mostrava la lontananza che tanti intellettuali europei intendevano stabilire fra essi e il mondo culturale nel quale il pensiero di Guénon ha preso forma. Ma tale posizione - che dopo questo secondo saggio del Di Vona si mostra ancora più chiaramente con i caratteri di un pregiudizio ideologico - celava l'incapacità di una comprensione, una difficoltà a ricondurre l'opera di René Guénon entro il panorama intellettuale dell'Occidente. Lo studio condotto da Piero Di Vona va proprio nel senso di una riconduzione, fin dove possibile, del pensiero di Guénon entro le categorie concettuali dell'Occidente, e questo soprattutto in riferimento al discorso metafisico che l'autore francese sviluppa in diverse opere, in un arco di tempo di oltre una decina di anni. Di Vona restringe lo studio a quelle opere che si occupano direttamente di argomenti di metafisica: Introduction générale à l'étude des doctrines hindoues (1921), La métaphysique orientale (1939, la cui prima stesura risale al 1925), Le Simbolisme de la Croix (1931), Les Etats multiples de l'Etre (1932). In esse vengono messi in risalto i contatti tra il pensiero dell'autore francese e la metafisica elaborata in Europa. Quali elementi della metafisica occidentale, e di quella moderna in particolare, Guénon introduce nella sua opera? Quanto nei suoi testi è derivato dalla sua formazione occidentale? Quali filosofi si intravedono, sovente in maniera molto chiara, negli scritti di uno dei maggiori maestri del pensiero tradizionale? Guénon non rivela mai, se non in rarissimi casi, gli autori a cui si riferisce, e tuttavia alle precedenti domande Di Vona dà una risposta chiara, in un saggio che appare subito ben distante, per il tono della scrittura e per l'esaustività dell'analisi, sia da quelle impostazioni che sconfinano spesso in una sterile 'agiografia', sia dalle, altrettanto sterili, critiche accademiche. Certo, dopo la pubblicazione di questo saggio noi non crediamo ingenuamente che il mondo accademico si aprirà, senza pregiudizio alcuno, all'opera del pensatore francese, ma riteniamo, certi di non poter essere smentiti, che quelle critiche a cui i lettori di Guénon sono abituati ora avranno anche il limite di mostrare chiaramente che derivano da una 'semplice' ignoranza. Non si tratta forse dell'ignoranza del 'profano', del 'laico'? (M. Pacilio, in 'Margini' n. 23)

 

Gianfranco de Turris, Bruno Zoratto (a cura di), Julius Evola nei rapporti delle SS, Fondazione Evola. Euro
I documenti pubblicati in questo “quaderno” rendono sempre più chiaro il ruolo avuto da Evola nella Germania nazionalsocialista, e dimostrano, altresì, senza equivoci, l’autonomia di giudizio del pensatore tradizionalista e la sua mancanza di servilismo, così come indicano, in modo altrettanto evidente, la lontananza dello stesso Evola dagli elementi di modernità presenti nel nazionalsocialismo (G. D., in 'Margini' n. 32)

 

Franco Giorgio Freda, Per un radicalismo di destra: “Cavalcare la tigre”, in “Tradizione”, 1963.
Si tratta della recensione di F. G. Freda a Cavalcare la tigre, originariamente apparsa sul periodico “Tradizione” nel 1963 e poi ripubblicata in appendice a Ph. Baillet, Julius Evola e l’affermazione assoluta, Edizioni di Ar, Padova, 1978, pp. 103-114. La recensione di Freda s’impernia, oltre che sulla “nozione” di “uomo differenziato” e sulla necessità di non inibire bensì di favorire le forze libere dell’antitradizione, al fine di affrettare la dissoluzione e di far precipitare la crisi, sull’analisi di Nietzsche e dell’esistenzialismo sviluppata da Evola nella parte centrale di Cavalcare. Inoltre, osservazione cruciale, l’apolitia evoliana viene letta da Freda come pathos della distanza ma non come assoluto divieto dell’azione politica, purché, ovviamente, tale azione non finisca per “corrodere” quello stesso pathos. Infine, l’apolitia viene ricondotta da Freda ad una sorta di “esaltazione dell’anarchia: di un tipo particolare - a livello elevato - di anarchia”. E questa ci sembra davvero una intuizione fondamentale. (L. Boffa, in 'Margini' n. 32, aprile 2001)

Francesco Germinario, Evola davanti al ‘68, in “Annali Istituto Gramsci Emilia-Romagna” 1998-99, n. 2/3.
La destra nel secondo dopoguerra è fuori dalla realtà politica, sociale e culturale d’Italia. Vive in una nicchia, animata da proposte e dibattiti lontanissimi dalle dinamiche di quegli anni. All’improvviso la storia viene sorpresa da quell’evento denominato “il ’68". La destra può rientrare in gioco, può cavalcare la tigre. Finalmente nascono proposte e progetti all’altezza dei tempi, in grado di fornire soluzioni non pateticamente retrò. Ma Evola, che pure aveva anticipato, e proprio con Cavalcare la tigre, quei tempi febbrili e così potenzialmente ricchi di spazi e alternative, finisce con lo schierarsi su posizioni conservatrici quando non francamente reazionarie. L’occasione tramonta (anche per fattori esterni, sia chiaro, a partire dalla sempre più forte pregiudiziale “antifascista” del movimento studentesco). Ma è indubitabile che Evola abbia contribuito a quel tramonto. E merito altrettanto indiscutibile di F. Germinario è quello di aver compreso tutto questo, pur partendo (o, forse, proprio grazie a ciò) da posizioni “ideologiche” totalmente altre da quelle di destra. (L. Boffa, in 'Margini' n. 32, aprile 2001)

Enrico Ferri, Cavalcare la tigre e l’individualismo di Julius Evola, in “La società degli individui”, 1998, n. 3.
Il testo di Enrico Ferri, di cui siamo venuti a conoscenza soltanto adesso, è una sommaria ricognizione dell’individualismo evoliano a partire dal periodo artistico sino a Cavalcare la tigre. I punti d’interesse del testo sono, a nostro parere, i seguenti: per Ferri quello dell’Evola tradizionalista non sarebbe personalismo ma pur sempre individualismo (p. 77), anche se di matrice elitaria e aristocratica; tra Individuo Assoluto e “uomo differenziato” ci sarebbe una fondamentale distinzione (p. 80): il primo è in rivolta in nome di “una libertà anarchica che esalta le pulsioni interiori e l’istinto”, mentre la rivolta del secondo farebbe perno sui principi metafisici e trascendenti della Tradizione (anche se, alla luce di queste osservazioni, non si comprende affatto come Ferri possa scrivere, nella chiusa del suo lavoro - p. 83 - , che quel che avrebbero in comune l’Individuo Assoluto e l’uomo differenziato sarebbe proprio “l’affermazione dell’io come superamento della naturalità, che nell’uomo si presenta essenzialmente come passione e istinto”); da ultimo, l’affermazione più interessante, anche se appena abbozzata e priva di ulteriori sviluppi: per Ferri (p. 75) in Evola Tradizione e storia si implicano a vicenda, sono collegate e addirittura si “confondono” l’un l’altra. (L. Boffa, in 'Margini' n. 32, aprile 2001)

Francesco Germinario, Con Evola, oltre Evola. Europeismo, riattualizzazione del nazismo e nuova identità politico-culturale della destra negli scritti di Adriano Romualdi, in AA. VV., Il lungo decennio. L’Italia prima del 68, Cierre Edizioni.
Già dal titolo traspare chiaramente l’impostazione di Germinario.Romualdi, invece di seguire pedissequamente il pensiero evoliano, avrebbe tentato di andare oltre quello stesso pensiero. Questa acuta lettura si condensa nelle battute finali dello scritto (p. 365), laddove Germinario scrive che la visione di Romualdi “rifuggiva dalla disperazione antimodernista dell’evolismo [...], offrendo certamente una prospettiva più politica all’area radicale del neofascismo, nella misura in cui si chiamavano i militanti non alla sdegnosa e aristocratica contemplazione del tramonto dell’Occidente, bensì a una nuova stagione che trovava i propri punti di riferimento negli aspetti più radicali e attivistici della tradizione di destra”. (L. Boffa, in 'Margini' n. 32, aprile 2001)

Piero Operti, L’ultimo libro di Evola. Gli uomini e le rovine.
Gianbattista Vico ricercò una “storia ideale eterna sulla quale corrono nel tempo le storie delle singole nazioni”, e tale ricerca doveva necessariamente volgersi alla terza dimensione della storia, al sottosuolo da cui si sviluppano i fatti di superficie. La Scienza nuova risiedeva appunto nella integrazione della storiografia con la filosofia, nella accezione della filosofia come momento metodologico della storia, e fecondissime furono le riflessioni del pensatore napoletano, riassunte in formule concettose che egli chiamava degnità, sull’evoluzione dei pubblici ordinamenti dall’età omerica sino al medioevo e al periodo delle monarchie pure.
Un medesimo proposito di visione sintetica e chiarificatrice ispira Julius Evola quando in Rivolta contro il mondo moderno (2 ediz. Bocca, Milano, 1951) e ultimamente in Gli uomini e le rovine (Edizioni dell’Ascia, Roma, 1953) formula la legge della regressione delle caste, secondo cui un processo involutivo si sarebbe attuato con il passaggio del potere politico da originarie caste di capi spirituali aventi carattere sacrale ad aristocrazie guerriere e successivamente ad oligarchie mercantili.
Lo scrittore chiama mondo tradizionale quello governato dalle “élites” del primo e del secondo tipo, a cui si oppone il mondo moderno caratterizzato dal tirannico primato dell’economia, e occorre notare che ai due termini egli non attribuisce soltanto un significato cronologico ma li considera anche come due distinte forme dello spirito umano, presenti e variamente operanti in ogni tempo.
Predominava nelle civiltà tradizionali l’elemento sovrannaturale, cioè lo spirito “concepito non come una astrazione filosofica bensì come una realtà superiore e come meta di una integrazione trascendente della personalità”, mentre nell’età moderna il razionalismo distruggendo il principio di autorità e negando ogni valore superindividuale consegnò la direzione della società al Terzo Stato e all’antica casta dei ‘mercanti’, moto regressivo che non può arrestarsi e che procede oggi verso il suo compimento che è la civiltà (o inciviltà) collettivistica del Quarto Stato.
Chi respinga come reazionaria questa sintesi storica (la preistoria e la storia delle prime civilizzazioni è una materia malsicura nella quale si possono trovare argomenti atti ad avvalorare le tesi più diverse) non può parimenti respingere la crisi dell’Occidente, intorno alla quale da un secolo si affaticano i pensatori e che ha lontane radici teoretiche e pratiche nella demolizione delle normali gerarchie umane.
D’altronde il reazionarismo di Evola ha un significato trascendente la sfera economica, poiché nelle contrapposte classi dei capitalisti e dei proletari egli vede due facce d’una stessa realtà che è la “demonia dell’economia”, l’assunzione d’una categoria strumentale a categoria finalistica, conseguente alla “invasione barbarica” dell’industrialismo.
L’illusorio miraggio delle conquiste tecnico-industriali, che egualmente abbacina i due antagonisti, vela ai loro occhi il deserto spirituale in cui il materialismo li ha condotti e dove essi officiano all’ultima divinità superstite: il progresso, tra i possibili fasti del quale vi è la distruzione scientifica dell’umanità.
Nec mala nostra nec remedia pati possumus: la parola di Cicerone è a buon diritto applicabile al nostro tempo, e nessuno nega la crisi, mentre il fatto stesso che della suddetta possibile distruzione si discorra e si scriva ovunque con fare tra compunto e snobistico, prova l’abisso di demenza in cui siamo precipitati. Lo sterminio atomico sospeso sul nostro capo si annunzia come l’epilogo d’un cammino che due secoli or sono prese le mosse dal “diritto alla felicità” consacrato nella Dichiarazione di Filadelfia.
Il termine di destra non può attribuirsi ad Evola se non in quanto egli difende i valori spirituali che la corsa a sinistra, allora iniziata, ha quasi interamente distrutti, difesa disperata poiché, come con verità lo scrittore osserva, gli stessi uomini disposti ad arginare la rovina sono più o meno intaccati dalle tossine del male che essi vogliono curare, delle quali la cultura moderna è impregnata.
Nessuno come Evola ha operato su di sé una disinfezione altrettanto radicale e dispone di un coraggio mentale paragonabile al suo.
In Gli uomini e le rovine, che si apre con chiara presentazione del Principe Valerio Borghese, Evola riunisce sistematicamente temi che in parte aveva fatto oggetto di trattazioni giornalistiche.
Di importanza essenziale è il capitolo dedicato ai concetti di sovranità e di imperium, dall’autore riferiti a un principio inderivabile e incondizionato, ordinatore del mondo umano: istanza contrastata da Massimo Rocca nel periodico Italia di tutti (30-4-1953).
La critica del Rocca, fondata sulla premessa immanentisca d’un giusnaturalismo che vede nella società il soggetto e non l’oggetto della politica, ripete in sostanza l’obiezione contro l’immortalità dell’anima sollevata nel Fedone da Simia, il quale concepisce l’anima come armonia del corpo e quindi da questo condizionata. Al discepolo Socrate oppone che l’anima pur poggiando sulla vita fisica ha leggi sue proprie, tali da piegare quella vita a proprii fini. Il rapporto resta valido sostituendo ai termini corpo e anima i termini società e Stato, il quale è da intendersi come l’entelechia, la forma o principio ordinatore della società. Tale relazione complementare è riscontrabile nelle origini di tutti gli organismi politici ed ha un chiaro esempio nel Regno di Prussia sorto dall’Ordine dei Cavalieri teutonici e creatore, o meglio formatore, della nazione germanica.
Posto questo dualismo di forma e materia della politica, occorre riconoscere che l’azione della prima non è necessaria soltanto durante il costituirsi e svilupparsi dell’aggregato umano, bensì anche in ogni successiva fase affinché questo non graviti verso gli stadi più bassi degli appetiti e degli istinti elementari. Sotto l’iridescente vernice del progresso tecnico tale gravitazione è in atto da quando i dotti hanno fatto tabula rasa di ogni credenza nel sovrasensibile, e gli indotti ne hanno tratto le inevitabili illazioni edonistiche, non lasciando spazio ad altro ordine che non sia l’instabile equilibrio dei contrapposti equilibri. Equilibrio così instabile, che i paesi i quali non siano all’interno e nelle relazioni esterne lacerati dalle rivalità e dagli odii costituiscono piccole oasi in un mondo convulso e sconvolto.
È ancora possibile un arresto del processo involutivo?
Lo scrittore si richiama talora a una élite a carattere spirituale, formata da uomini esprimenti un ideale di virilità immateriale, dotati di una fedeltà incondizionata, ascetica, incrollabile all’idea che li accomuna.
Come nell’antica Grecia sarebbe da attendere un ritorno degli Eraclidi?
Siffatti uomini non possono formarsi nel presente “clima” che ormai si è diffuso a tutta la terra senza rispettare alcuna Tule boreale, e l’esperienza induce a pensare che il ciclo debba svolgersi sino al compimento e che solo dalle “rovine” possano sorgere gli “uomini”.
Evola nutre forse la nobile ambizione d’essere il Socrate che Kierkegaard auspicava per la nascita d’un ordine nuovo.
(Recensione di Piero Operti apparsa sul Secolo d’Italia del 13 maggio 1953, e riportata in 'Margini' n. 32, aprile 2001)

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