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Julius
Evola
Indice:
- Studi
evoliani
- L’Islam
a viso scoperto. Note sull’intervista allo sceicco
Pallavicini su Julius Evola
- Lettera di
Julius Evola a Franco Freda
- Recensioni
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Studi evoliani
Piero Di Vona, in 'Margini' n.
32
Quando si pubblica un libro si è
lieti per aver raggiunto un risultato intellettuale,
ma insieme ci si rammarica per i pensieri che
inevitabilmente il libro pubblicato fa sorgere,
e che non possono più essere affidati al
libro stesso. E tuttavia gli studiosi sanno bene
che una ricerca non può essere protratta
all’infinito. Inevitabilmente, giunti ad una certa
maturità e completezza, la ricerca deve
terminare, e permettere di pubblicare il suo risultato.
Altrimenti, se si procedesse all’infinito in una
ricerca senza termine, svanirebbe il risultato
della ricerca e questa perderebbe ogni ragion
d’essere. Bisogna perciò accettare serenamente
l’insorgere dei nuovi motivi di studio che inevitabilmente
un libro pubblicato porta con sé, ed essere
lieti se dal libro già pubblicato nascono
nuove riflessioni che allargano o correggono la
prospettiva della ricerca già condotta
a termine.
Questo è accaduto anche col nostro libro
Metafisica e politica in Julius Evola. La nostra
principale occupazione fu di mettere in luce in
questo libro la necessità che lo studio
del pensiero di Evola assumesse l’onere delle
ricerche filologiche che facessero da premessa
necessaria di ogni indagine e ricerca successiva.
Di questa necessità abbiamo dato tre ragioni
nel libro, tutte interne all’opera intellettuale
prodotta da Evola. La prima è che questi
ha sempre arrecato mutamenti spesso rilevanti
nell’allestire le numerose ristampe dei suoi libri.
La seconda è che Evola col libro Il Cammino
del Cinabro si fece interprete del suo stesso
pensiero, gettando su di esso una luce che spesso
ne modifica la prospettiva. La terza ragione è
la vasta attività di saggista e di scrittore
di articoli che ha accompagnato la sua attività
intellettuale fino ai suoi ultimi anni. Questi
scritti non sono mai stati ordinati e commentati
in un unico corpo. Riflettendo su questa produzione
intellettuale così vasta e molteplice,
altri pensieri ci sono venuti in mente sempre
restando in questo ordine di considerazione attinente
al metodo col quale si deve studiare Evola. L’ultima
ragione da noi accennata è almeno in parte
esteriore, perché concerne il rapporto
di Evola con editori e direttori di riviste e
giornali, e con un pubblico certo più vasto
e meno specializzato di quello dei lettori dei
suoi libri. Ma, oltre alle tre ragioni indicate,
vi sono altre ragioni, queste esteriori, che ostacolano
lo studioso, e pongono dei limiti ad ogni ricerca
rigorosa sul pensiero di Evola. Infatti, una quarta
ragione è rappresentata dalla dispersione
della biblioteca privata di Evola, se le informazioni
da noi ricevute sono veritiere. Una biblioteca
non è un fatto indifferente ed anodino
per la vita intellettuale di uno scrittore e di
chi porta interesse ai suoi scritti. Tutt’al contrario
nella biblioteca privata dello scrittore si rispecchia
la vita della sua mente, con le sue preferenze
intellettuali, le sue tendenze ed i suoi orientamenti.
Anche l’eventuale presenza di libri intonsi in
una biblioteca indica qualcosa che nella vita
di uno scrittore si è sforzato di venire
alla luce senza esserci riuscito. Perciò
la dispersione della biblioteca di Evola ci preclude
una delle vie che potevano permetterci di gettare
uno sguardo indiretto, ma sempre importante ed
interessante, sulla mente stessa di Evola, e su
aspetti forse poco noti e considerati della sua
vita intellettuale. Valga come esempio la conservazione
ancora ai nostri giorni della biblioteca di Spinoza
in Olanda, sulla quale si è formata persino
una letteratura. La dispersione della biblioteca
di Evola è una perdita per gli studi cui
sarà ben difficile rimediare. l’Unica cosa
fattibile sarebbe di recensire tutte le citazioni
che si ritrovano negli scritti, e ricostruire
in questo modo e per questa via non fisicamente,
ma almeno idealmente, il catalogo dei libri effettivamente
utilizzati da Evola. Questo non ci restituirebbe
la conoscenza dei libri che Evola ha posseduto,
ma non ha ritenuto di poter usare pei suoi libri
e scritti, ma sarebbe sempre meglio che ignorare
tutto della biblioteca di Evola.
La quinta ragione che ci viene in mente circa
la difficoltà dello studio di Evola, è
la mancanza ancor oggi di una pubblicazione organica
ed unitaria di tutti i documenti concernenti Evola
che possano ritrovarsi negli archivi e nelle raccolte
delle istituzioni statali europee ed extraeuropee,
e anche negli archivi privati, e in genere ovunque
si possa ritenere che Evola abbia lasciato una
traccia. Di tutti questi documenti le lettere
finora pubblicate costituiscono soltanto una parte.
La necessità di reperire ed ordinare tutti
i documenti concernenti Evola, oltre che dallo
studio del suo pensiero, è imposta dal
fatto che egli, per quanto è dato capire
dai suoi scritti, fu implicato in alcuni degli
avvenimenti più oscuri della storia italiana
ed europea. Ci rendiamo conto della vastità
e della difficoltà che imporrebbero le
raccolte e le edizioni di cui parliamo, ma questi
compiti ci appaiono pur sempre necessari quando
si rifletta sull’importanza e sulla vastità
dei rapporti intrattenuti da Evola nel corso della
sua vita.
Sempre restando nell’ordine di questi problemi,
alle difficoltà generali attinenti ad uno
studio, e non ad una semplice lettura di Evola,
altre se ne aggiungono quando si passi ai vari
campi particolari nei quali Evola esercitò
la sua attività intellettuale. Così
chi si occupi del suo periodo artistico si troverà
di fronte al compito di valutare Evola non solo
come pittore e poeta, ma anche come critico d’arte,
e ancora come filosofo dell’arte per le riflessioni
da lui svolte nella Fenomenologia dell’Individuo
assoluto e in Cavalcare la tigre. Allo stesso
modo del periodo filosofico, neppure il periodo
artistico è davvero chiuso negli anni indicati
da Il Cammino del Cinabro. Chi si dedichi ai suoi
studi orientalistici, dovrà chiedersi quale
conoscenza avesse Evola del pali, del sanscrito
e del cinese classico, lingue in cui erano scritti
i testi delle tradizioni delle quali si occupava,
o se lavorò con traduzioni, e quali. Inoltre,
quali rapporti intrattenne, oltre che con Guénon,
con studiosi italiani e stranieri delle tradizioni
orientali? Se ci volgiamo a La Tradizione Ermetica,
sappiamo che questo libro per volontà dell’editore
fu ridotto di un terzo, e che Evola dové
rinunciare a molti dei testi che aveva raccolto
e interpretato. Perché allora nel dopoguerra,
quando poteva contare su di un pubblico di lettori
fedeli, non pensò a reintegrare il libro
nella versione originale, e si contentò
di riprodurre l’edizione più divulgativa
del 1931 nelle successive ristampe?
Problemi specifici e particolari si impongono
poi a chi volesse studiare il problema della razza.
Evola fu razzista? Entro quali limiti lo fu? Quali
problemi e quali limiti gli impose la sua adesione
alla politica razziale attuata in Germania e in
Italia? Al giorno d’oggi s’è formata una
storiografia sulla questione ebraica e della razza.
Perciò ci si dovrà chiedere preliminarmente
quale posto occupi e quale significato abbia Il
mito del sangue sia nella storia del razzismo,
sia nella storia della storiografia sul razzismo.
Addentrandosi nell’argomento lo studioso dovrà
distinguere tra l’antisemitismo in generale e
l’antisemitismo che riguarda specificamente l’ebraismo.
Circa il primo è facile rilevare che Evola
non fu per principio antisemita perché
in Rivolta contro il mondo moderno diede un giudizio
positivo sull’Islam e la civiltà da esso
ispirata. Circa il secondo si impongono allo studioso
rigorose distinzioni. Evola non fu un antisemita
fanatico; al contrario criticò l’antisemitismo
fanatico ed i suoi eccessi fino a vedere in essi
qualcosa di molto sospetto. Evola distinse la
tradizione ebraica dall’ebraismo impegnato nelle
rivoluzioni intellettuali e politiche del mondo
moderno. Fu soprattutto all’ebraismo moderno ch’egli
rivolse la sua critica. Ma non per questo fu indotto
a vedere nell’ebraismo moderno la sola ed unica
causa della crisi e della decadenza del mondo
moderno. Per lui il mondo moderno non comincia
con l’ebraismo moderno, ma col Rinascimento, con
la Riforma e col Cartesianesimo. Perciò
non si può attribuire ogni colpa all’ebraismo,
proprio come non la si può attribuire alla
Massoneria o al Protestantesimo. Evola fu uno
studioso dei famigerati Protocolli dei Savi Anziani
di Sion, ma, se vide in essi l’indicazione di
qualcosa che infallibilmente si viene realizzando,
d’altra parte considerò l’ebraismo non
solo come un attore, ma anche come una vittima
della sovversione mondiale. Dall’insieme di tutti
questi problemi, da noi semplicemente accennati
e degni di un adeguato sviluppo, risulta evidente
quanta cautela e quanta capacità critica
richiedono lo studio del problema della razza
in Evola. A quelle indicate si aggiungono altre
difficoltà. Bisognerà valutare criticamente
tutto il lungo percorso che ebbe nella vita intellettuale
di Evola il problema della razza. Questo passò
almeno per tre periodi dagli scritti dell’anteguerra
a quelli del periodo bellico e infine a quelli
del dopoguerra. Oltre ai libri e ai saggi Evola
scrisse numerosi articoli sul problema della razza.
A coloro che vogliano veramente studiare l’argomento,
s’impone anche in questo campo un riordinamento
sistematico ed unitario di tutto il materiale
di studio lasciato da Evola. Inoltre a questo
riordinamento deve seguire una valutazione organica
che collochi ogni intervento di Evola nel tempo
in cui fu scritto, studi l’occasione che diede
ad esso origine, tenga conto degli eventuali interventi
o suggerimenti dei direttori delle riviste e dei
giornali sui quali Evola scriveva, e le eventuali
influenze politiche che poterono spingerlo a trattare
certi argomenti o a presentarli in una particolare
luce. A parer nostro queste sono le condizioni
irrinunciabili di ogni ricerca e di ogni giudizio
che si voglia esprimere con fondatezza sull’arduo
problema del pensiero di Evola.
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L’Islam a viso scoperto.
Note sull’intervista allo sceicco Pallavicini
su Julius Evola
Giovanni Damiano, in 'Margini'
n. 32
Il “Corriere della sera” del
5 luglio 2000 ha ospitato nelle pagine culturali,
dandogli ampio risalto, un articolo-intervista
di Sandro Scabello dedicato a Felice Pallavicini,
che, oltre ad essere presidente di una confraternita
islamica milanese, il Co.re.is., è
ambasciatore della moschea di Roma presso
il Segretariato vaticano per il dialogo interreligioso
e membro del consiglio dei saggi della grande
moschea di Parigi; insomma, si tratta di un
esponente di assoluto rilievo della comunità
islamica italiana, e non solo. Ora, questo
articolo-intervista, che giunge improvviso
e inaspettato (nel senso che nei giorni e
nelle settimane precedenti non erano comparsi
sul “Corriere della sera” altri articoli,
inchieste o commenti in qualche modo attinenti
alle questioni affrontate nell’intervista),
ha un titolo alquanto “strano” (a dir poco):
Pallavicini: Evola, traditore dello spirito.
Ma andiamo con ordine: innanzitutto l’articolo
ricapitola sommariamente la biografia di Pallavicini.
Due dati emergono immediatamente: Pallavicini,
nato nel 1924, esibisce subito un bel certificato
d’antifascismo: è stato partigiano
monarchico ed ha, per di più, rischiato
la fucilazione; inoltre è un seguace
di René Guénon. Non solo, perché,
a quanto si rileva dall’articolo medesimo,
proprio “l’essere sfuggito per un soffio alla
fucilazione”, spinge il Pallavicini ad incontrare...Evola!
Insomma, nonostante il suo “radicato antifascismo”,
Pallavicini si avvicina ad Evola, a quanto
pare per poter “verificare se Evola fosse
davvero il Guénon italiano”. Per inciso,
ma ci ritorneremo, Evola è presentato
come “l’ideatore del razzismo dello spirito”;
in più vengono citate due sue opere:
Imperialismo pagano e Rivolta contro il mondo
moderno (citazioni non casuali, visto che
nella scheda su Evola che accompagna l’intervista
vengono segnalati appunto Imperialismo pagano,
unico testo seguito da un brevissimo accenno
al suo contenuto, accenno relativo alla proposta
di “modelli anticristiani”, 'Rivolta contro
il mondo moderno', 'Il mito del sangue', 'Gli
uomini e le rovine', 'Cavalcare la tigre'1
; non manca, inoltre, essendo ovviamente funzionale
alle tesi avanzate nell’intervista, un riferimento
al processo dei Far). Il resoconto biografico
continua, inframmezzato da descrizioni tanto
retoriche da ricordare certi libri dell’epoca
fascista sul Graziani conquistatore della
Tripolitania (il Pallavicini “a 75 anni, la
lunga barba bianca, ha conservato l’espressione
vigorosa. La tradizionale jallabia che lo
avvolge fino ai piedi ne accentua l’apparenza
orientale”). Pallavicini ammette che è
stato Evola “fra i primi a indirizzarlo verso
l’Islam e il sufismo”, il che è, a
ben vedere, una grande lezione, da parte di
Evola naturalmente, di antidogmatismo e di
ampiezza di vedute. Ma ecco partire le accuse:
Evola sarebbe stato “attaccato dai germi corrosivi
dell’antitradizione”, sarebbe, inoltre, “scivolato
su tendenze occultiste ed esoteriche” costituenti
una mera “parodia della spiritualità”,
sino a giungere “a tradire il pensiero di
Guénon che con la sua ortodossia religiosa
resta il vero depositario della Tradizione”.
Anzi, incalza Pallavicini, in quello che viene
presentato come “un atto di accusa senza appello”:
“la spiritualità, secondo Guénon,
deve riportare l’uomo a Dio, mentre la tradizione
italico-greco-romana serve ad Evola per cementare
il piedistallo politico-ideologico del suo
superuomo senza alcuna finalità religiosa”.
Inoltre, sempre Pallavicini, pur riconoscendo,
bontà sua, che “Evola non è
stato il capo di una banda di dinamitardi”,
arriva ad affermare che “quando si parla di
nichilismo, di Nietzsche, di rivolta contro
il mondo moderno, di superuomo, bisognerebbe
sempre aver presente l’influenza che un certo
tipo di indottrinamento esercita sui giovani.
Da studiosi a teorici del terrorismo il passo
è breve”. L’esito ultimo di un simile
discorso non può che essere radicalmente
negativo: “l’evolismo ha prodotto fascismo,
razzismo e antisemitismo. La rivolta ha senso
solo se alla distruzione segue la ricostruzione,
ma Evola ha badato solo a distruggere, a differenza
di Guénon che ha ricostruito la Tradizione,
ancorandola a valori di purezza celestiale
ed angelica [sic]”.
Fin qui il discorso su Evola. Ma l’articolo-intervista
prosegue. Pallavicini sostiene che “gli stessi
problemi” riguardano il fondamentalismo islamico.
Di qui l’esortazione che “come tradizionalisti
veri dobbiamo combattere il fascismo islamico
[sic], il cancro dei sedicenti fratelli musulmani”,
i quali, incredibile ma vero, sarebbero “imbevuti
delle concezioni di un orientalismo fasullo,
attizzato a volte dagli stessi occidentali,
che vogliono islamizzare il mondo per sottometterlo
ai vari partiti politici”. È chiaro
poi, ça va sans dire, che quello
del Pallavicini è un “Islam interiore,
spirituale”, che non avanza “rivendicazioni
politiche, sociali o nazionali” e che, e non
poteva essere diversamente, rappresenta “l’Islam
ortodosso”. Di poi, parole che dovrebbero
allarmare non poco cristiani ed ebrei, il
Pallavicini continua affermando candidamente
che “per noi sono musulmani anche cattolici
ed ebrei, esprimono diversamente la stessa
fede nello stesso Dio”. Ancora: all’osservazione
riguardante le affermazioni di Don Gelmini
sul pericolo Islam, si arriva all’apoteosi:
“il Servo dell’Unico si liscia la folta barba.
Non perde il sorriso” e così risponde:
“nella religione musulmana non esiste coercizione,
il voler convertire appartiene al fanatico.
Bisogna saper distinguere fra religione e
integralismo”. Eccezionale! Non solo: ovviamente
è la Chiesa cattolica ad avere “un
atteggiamento di chiusura”. All’ultima domanda
sui cattivi maestri di oggi la risposta è
ancora una volta di una sconcertante ovvietà:
i cattivi maestri sono immancabilmente “i
nuovi guru del buddismo, della New Age, dello
pseudozen”. Anzi, conclude Pallavicini, gli
occidentali “dovrebbero tenere a mente le
parole del Dalai Lama: voi occidentali non
avete bisogno di convertirvi, non tanto perché
non c’è più necessità
del buddismo, ma perché non riuscirete
mai a capire la spiritualità orientale”;
così, e servendosi delle stesse parole
del Dalai Lama, il buon Pallavicini cerca
di “scalzare” un pericoloso avversario nella
corsa alle conversioni.
Adesso il commento: innanzitutto è
bene sgombrare il campo da una impostazione
fuorviante, quella, cioè, imperniata
sull’ennesima difesa di Evola dalle accuse
di essere stato il “cattivo maestro” della
destra eversiva. Non ci vuole molto, infatti,
per capire la strumentalità delle accuse
di Pallavicini. Pertanto, rispolverare le
usuali letture sull’Evola del tutto lontano
dal ruolo assegnatogli dal Pallavicini significa
soltanto fare il gioco di quest’ultimo, chiudersi
esclusivamente a difesa e perdere di vista
i più profondi significati contenuti
nell’articolo. Evola, infatti, è un
semplice pretesto per ottenere risultati ben
più sostanziosi. E, d’altronde, basta
poco per dimostrarlo. Accusare l’autore di
Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo
di “occultismo” è semplicemente ridicolo.
Ricordare solo determinate opere evoliane
è chiaramente capzioso. Passare sotto
silenzio il lunghissimo rapporto diretto intercorso
tra Evola e Guénon, testimoniato da
lettere, traduzioni, articoli elogiativi di
Evola (basti ricordare, fra tutti, Un maestro
dei tempi moderni: René Guénon,
apparso nel 1935 su “La Vita Italiana”), collaborazioni
dello stesso Guénon al quotidiano cremonese
“Il Regime Fascista” (collaborazione durata
dal febbraio 1934 al febbraio 1940 e richiesta
personalmente da Evola, per un totale di venticinque
articoli, ora integralmente ripubblicati in
R. Guénon, 'Precisazioni necessarie'.
I saggi di Diorama-Regime fascista, Edizioni
di Ar, Padova, 1988) denota la cattiva fede
del Pallavicini. Mettere assieme, con grande
disinvoltura concettuale, nichilismo, Nietzsche
e il superuomo e la rivolta contro il mondo
moderno è testimonianza certa solo
di una notevole confusione mentale (o di semplice
ignoranza). Veniamo, pertanto, ai punti davvero
decisivi, che sono perlomeno tre: Pallavicini
1) si serve di Evola per promuovere una immagine
rassicurante dell’Islam; 2) attacca Evola
sul versante della Tradizione perché
sa che lo stesso Evola è l’unico ostacolo
ad una piena vittoria dei “guénoniani”
islamici. In breve, una volta “scomunicato”
definitivamente Evola, la Tradizione diviene
libero “territorio di caccia” per i “guénoniani”
islamici; il passo successivo è elementare:
se essere tradizionalisti significa essere
guénoniani e se essere guénoniani
significa essere islamici, è evidente
l’obiettivo che Pallavicini vuole raggiungere;
3) cerca comunque, al di là delle critiche,
di ingraziarsi i cattolici (espliciti, in
tal senso, i rimandi a Imperialismo pagano,
accompagnati ai riferimenti a new age e buddismo,
“correnti” spirituali a cui, prescindendo
ora dal loro effettivo “valore”, la Chiesa
guarda con innegabile timore). E’ poi evidente
che Pallavicini si sia servito dell’articolo-intervista
non solo per far guadagnare spazio alla sua
comunità (il Co.re.is., per intenderci)
all’interno del mondo musulmano italiano,
ma anche per proporsi (o per riaffermarsi
come tale, visto l’incarico che già
ricopre) come interlocutore privilegiato o
comunque affidabile.Tutto questo a danno di
Evola, probabilmente scelto come occasionale,
e in fondo facile, bersaglio, grazie alle
lontane frequentazioni avute con lui dallo
stesso Pallavicini e che servivano per dare,
come dire, un “tocco di autenticità”
alla cosa, il che, è risaputo, non
guasta mai.
Articolando più in dettaglio le riflessioni
sopra riportate: in primis, il tentativo di
Pallavicini di accreditare una immagine assolutamente
non preoccupante dell’Islam è sin troppo
scoperto. Sottolineare, infatti, il razzismo,
il fascismo e l’antisemitismo di Evola non
ha altro significato. Per non parlare poi
del delirante discorso sul fondamentalismo,
in cui, accanto a spropositi pseudocomplottistici
(che può mai significare il parlare
di “occidentali che vogliono islamizzare il
mondo per sottometterlo ai vari partiti politici”?
Debbo confessare che per quanti sforzi abbia
fatto la cosa mi risulta assolutamente incomprensibile),
si ritrovano accuse spinte tanto oltre nella
ricerca di una qualche captatio benevolentiae
da risultare nemmeno incongrue quanto, molto
più semplicemente, grottesche: alludo
al “fascismo islamico”. In tutta sincerità
mi ero convinto, col passare degli anni, che
la moda di etichettare come fascista qualsiasi
cosa non riscuotesse le nostre simpatie fosse
oramai finita. Evidentemente mi sbagliavo.
Di poi, altri dettagli che confermano il quadro
sin qui tratteggiato: il rimando ad un Islam
puramente interiore, sovranamente lontano
da qualsivoglia rivendicazione, alieno dalle
conversioni, scevro da fanatismi, pronto a
riconoscere le altre religioni. Una immagine
da Arcadia, però singolarmente in contrasto,
guarda caso, con l’aumento esponenziale degli
islamici in Italia, con l’edificazione di
sempre nuove moschee, con la continua richiesta
di “piattaforme rivendicative” (tra le tante,
quella sulla scuola, di cui Pallavicini dovrebbe
ben ricordarsi, articolata sui seguenti punti:
uso dello chador nelle aule scolastiche, attenzione,
nelle mense, alle consuetudini alimentari
del mondo musulmano, rigida separazione tra
maschi e femmine durante le lezioni di educazione
fisica, possibilità di studiare il
Corano e, infine, corsi di studio e perfezionamento
della lingua araba). Insomma, si tratta di
una presenza, quella islamica in Italia, che
non mi sentirei proprio di definire “interiore”.
E poi come passare sotto silenzio dei particolari
così preziosi, quali l’affermazione
di Pallavicini che il suo gruppo rappresenta
“la spiritualità ecumenica”? Tanto
ecumenica che, in fondo, “sono musulmani anche
cattolici ed ebrei”. Piccole spie, sulle quali
meditare. In merito a Guénon il discorso
è altrettanto palese. È probabile
che a Pallavicini di Guénon importi
ben poco. Anzi, diciamo meglio: a Pallavicini
la cosa che davvero interessa di Guénon
è la sua conversione all’Islam. Tutto
il resto è secondario. Sarebbe, infatti,
sin troppo facile mostrare la siderale lontananza
di Guénon dalle mitologie della modernità,
oppure sottolineare il fatto che non ha senso
criticare, come fa Pallavicini, la “rivolta”
evoliana contro il mondo moderno in nome di
un Guénon, visto che proprio quest’ultimo
è l’autore di quel limpidissimo atto
d’accusa intitolato La crisi del mondo moderno,
oppure segnalare la straordinaria attenzione
dedicata da Guénon all’induismo o molto
altro ancora. Ma non servirebbe a nulla, perché
tutto il discorso di Pallavicini è
teso esclusivamente all’Islam e, in fondo,
anche Guénon è un mero pretesto,
al pari di Evola. Solo che Guénon,
essendosi convertito all’Islam, è funzionale
alle tesi di Pallavicini. Tutto qui. Per essere
ancora più chiari: tutto l’articolo
è una formidabile manipolazione e di
Evola e di Guénon, in nome dell’unico
e unilaterale interesse che sta davvero a
cuore a Pallavicini: l’Islam. E quel che conta
è poter dire che “Guénon resta
il vero depositario della Tradizione” e che
“come tradizionalisti veri dobbiamo combattere
il fascismo islamico”. Ecco il punto: allontanare
Guénon da Evola, dopo aver previamente
accusato quest’ultimo dei peggiori crimini
ideologici, significa poter rendere credibile
la seguente correlazione: Guénon =
vera Tradizione = antifascismo = vero islamismo.
Il termine ultimo è ovviamente l’Islam,
depurato delle sue “tossine” e reso del tutto
accettabile. E il fatto che il più
diffuso e importante quotidiano italiano si
sia prestato a diffondere il “verbo” di Pallavicini
la dice lunga su quella “accettabilità”.
In via di conclusione: che quella di Pallavicini
sia una prova della forza che oggi le comunità
islamiche mostrano di avere è indiscutibile.
Non si giocano in modo così protervo
e, soprattutto, così manifestamente
“sporco”, le proprie carte se non si è
sicuri di ottenere alti dividendi. Questa
mi sembra una constatazione desolata ma realistica.
A ciò va aggiunto l’alto profilo, per
così dire “istituzionale”, del personaggio
in questione. Ben diverso peso avrebbero avuto
queste dichiarazioni se fossero venute da
un oscuro musulmano. E ben diverso peso, perché
Pallavicini è per di più un
italiano convertito all’Islam e quindi le
sue parole acquistano (e la cosa è
ovviamente voluta) un ulteriore e, diciamolo
francamente, insidioso significato. Però,
more solito, anche da simili occasioni è
possibile ricavare insegnamenti positivi.
Non c’è nemmeno bisogno di molte parole.
Infatti le affermazioni di Pallavicini si
commentano da sole, ma sarebbe davvero grave
se anche uno solo non si accorgesse della
loro pericolosità. Una tale opportunità
non va sprecata. Quella di Pallavicini è
una “scelta di campo” che non dev’essere minimizzata
né, tantomeno, deve lasciare indifferenti.
Adesso si sa a cosa si va incontro. E, ultimo
punto ma essenziale: da dove riceve la forza
Pallavicini? Da cosa viene legittimato? Cosa
c’è dietro Pallavicini? Se Pallavicini
fosse espressione di un gruppuscolo sparuto
e insignificante ci saremmo affaticati nel
denunciare le sue imposture? La risposta è
semplice e drammatica: dietro Pallavicini
c’è l’immigrazione extraeuropea. È
soltanto grazie ad essa che gli islamici hanno
oggi in Italia una forza impensabile già
solo una diecina d’anni fa. E si tratta di
una immigrazione in crescita record (aumento
del 13,8% solo nell’ultimo anno) e con alti
tassi di natalità. Una immigrazione
che non è “una assicurazione sulla
vita per il Bel Paese del terzo millennio”
come si affanna a ripetere il solerte G. Bolaffi
sul “Corriere della sera” del 12 luglio 2000
(è chiaro che per l’ineffabile Bolaffi
l’Italia è soltanto un mero luogo geografico
da ripopolare, indifferentemente, con chiunque)
ma la certa assicurazione della morte dell’Italia,
essendo per noi evidente che una Italia in
cui gli italiani “autoctoni” siano ridotti
a tragica minoranza sarà tutto tranne
che il nostro paese. Questo è quanto,
questo è tutto.
1 Indicazioni
bibliografiche relative ai testi evoliani
citati nella scheda: Imperialismo pagano,
Edizioni di Ar, Padova, 1996; Rivolta contro
il mondo moderno, Mediterranee, Roma, 1998;
Il mito del sangue, II ed., del 1942, accresciuta
e riveduta, Edizioni di Ar, Padova, 1994;
Gli uomini e le rovine, Settimo Sigillo, Roma,
1990; Cavalcare la tigre, Mediterranee, Roma,
1995.
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Lettera
di Julius Evola a Franco Freda
(In occasione della costituzione delle Edizioni
di Ar)
Roma, 3 febbraio 1963
Egregio Sig. Freda
Ho avuto la Sua lettera e La
ringrazio per l’attenzione dedicata alla mia
attività.
Se vedo con simpatia iniziative come quella
di cui Lei mi dà notizia, per il loro
valore, almeno, dimostrativo, non credo tuttavia
di poter andar incontro al Suo desiderio;
le esperienze fatte mi consigliano a non affiancarmi
ormai a nessuna formazione che anche consequenzialmente
partecipi ad una lotta politica.
Il mio punto di vista, oggi, è quello
di cui il mio ultimo libro, “Cavalcare la
tigre”, può dare una idea. Proprio
in questo periodo mi era venuto in mente di
ripubblicare una rivista che già diressi
nel 1930 e che già a quel tempo suscitò
molto rumore, “La Torre”, però col
sottotitolo provocatorio “Quindicinale del
pensiero reazionario e antisociale”. Si sarebbe
trattato di una pura azione aggressiva e di
rottura, anticonformista in ogni senso e su
tutti i piani, senza nessun intento costruttivo:
da “anarchici di Destra”, sullo stile della
rivista “Lacerba” del Papini del 1914, ma
naturalmente con un ben altro sfondo dottrinale,
sia pure tacito. Ma sembra che le condizioni,
soprattutto materiali, per realizzare una
simile iniziativa non esistano.
Con auguri e cordiali saluti
Trascrizione
della lettera originale, riprodotta in:
Julius Evola, L’Idea di Stato, Edizioni di
Ar, 1994.
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Recensioni
Un segno evidente del rinnovato
interesse per l’opera evoliana è costituito
dalla presenza di alcune “voci” dedicate ad
Evola in recenti volumi collettanei. Infatti,
nell’Enciclopedia del pensiero politico, diretta
da Carlo Galli e Roberto Esposito, Laterza,
Roma-Bari, 2000, figura una voce “Evola” a
cura di Francesco Ingravalle, mentre nel Dizionario
delle opere filosofiche, Bruno Mondadori,
Milano 2000, sono inclusi, e ampiamente commentati
da Franco Volpi, due testi di Evola: Metafisica
del sesso e Rivolta contro il mondo moderno.
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P. Di Vona, Metafisica e
politica in Julius Evola, Postfazione
di G. Damiano, Collezione 'gli Inattuali'.
L. 30.000
Il testo di Piero Di Vona rappresenta il primo
contributo organico e analitico dedicato all’esame
della “metafisica” evoliana, nozione spessissimo
richiamata ma sinora mai studiata con rigore
e profondità. Di Vona, oltre ad analizzare
il senso generale della “metafisica” nell’opera
di Evola, si sofferma, con cura e ricchezza
di interpretazioni, sul significato metafisico
del razzismo evoliano, sull’importanza di
Rivolta contro il mondo moderno, testo in
cui traspaiono con la massima chiarezza i
principi metafisici fatti propri da Evola,
sul ruolo e il significato della politica,
sulla scienza della sovversione e, infine,
sul “pensiero finale” di Evola, pensiero che
lo stesso Di Vona rintraccia, con mossa originale,
ne 'Il cammino del cinabro', libro che, di
conseguenza, non è più considerato
semplicemente l’autobiografia di Evola. (F.
Masulli in 'Margini n. 32)
Beniamino M. di Dario, La via romana al
Divino. Julius Evola e la religione romana.
Collezione 'Paganitas', L. 30.000
Con questo studio, l'autore tenta per la prima
volta di ricostruire in maniera organica l'interpretazione
del culto romano e, più in generale,
della civiltà di Roma propria di Julius
Evola. Nel ciclo romano Evola coglieva infatti
la manifestazione di alcuni capisaldi della
sua formulazione dell'idea di tradizione:
le dottrine della regalità e dell'imperium,
la forza impersonale del rito, la via dell'azione.
E' soprattutto su quest'ultima che l'autore
si sofferma ogni qualvolta essa conduca l'interpretazione
di Evola verso determinate conclusioni, marcandone
in tal modo il carattere di "predisposizione".
Nel delineare progressivamente la visione
evoliana del culto e della civiltà
romana, il libro tocca via via questioni imprescindibili,
quali la sistemazione del ciclo romano all'interno
delle complesse concezioni cosmostoriche di
Evola e la comprensione del "significato
ultimo" di Roma, nonché il tema
del rapporto tra Evola e il cristianesimo
- meglio definito dallo svolgersi del suo
"paganesimo" - fino a trattare della
posizione tenuta da Evola nei confronti del
fascismo e del tradizionalismo romano.
G. Damiano, La filosofia della libertà
in Julius Evola. Nota introduttiva di
Roberto Melchionda. Edizioni di Ar, Padova
1998. Collezione Consonanze, pp. 85, L. 18.000
"Il merito principale di Damiano sta
nell'aver saputo ripensare il tema centrale
della filosofia di Julius Evola con mente
libera e direi creativa, e di averlo fatto
alla luce della cultura filosofica contemporanea
più vivace: così da inserirlo
senza sforzo nel mezzo del dibattito in corso
sul nichilismo" (dalla prefazione di
R. Melchionda).
Attraverso un serrato confronto tra il pensiero
filosofico evoliano e gli esiti più
interessanti della riflessione contemporanea
sul nichilismo, Damiano prova a leggere la
“teoria dell’individuo assoluto” come una
filosofia della libertà. Per Damiano,
però, la “libertà” mostrata
dall’individuo assoluto evoliano, non ha nulla
a che fare con le libertà dei moderni:
queste sono concepibili solo all’interno di
un ambito che è già nichilistico,
mentre la libertà che è nel
cuore dell’individuo evoliano è pura
potenza, precedente ogni realizzazione e ab-soluta
da ogni necessità. Una libertà
libera anche dal dover necessariamente essere
se stessa: e quindi sempre in forse, sempre
nel “frammezzo” tra essere e non – essere,
sempre revocabile. Una libertà che
può costituire il principio di una
risposta – sempre rischiosa, mai pacificamente
assicurata - al nichilismo del moderno. (G.
Amendola, in 'Margini' n. 23)
Philippe Baillet, Julius Evola e l’affermazione
assoluta.Introduzione all’opera di Julius
Evola, Edizioni di Ar.
Trascrizione di due conferenze, tenute dall’Autore
verso la metà degli anni Settanta,
il testo sviluppa un’introduzione al pensiero
evoliano, preceduta da essenziali note biografiche.
Da queste pagine emergono alcuni elementi
che mettono in risalto la particolarità
del pensatore, che presentava, già
in giovane età, quell’impulso osservatore
e critico verso la realtà contingente
che lo accompagnerà, poi, per tutta
la sua vita e in tutte le sue opere. Impulso,
c’é da precisare, non orizzontale,
sterile, informe, bensì verticale,
in costante formazione, basato sulla dicotomia
distruttivo/costruttivo - cioè impulso
distruttivo verso gli schemi culturali e sociali
proiettati dallo ‘spirito borghese’; costruttivo,
invece, in senso formativo. Ossia: indirizzato
interiormente verso qualcosa di trascendente,
Evola sarà portato ad avvicinarsi alle
nuove correnti artistiche che nei primi anni
Venti contenevano, almeno apparentemente,
il germe di una rivoluzione culturale ed interiore.
In particolare sarà il movimento Dadaista
ad attrarlo. Il fascino del’abbattimento,
appunto, di tutte le ‘impalcature’ mentali
e comportamentali per giungere ad una totale
affermazione individuale - e l’espressione
artistica era il campo perfetto per la sua
attuazione - , aveva colpito anche il giovane
Evola. Egli però aveva compreso quasi
subito, attraverso riflessioni personali che
assumeranno talvolta aspetti interiori anche
critici, che più che affermazione liberatoria,
il risultato di un semplice smantellamento
delle ‘strutture imposte dall’esterno’, poteva
portare, e nella maggior parte dei casi era
proprio così, ad un ancora più
pericoloso appesantimento dell’ego quale ‘struttura
imposta dall’interno’. Avendo sospettato la
pericolosità di questo incatenamento
del pensiero individuale a se stesso, Evola
comprende che verà libertà si
realizza solo nel successivo e fondamentale
superamento di sé. E se ego vuol dire
‘impropria’ rappresentazione della realtà
quale campo d’azione per l’affermazione dei
propri scopi individualistici - quasi una
battaglia da super-uomo - la direzione da
seguire è quella verso l’alto, al di
sopra dell’ego, oltre gli scopi; anzi, superamento,
anche e soprattutto, dello scopo stesso del
raggiungimento della libertà. Nirvana
è non aver bisogno del Nirvana. Praticamente
quasi un illuminazione. Da qui il giro di
boa di Evola che, allontanatosi dalle correnti
artistiche, si dedica esclusivamente all’approfondimento
filosofico, periodo nel quale cercherà
di dare un’impostazione chiara e ordinata
alle sue intuizioni sul microcosmo umano.
Sono di questo periodo le prime opere importanti.
Continua, inoltre, il suo cammino sulla via
della Tradizione attraverso l’esplorazione
delle varie dottrine sapienziali. Questa sua
ricerca lo porterà, insieme ad altri
illustri studiosi, alla costituzione del gruppo
di ‘Ur’, i cui approfondimenti nell’ambito
dell’esoterismo, ancora oggi, varranno come
veri punti di riferimento generali nel tortuoso
cammino verso la conoscenza.
Al crocevia storico degli anni ‘30/’40, Evola,
alla luce dei suoi studi sulla dottrina dello
Stato e sul principio di Autorità,
esprimerà delle riserve tanto verso
il fascismo che verso il nazionalsocialismo,
considerandoli tentativi incompiuti di restaurazione
di una Stato tradizionale.
Nel dopoguerra Evola continuerà a sviluppare
le sue riflessioni sui principi tradizionali
su due diversi piani: da un lato impegnandosi
nella chiarificazione dei presupposti metafisici
dell’azione politica; dall’altro indicando
i riferimenti interiori per chi volesse affrontare
lo sconvolgimento in atto anche sul piano
esistenziale. (Sante Carini, in 'Margini'
n. 32, aprile 2001)
P. Di Vona, Evola Guénon
Di Giorgio, Sear, L. 65.000
Con questo secondo saggio dedicato al pensiero
metafisico di Guénon, Piero Di Vona
apporta un contributo determinante allo studio
dell'opera del pensatore francese. Già
con il precedente Evola e Guénon (Napoli
1985) l'Autore aveva offerto un significativo
approfondimento dei contenuti dell'opera di
René Guénon, studiata sia in
rapporto al pensiero di Evola, sia nel contesto
della cultura europea della prima metà
del secolo. Un approfondimento la cui importanza
fu posta in evidenza immediatamente da due
lati fondamentali: il primo rappresentato
dalla puntualità e dall'ampiezza che
caratterizzavano la stesura del saggio, come
si conviene ad uno studioso del livello del
Di Vona; il secondo per avere sottratto Guénon
a quei giudizi sommari provenienti dagli ambienti
della cultura cosiddetta 'ufficiale'. Liquidare
Guénon come uno dei tanti scrittori
dell'ambiente occultista francese di inizio
secolo era un'operazione che mostrava la lontananza
che tanti intellettuali europei intendevano
stabilire fra essi e il mondo culturale nel
quale il pensiero di Guénon ha preso
forma. Ma tale posizione - che dopo questo
secondo saggio del Di Vona si mostra ancora
più chiaramente con i caratteri di
un pregiudizio ideologico - celava l'incapacità
di una comprensione, una difficoltà
a ricondurre l'opera di René Guénon
entro il panorama intellettuale dell'Occidente.
Lo studio condotto da Piero Di Vona va proprio
nel senso di una riconduzione, fin dove possibile,
del pensiero di Guénon entro le categorie
concettuali dell'Occidente, e questo soprattutto
in riferimento al discorso metafisico che
l'autore francese sviluppa in diverse opere,
in un arco di tempo di oltre una decina di
anni. Di Vona restringe lo studio a quelle
opere che si occupano direttamente di argomenti
di metafisica: Introduction générale
à l'étude des doctrines hindoues
(1921), La métaphysique orientale (1939,
la cui prima stesura risale al 1925), Le Simbolisme
de la Croix (1931), Les Etats multiples de
l'Etre (1932). In esse vengono messi in risalto
i contatti tra il pensiero dell'autore francese
e la metafisica elaborata in Europa. Quali
elementi della metafisica occidentale, e di
quella moderna in particolare, Guénon
introduce nella sua opera? Quanto nei suoi
testi è derivato dalla sua formazione
occidentale? Quali filosofi si intravedono,
sovente in maniera molto chiara, negli scritti
di uno dei maggiori maestri del pensiero tradizionale?
Guénon non rivela mai, se non in rarissimi
casi, gli autori a cui si riferisce, e tuttavia
alle precedenti domande Di Vona dà
una risposta chiara, in un saggio che appare
subito ben distante, per il tono della scrittura
e per l'esaustività dell'analisi, sia
da quelle impostazioni che sconfinano spesso
in una sterile 'agiografia', sia dalle, altrettanto
sterili, critiche accademiche. Certo, dopo
la pubblicazione di questo saggio noi non
crediamo ingenuamente che il mondo accademico
si aprirà, senza pregiudizio alcuno,
all'opera del pensatore francese, ma riteniamo,
certi di non poter essere smentiti, che quelle
critiche a cui i lettori di Guénon
sono abituati ora avranno anche il limite
di mostrare chiaramente che derivano da una
'semplice' ignoranza. Non si tratta forse
dell'ignoranza del 'profano', del 'laico'?
(M. Pacilio, in 'Margini' n. 23)
Gianfranco de Turris, Bruno
Zoratto (a cura di), Julius Evola nei rapporti
delle SS, Fondazione Evola. Euro
I documenti pubblicati in questo “quaderno”
rendono sempre più chiaro il ruolo
avuto da Evola nella Germania nazionalsocialista,
e dimostrano, altresì, senza equivoci,
l’autonomia di giudizio del pensatore tradizionalista
e la sua mancanza di servilismo, così
come indicano, in modo altrettanto evidente,
la lontananza dello stesso Evola dagli elementi
di modernità presenti nel nazionalsocialismo
(G. D., in 'Margini' n. 32)
Franco Giorgio Freda, Per
un radicalismo di destra: “Cavalcare la tigre”,
in “Tradizione”, 1963.
Si tratta della recensione di F. G. Freda
a Cavalcare la tigre, originariamente apparsa
sul periodico “Tradizione” nel 1963 e poi
ripubblicata in appendice a Ph. Baillet, Julius
Evola e l’affermazione assoluta, Edizioni
di Ar, Padova, 1978, pp. 103-114. La recensione
di Freda s’impernia, oltre che sulla “nozione”
di “uomo differenziato” e sulla necessità
di non inibire bensì di favorire le
forze libere dell’antitradizione, al fine
di affrettare la dissoluzione e di far precipitare
la crisi, sull’analisi di Nietzsche e dell’esistenzialismo
sviluppata da Evola nella parte centrale di
Cavalcare. Inoltre, osservazione cruciale,
l’apolitia evoliana viene letta da Freda come
pathos della distanza ma non come assoluto
divieto dell’azione politica, purché,
ovviamente, tale azione non finisca per “corrodere”
quello stesso pathos. Infine, l’apolitia viene
ricondotta da Freda ad una sorta di “esaltazione
dell’anarchia: di un tipo particolare - a
livello elevato - di anarchia”. E questa ci
sembra davvero una intuizione fondamentale.
(L. Boffa, in 'Margini' n. 32, aprile 2001)
Francesco Germinario, Evola
davanti al ‘68, in “Annali Istituto Gramsci
Emilia-Romagna” 1998-99, n. 2/3.
La destra nel secondo dopoguerra è
fuori dalla realtà politica, sociale
e culturale d’Italia. Vive in una nicchia,
animata da proposte e dibattiti lontanissimi
dalle dinamiche di quegli anni. All’improvviso
la storia viene sorpresa da quell’evento denominato
“il ’68". La destra può rientrare
in gioco, può cavalcare la tigre. Finalmente
nascono proposte e progetti all’altezza dei
tempi, in grado di fornire soluzioni non pateticamente
retrò. Ma Evola, che pure aveva anticipato,
e proprio con Cavalcare la tigre, quei tempi
febbrili e così potenzialmente ricchi
di spazi e alternative, finisce con lo schierarsi
su posizioni conservatrici quando non francamente
reazionarie. L’occasione tramonta (anche per
fattori esterni, sia chiaro, a partire dalla
sempre più forte pregiudiziale “antifascista”
del movimento studentesco). Ma è indubitabile
che Evola abbia contribuito a quel tramonto.
E merito altrettanto indiscutibile di F. Germinario
è quello di aver compreso tutto questo,
pur partendo (o, forse, proprio grazie a ciò)
da posizioni “ideologiche” totalmente altre
da quelle di destra. (L. Boffa, in 'Margini'
n. 32, aprile 2001)
Enrico Ferri, Cavalcare la
tigre e l’individualismo di Julius Evola,
in “La società degli individui”, 1998,
n. 3.
Il testo di Enrico Ferri, di cui siamo venuti
a conoscenza soltanto adesso, è una
sommaria ricognizione dell’individualismo
evoliano a partire dal periodo artistico sino
a Cavalcare la tigre. I punti d’interesse
del testo sono, a nostro parere, i seguenti:
per Ferri quello dell’Evola tradizionalista
non sarebbe personalismo ma pur sempre individualismo
(p. 77), anche se di matrice elitaria e aristocratica;
tra Individuo Assoluto e “uomo differenziato”
ci sarebbe una fondamentale distinzione (p.
80): il primo è in rivolta in nome
di “una libertà anarchica che esalta
le pulsioni interiori e l’istinto”, mentre
la rivolta del secondo farebbe perno sui principi
metafisici e trascendenti della Tradizione
(anche se, alla luce di queste osservazioni,
non si comprende affatto come Ferri possa
scrivere, nella chiusa del suo lavoro - p.
83 - , che quel che avrebbero in comune l’Individuo
Assoluto e l’uomo differenziato sarebbe proprio
“l’affermazione dell’io come superamento della
naturalità, che nell’uomo si presenta
essenzialmente come passione e istinto”);
da ultimo, l’affermazione più interessante,
anche se appena abbozzata e priva di ulteriori
sviluppi: per Ferri (p. 75) in Evola Tradizione
e storia si implicano a vicenda, sono collegate
e addirittura si “confondono” l’un l’altra.
(L. Boffa, in 'Margini' n. 32, aprile 2001)
Francesco Germinario, Con
Evola, oltre Evola. Europeismo, riattualizzazione
del nazismo e nuova identità politico-culturale
della destra negli scritti di Adriano Romualdi,
in AA. VV., Il lungo decennio. L’Italia prima
del 68, Cierre Edizioni.
Già dal titolo traspare chiaramente
l’impostazione di Germinario.Romualdi, invece
di seguire pedissequamente il pensiero evoliano,
avrebbe tentato di andare oltre quello stesso
pensiero. Questa acuta lettura si condensa
nelle battute finali dello scritto (p. 365),
laddove Germinario scrive che la visione di
Romualdi “rifuggiva dalla disperazione antimodernista
dell’evolismo [...], offrendo certamente una
prospettiva più politica all’area radicale
del neofascismo, nella misura in cui si chiamavano
i militanti non alla sdegnosa e aristocratica
contemplazione del tramonto dell’Occidente,
bensì a una nuova stagione che trovava
i propri punti di riferimento negli aspetti
più radicali e attivistici della tradizione
di destra”. (L. Boffa, in 'Margini' n. 32,
aprile 2001)
Piero Operti, L’ultimo libro
di Evola. Gli uomini e le rovine.
Gianbattista Vico ricercò una “storia
ideale eterna sulla quale corrono nel tempo
le storie delle singole nazioni”, e tale ricerca
doveva necessariamente volgersi alla terza
dimensione della storia, al sottosuolo da
cui si sviluppano i fatti di superficie. La
Scienza nuova risiedeva appunto nella integrazione
della storiografia con la filosofia, nella
accezione della filosofia come momento metodologico
della storia, e fecondissime furono le riflessioni
del pensatore napoletano, riassunte in formule
concettose che egli chiamava degnità,
sull’evoluzione dei pubblici ordinamenti dall’età
omerica sino al medioevo e al periodo delle
monarchie pure.
Un medesimo proposito di visione sintetica
e chiarificatrice ispira Julius Evola quando
in Rivolta contro il mondo moderno (2 ediz.
Bocca, Milano, 1951) e ultimamente in Gli
uomini e le rovine (Edizioni dell’Ascia, Roma,
1953) formula la legge della regressione delle
caste, secondo cui un processo involutivo
si sarebbe attuato con il passaggio del potere
politico da originarie caste di capi spirituali
aventi carattere sacrale ad aristocrazie guerriere
e successivamente ad oligarchie mercantili.
Lo scrittore chiama mondo tradizionale quello
governato dalle “élites” del primo
e del secondo tipo, a cui si oppone il mondo
moderno caratterizzato dal tirannico primato
dell’economia, e occorre notare che ai due
termini egli non attribuisce soltanto un significato
cronologico ma li considera anche come due
distinte forme dello spirito umano, presenti
e variamente operanti in ogni tempo.
Predominava nelle civiltà tradizionali
l’elemento sovrannaturale, cioè lo
spirito “concepito non come una astrazione
filosofica bensì come una realtà
superiore e come meta di una integrazione
trascendente della personalità”, mentre
nell’età moderna il razionalismo distruggendo
il principio di autorità e negando
ogni valore superindividuale consegnò
la direzione della società al Terzo
Stato e all’antica casta dei ‘mercanti’, moto
regressivo che non può arrestarsi e
che procede oggi verso il suo compimento che
è la civiltà (o inciviltà)
collettivistica del Quarto Stato.
Chi respinga come reazionaria questa sintesi
storica (la preistoria e la storia delle prime
civilizzazioni è una materia malsicura
nella quale si possono trovare argomenti atti
ad avvalorare le tesi più diverse)
non può parimenti respingere la crisi
dell’Occidente, intorno alla quale da un secolo
si affaticano i pensatori e che ha lontane
radici teoretiche e pratiche nella demolizione
delle normali gerarchie umane.
D’altronde il reazionarismo di Evola ha un
significato trascendente la sfera economica,
poiché nelle contrapposte classi dei
capitalisti e dei proletari egli vede due
facce d’una stessa realtà che è
la “demonia dell’economia”, l’assunzione d’una
categoria strumentale a categoria finalistica,
conseguente alla “invasione barbarica” dell’industrialismo.
L’illusorio miraggio delle conquiste tecnico-industriali,
che egualmente abbacina i due antagonisti,
vela ai loro occhi il deserto spirituale in
cui il materialismo li ha condotti e dove
essi officiano all’ultima divinità
superstite: il progresso, tra i possibili
fasti del quale vi è la distruzione
scientifica dell’umanità.
Nec mala nostra nec remedia pati possumus:
la parola di Cicerone è a buon diritto
applicabile al nostro tempo, e nessuno nega
la crisi, mentre il fatto stesso che della
suddetta possibile distruzione si discorra
e si scriva ovunque con fare tra compunto
e snobistico, prova l’abisso di demenza in
cui siamo precipitati. Lo sterminio atomico
sospeso sul nostro capo si annunzia come l’epilogo
d’un cammino che due secoli or sono prese
le mosse dal “diritto alla felicità”
consacrato nella Dichiarazione di Filadelfia.
Il termine di destra non può attribuirsi
ad Evola se non in quanto egli difende i valori
spirituali che la corsa a sinistra, allora
iniziata, ha quasi interamente distrutti,
difesa disperata poiché, come con verità
lo scrittore osserva, gli stessi uomini disposti
ad arginare la rovina sono più o meno
intaccati dalle tossine del male che essi
vogliono curare, delle quali la cultura moderna
è impregnata.
Nessuno come Evola ha operato su di sé
una disinfezione altrettanto radicale e dispone
di un coraggio mentale paragonabile al suo.
In Gli uomini e le rovine, che si apre con
chiara presentazione del Principe Valerio
Borghese, Evola riunisce sistematicamente
temi che in parte aveva fatto oggetto di trattazioni
giornalistiche.
Di importanza essenziale è il capitolo
dedicato ai concetti di sovranità e
di imperium, dall’autore riferiti a un principio
inderivabile e incondizionato, ordinatore
del mondo umano: istanza contrastata da Massimo
Rocca nel periodico Italia di tutti (30-4-1953).
La critica del Rocca, fondata sulla premessa
immanentisca d’un giusnaturalismo che vede
nella società il soggetto e non l’oggetto
della politica, ripete in sostanza l’obiezione
contro l’immortalità dell’anima sollevata
nel Fedone da Simia, il quale concepisce l’anima
come armonia del corpo e quindi da questo
condizionata. Al discepolo Socrate oppone
che l’anima pur poggiando sulla vita fisica
ha leggi sue proprie, tali da piegare quella
vita a proprii fini. Il rapporto resta valido
sostituendo ai termini corpo e anima i termini
società e Stato, il quale è
da intendersi come l’entelechia, la forma
o principio ordinatore della società.
Tale relazione complementare è riscontrabile
nelle origini di tutti gli organismi politici
ed ha un chiaro esempio nel Regno di Prussia
sorto dall’Ordine dei Cavalieri teutonici
e creatore, o meglio formatore, della nazione
germanica.
Posto questo dualismo di forma e materia della
politica, occorre riconoscere che l’azione
della prima non è necessaria soltanto
durante il costituirsi e svilupparsi dell’aggregato
umano, bensì anche in ogni successiva
fase affinché questo non graviti verso
gli stadi più bassi degli appetiti
e degli istinti elementari. Sotto l’iridescente
vernice del progresso tecnico tale gravitazione
è in atto da quando i dotti hanno fatto
tabula rasa di ogni credenza nel sovrasensibile,
e gli indotti ne hanno tratto le inevitabili
illazioni edonistiche, non lasciando spazio
ad altro ordine che non sia l’instabile equilibrio
dei contrapposti equilibri. Equilibrio così
instabile, che i paesi i quali non siano all’interno
e nelle relazioni esterne lacerati dalle rivalità
e dagli odii costituiscono piccole oasi in
un mondo convulso e sconvolto.
È ancora possibile un arresto del processo
involutivo?
Lo scrittore si richiama talora a una élite
a carattere spirituale, formata da uomini
esprimenti un ideale di virilità immateriale,
dotati di una fedeltà incondizionata,
ascetica, incrollabile all’idea che li accomuna.
Come nell’antica Grecia sarebbe da attendere
un ritorno degli Eraclidi?
Siffatti uomini non possono formarsi nel presente
“clima” che ormai si è diffuso a tutta
la terra senza rispettare alcuna Tule boreale,
e l’esperienza induce a pensare che il ciclo
debba svolgersi sino al compimento e che solo
dalle “rovine” possano sorgere gli “uomini”.
Evola nutre forse la nobile ambizione d’essere
il Socrate che Kierkegaard auspicava per la
nascita d’un ordine nuovo.
(Recensione di Piero Operti apparsa sul Secolo
d’Italia del 13 maggio 1953, e riportata in
'Margini' n. 32, aprile 2001)
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