Cultura
politica
Indice:
- La
leggenda di Ezra Pound
- Dottrina
del Fascismo
- Le
rivolte del Nord e quelle del Sud
- A
proposito del “Disastro di una Nazione”
- Trent'anni
fa un libro di Franco Freda
- Pierre
Drieu La Rochelle, Eresie
- recensioni
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La leggenda
di Ezra Pound
in Margini n. 20
La vita esemplare di Ezra Pound costituisce, nell’attuale
fase di decadenza, un punto di riferimento. Sovente,
però, si conosce l’uomo senza conoscerne
l’opera, che pure è fondamentale nello
sviluppo della poesia moderna e ricca di spunti
nel campo minato degli studi di economia.
Alessandro Tesauro, editore salernitano, inaugurò
la sua casa editrice, sedici anni or sono, con
un preciso riferimento al Poeta: la sigla editoriale
Ripostes ne riprendeva il nome di una raccolta
di versi, e il primo libro pubblicato, Il libro
di Hilda, presentava la prima composizione di
Pound, opera giovanile poco conosciuta in Italia.
A Tesauro abbiamo rivolto alcune domande:
D. - Perchè e come leggere
Pound?
R. - Leggere Ezra Pound direi che è fondamentale.
La sua opera poetica ha ispirato gran parte della
poesia del Novecento. Basti pensare alla beat
generation, che oggi viene riscoperta e rivalutata,
e ai suoi portavoce Ginsberg e Kerouac, che senza
l’influsso di Pound forse non sarebbero nemmeno
esistiti, letterariamente parlando. E tante altre
monumentali opere poetiche del Novecento americano,
da La terra desolata di Eliot al Il ponte di Hart
Crane, al Paterson di William Carlos Williams
etc., sono state scritte sotto la guida di Pound.
Carlo Izzo, studioso e traduttore di Pound scrisse:
“Pound fu il maestro di tutti i poeti vivi del
nostro tempo”.
D. - Come si inserisce, nell’opera
di Pound, il poema Il libro di Hilda?
R. - Il libro di Hilda è un testo giovanile
di Pound ed è sicuramente la sua opera
poetica più immediata. Quando decisi di
pubblicarla, eravamo allora nei primissimi anni
ottanta, ritenevo che il lettore italiano con
questo libro avrebbe potuto avvicinarsi all’opera
poundiana con più facilità rispetto
ad altre opere più mature, come per
esempio i Cantos. Un modo, tutto sommato, per
conoscere Pound soprattutto come poeta, in un
senso forse più tradizionale e, appunto,
più immediato.
D. - Come nasce l’interesse di Pound
per la cultura e la poesia cinese, fino a farlo
divenire traduttore di Confucio?
R. - Tra gli innumerevoli interessi letterari
di Pound, dalla poesia latina e italiana alla
poesia provenzale, dalla passione per Dante alle
teorie esoteriche di W. B. Yeats, primeggiava
senz’altro l’adozione dell’ideogramma cinese,
che egli aveva accolto attraverso gli studi e
le ricerche del sinologo Ernest Fenollosa sul
valore icastico e semantico della forma contrapposta
al suono. Arrivare poi a tradurre l’antica lirica
cinese (rivissuta mirabilmente nella sua opera
poetica Cathay) nonché Confucio, credo
sia stato il giusto coronamento di una grande
passione poetica e filosofica.
D. - Se nella contestazione giovanile
degli anni ’60 si leggeva Pound poeta, oggi una
nuova contestazione ne legge con molto interesse
gli scritti di economia. Queste due forme di espressione
hanno in Pound dei punti di contatto o costituiscono
due esperienze separate?
R. - Leggere Pound oggi solo sotto l’aspetto politico
ed economico può essere riduttivo nei confronti
della sua poesia. Non dimentichiamo che Pound
è e rimane uno dei poeti più grandi
che l’umanità abbia avuto. L’editoria italiana
di questi ultimi anni trascura la stampa di opere
necessarie per la conoscenza dell’uomo-poeta.
I Cantos sono stati pubblicati nella collana Meridiani
Mondadori a un prezzo non accessibile a un vasto
pubblico e l’opera completa delle poesie non è
mai stata tradotta, come pure molti altri testi
letterari.
D. - I Canti pisani sono considerati
lo scritto politico di Pound. Cosa voleva dire
il poeta in quest’opera?
R. - Nei Canti pisani, scritti in una fase della
sua vita molto travagliata, Pound è riuscito
a cogliere il pathos e la commedia dei rapporti
tra l’artista e la società del ventesimo
secolo con precisione assoluta. Tanto l’autocommiserazione
dell’artista, quanto la compiaciuta brutalità
della comunità che lo disprezza, pur avendone
bisogno, si è dissolta in ironia solo al
fine di ricrearsi in una lirica ineguagliabile.
Senz’altro, nel contesto dei Cantos, ne è
la fase più toccante e resta una delle
espressioni poetiche più alte del Novecento.
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Carlo Costamagna,
Dottrina del fascismo, edizioni di Ar,
Padova 1982-1991. Opera in tre volumi: vol. I,
"Il principio dello Stato", pp. 196
(£. 15.000); vol. II, "Il fine dello
Stato", pp. 192 (£. 15.000); vol. III,
"Il valore dello Stato", pp. 112 (£.
15.000)
Nella nota introduttiva al primo dei tre volumi
di questo essenziale trattato, il ´gruppo
di Ar` avverte che la parola fascismo contenuta
nel titolo dell'opera deve considerarsi riduttiva
rispetto alle idee espostevi. Valida ed attenta
osservazione, questa, che permette di situare
il testo di Costamagna in un ´paesaggio`
più ampio di quello evocato dalla sua denominazione:
non solo delle strutture portanti dello Stato
fascista ci parla infatti Costamagna, ma soprattutto
delle architravi ´originarie` della dottrina
del vero Stato.
In effetti, questa lettura dell'opera ci viene
suggerita dall'autore stesso. Il Costamagna ben
sapeva infatti che il fascismo -quanto meno il
fascismo italiano- risultava dal confluire di
elementi dottrinari e ideologici portati dalle
correnti culturali tra loro più distanti,
composti in una forma politica -e in una costituzione
statuale- grazie all'intuito politico e alla capacità
di sintesi pragmatica del Duce.
Ma la costruzione ideologica fascista, fondata
sugli eventi irripetibili della prima guerra mondiale,
sarebbe stata in grado di superare le contingenze
temporali per assurgere alla dottrina in temporale
dello Stato?
Era questo un interrogativo tutt'altro che isolato
nelle menti più illuminate della cultura
fascista. Basti ricordare l'identico quesito posto
da Evola, il quale tentò di darvi risposta
prima mediante l'iniziativa ´super-fascista`
del Gruppo di Ur e poi attraverso riviste d'avanguardia
come " La Torre" e altre. Lo stesso
obiettivo, sotto il riguardo specificamente politologico
e costituzionalistico, animava senza dubbio Costamagna
nello scrivere le pagine di questo trattato.
È così che dalla polimorfa costruzione
statuale fascista Costamagna estrae i tratti più
conformi alla visione tradizionalistica dello
Stato, nella quale gli archetipi della ´polis`
ellenica, dello ´Imperium` romano e della
´Civitas` medievale cristiana confluiscono
in un affresco politico indipendente dalle circostanze
storiche che segnarono il fascismo. E in tempi
come i nostri, nei quali è più avvertita
la crisi delle istituzioni repubblicane postbelliche
-crisi che giunge fino a un consistente e diffuso
ripudio della forma dello Stato unitario-, i principi
di dottrina dello Stato enunciati da Costamagna
non possono non essere definiti ´essenziali`,
giacché riflettono l'essentia divina dell'idea
di Stato.
Nel primo volume ("Il principio dello Stato"),
dense di significati attuali sono le pagine dedicate
al ´soggetto dello Stato`: Popolo, nazione,
razza, etnia sono fattori vitali che sottendono
molteplici forme organizzative statuali. Dalla
nozione di popolo come unità (vi riecheggiano
numerose proposizioni schmittiane), all'idea di
razza come elemento vitale e ´sostanziale`
dello Stato, fino alla prefigurazione di una possibile
"etnarchia imperiale" -ove l'idea di
un impero sopranazionale e polietnico si contrappone
alla sua deformazione grottesca: un imperialismo
sostenuto da un ´governo mondiale ` che
soffoca la pluralità delle culture etniche
avviluppate da una usurocrazia senza volto -,
le suggestioni attuali del pensiero di Costamagna
balzano in piena evidenza. Da queste pagine possiamo
anche cogliere i primi riferimenti al pericolo
di un governo mondiale, pericolo divenuto oggi
presenza mortale.
Nel secondo volume ("Il fine dello Stato"),
l'Autore affronta in particolare due argomenti
con i quali la teoria dello Stato deve confrontarsi:
il rapporto tra Stato e chiesa e quello tra Stato
ed economia. Quesiti non facili che trovano però
convincenti soluzioni in Costamagna attraverso
l'esame delle risposte fasciste: risposte che
l'Autore illustra notando come esse, pur nella
contingenza storica italiana, siano tuttavia conformi
ai canoni politici tradizionalisti. Spinoso problema
è infine l'ultimo affrontato in questo
volume: la necessità di uno Stato garante
di valori etici e politici in temporali (Un tema
questo che fa tremare le vene e i polsi di ogni
vero politico, il quale misuri l'infimo grado
di eticità in cui è piombata la
funzione del moderno Stato oligarchico).
Il terzo volume considera il tema oggi forse più
provocatorio: "Il valore dello Stato".
Sovranità, Autarchia, Gerarchia: attorno
a questi postulati fondamentali ruota la costruzione
dello Stato di Costamagna. Tre capisaldi che,
articolati in forme attuali, appaiono gli unici
in grado di abbattere l'idra mondialista che soffoca
la libertà di ogni Stato-comunità
nazionale. La vera sovranità statale rigetta
infatti qualsiasi influenza egemonica esterna;
l'autarchia (nozione non riconducibile alla stupida
caricatura fattane in tanti anni di becero antifascismo)
preserva l'autonomia nazionale dai ricatti dell'economia
di mercato mondialista; la gerarchia garantisce
la solidità dello Stato e la sua funzionalità.
Naturalmente, a questi assiomi sui quali Costamagna
fonda la sua teoria dello Stato vanno accostate
alcune proposizioni aggiuntive. È questo
il compito che si assumono, con notevole vigore
intellettuale, Ulderico Nisticò e Francesco
Ingravalle, ponendo in evidenza nel loro "Corollario
a C. Costamagna" (appendice al III volume)
nessi e divergenze tra "fascismo e Stato
nazional-popolare" e tra "organicismo,
fascismo e modernità".
Nel primo di questi contrappunti all'opera di
Costamagna, Nisticò nota la mescolanza
tra ideologia rivoluzionaria fascista e confluenza
nelle file del movimento mussoliniano di numerosi
elementi moderati e conservatori. Di fronte a
questo fenomeno, Nisticò rivela come l'opera
di Costamagna abbia inteso attribuire importanza
rivoluzionaria alle strutture politiche fasciste,
onde evitare attraverso la fusione tra fascismo
e Stato e tra Stato e nazione ogni regressione
conservatrice del movimento mussoliniano.
Ingravalle coglie poi un argomento cruciale anche
nei nostri anni e ne fa risalire le origini, le
cause, le contraddizioni proprio al periodo di
passaggio fra l'Italia liberale e quella fascista.
Si tratta della tanto discussa oggi
unità dello Stato italiano e della sua
non corrispondenza con una omogenea realtà
etnicostorica delle genti italiane. Ripercorrendo
le tappe che conducono alla formazione del regno
d'Italia, Ingravalle sottolinea come l'unità
nazionale rappresentasse solo una situazione fittizia
e burocratica, gravitante attorno alla struttura
parlamentaristica liberale, e celasse gravi contrasti
interni alla realtà italiana. I contrasti
tra Nord e Sud, tra industrialismo e mondo rurale,
tra cultura metropolitana (´civiltà`)
e culture contadine, tra tradizioni etniche differenti,
erano -e sono rimasti- ben più radicati
di quanto l'ottusa presunzione liberal-democratica
fosse disposta a riconoscere. È di fronte
a un complesso sociale potenzialmente esplosivo
che lo Stato liberale soccomberà, lasciando
via libera al nascente fascismo. Paradossalmente,
Ingravalle accenna a una originale interpretazione
della cultura fascista: intriso di connotati nazionalistici,
il fascismo ha vinto in Italia, dove esisteva
una nazione propriamente intesa. Da qui il tentativo
di Costamagna: fondare lo Stato nazionale non
più sui presupposti, parassitari e oligarchici,
liberali, bensì su una connessione organica
e unitaria, ove tra guida politica e massa popolare
esistesse una immedesimazione diretta e totale,
di là dai burocratismi democratico rappresentativi
che avevano contrassegnato il regno d'Italia.
Uno spunto, questo di Ingravalle, che merita attenzione,
in quanto suggerisce i possibili esiti di una
crisi dello Stato liberal-democratico vissuta
già in Italia nel 1920 e ripropostasi in
termini alquanto affini pure nei giorni nostri.
(da Libraria, catalogo delle Edizioni di
Ar)
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Le rivolte
del Nord e quelle del Sud
G. Savoini, V. Campagna
in "Margini"
n. 31, aprile 2000
Il ritorno nella realtà
politica e sociale dell'elemento “localistico”
- dovuto non solo ad una reazione agli aspetti
economici del processo di globalizzazione,
ma anche al riaffiorare delle identità
etniche - ci ha indotto a rivolgere alcune
domande a esponenti di movimenti etnici: G.
Savoini (giornalista della Padania) e V. Campagna
(responsabile del Movimento Italia Meridionale;
autore,per le Edizioni di Ar, della Rivolta
di Battipaglia; direttore editoriale di Alburno).
D. - Quanto è rilevante
il fattore immigrazione nel processo delle
trasformazioni globalizzanti?
R. (Savoini) - Dietro il fenomeno dell'immigrazione
extracomunitaria di massa si celano gli interessi
più o meno occulti delle lobbies mondialiste.
Il progetto di Governo Unico Mondiale verrà
attuato soltanto dopo la distruzione, l'annichilimento,
l'omologazione delle identità dei singoli
popoli che compongono il continente europeo.
Per questo motivo i potentati economici dell'Alta
Finanza cosmopolita si servono dell'immigrazione
come arma micidiale per sovvertire gli equilibri
sociali, culturali ed etnici del nostro continente.
L'Immigrazione non è un fenomeno inarrestabile,
come propagandano gli scribacchini, i nani
e le ballerine di regime. L'immigrazione può
e deve essere fermata aiutando i popoli in
via di sviluppo a casa loro.
R. (Campagna) - L'immigrazione rappresenta
l'atto finale di un processo livellatore delle
differenze esistenti tra i popoli, condotto,
inizialmente, nel far desiderare un mondo
di eguali in cui la felicità è
rappresentatadai beni di consumo prodotti
dalle multinazionali. L'ultimo ingranaggio
livellatore rischia, però, di incepparsi,
in quanto moltissimi immigrati rifiutano la
società occidentale, innalzando il
vessillo della loro fede musulmana...ma ciò
rappresenta il capitolo di un'altra lotta
che noi dovremo sostenere, sia che abitiamo
nell'Italia meridionale che nell'estrema punta
Nord della Scandinavia, per difendere la nostra
cultura di europei.
D. - Il Nord e il Sud hanno
dato risposte diverse, ma ugualmente significative,
agli sconvolgimenti sociali degli ultimi decenni.
Il Sud con le rivolte degli anni '60, il Nord
con la creazione di un modo nuovo —etnico—
di intendere la politica. Vi è possibilità
che oggi il Nord e il Sud si battano assieme?
R. (Savoini) - Sicuramente la possibilità
di difendere al meglio le identità
dei popoli padani e italiani passa attraverso
una comunione di intenti tra le forze migliori
del Mezzogiorno e della Padania. La Lega ha
dimostrato di non voler perdersi nei rigagnoli
di un anti-meridionalismo retorico e demagogico
e auspica che il Sud possa realmente ribellarsi
all'assistenzialismo e tornare orgogliosamente
protagonista del suo destino. Altrimenti la
Padania ha la forza di fare da sola. E lo
farà.
R. (Campagna) - Se si condivide che l'Italia
è un piccolo satellite del pianeta
mondialista, si condividerà anche che
chiunque pensi di poter condurre da solo la
lotta contro il processo di globalizzazione
o è un illuso o appartiene a quel progetto
mondialista che finge di voler combattere.
Il settentrione e il meridione d'Italia non
hanno alternative: devono organizzarsi autonomamente
ma condurre uniti la lotta. Se per l'editore
Franco Freda —imprigionato per aver previsto
e denunciato, dieci anni fa, l'invasione della
criminalità straniera— si fosse proceduto
contestando tutt'insieme l'assurdità
di processare le idee, invece di difendere
i propri interessi politici di parte, oggi
avremmo avuto una prima piccolissima vittoria
contro il mondialismo.
D. - In un libro di recente
pubblicazione Elogio delle differenze. Per
una critica della globalizzazione (Edizioni
di Ar), L'Autore chiarisce i molteplici aspetti
attraverso i quali si svolge il processo di
globalizzazione. Può darci un suo parere
sintetico su queste tesi?
R. (Savoini) - I veri razzisti sono coloro
che negano le differenze etniche e culturali
tra i popoli. Il “politically correct” che
domina in Occidente è oggettivamente
un pensiero razzista che non tiene conto del
fallimento del “melting pot” negli Stati Uniti,
ovvero nel quartier generale del mondialismo.
I padanisti, così come tutti i movimenti
identitari europei, elogiano le differenze
e non vogliono, che in nome del mercato senza
regole, alle radici tradizionali si sostituiscono
i falsi miti materialistici e consumistici
che trasformerebbero il territorio europeo
in un degradato falansterio di meticci rimbecilliti
dall'ideologia del benessere materiale (che
peraltro sarà goduto solo dalle élites
e dai miliardari). Viva le differenze, dunque.
Abbasso l'egualitarismo che, dopo la sbornia
marxista-leninista, miseramente evaporata,
si è reincarnato negli esegeti del
mondialismo e della società multirazziale.
R. (Campagna) - Condivido, totalmente, l'analisi
di Giovanni Damiano nella sua opera Elogio
delle differenze. Infatti la globalizzazione
economica è solo un aspetto di quella
perversa logica volta ad imporre un modello
generale unico per tutti e in tutti i vari
aspetti della vita: culturale, polititca,
sociale etc. Ritengo, comunque, difficile
tradurre in pratica questi concetti, in quanto
l'uomo moderno si illude di essere tanto più
libero quanto più è schiavo
del sistema materialista consumista. L'unica
possibilità di evadere dalla gabbia
della globalizzazione è di riscoprire
la propria storia, la propria cultura, e di
amare la propria Terra come elemento non causale
della propria nascita.Tra i vari difetti ,
l'italiano meridionale ancora ha il pregio
di essere legato alla propria Terra e di non
aver accettato, del tutto, il dominio dell'economia
sulla propria vita, come ben illustra Ulderico
Nisticò nel suo Prontuario oscurantista
(Edizioni di Ar).
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A proposito
del “Disastro di una Nazione”*
S. Verde, in 'Margini' n. 33, gennaio 2001
Il silenzio dei grandi economisti
di questo paese -non solo di quelli che
fanno la spola fra la cattedra e
gli incarichi politici, ma anche di
quelli che si dicono professori ‘puri’,
cioè privi
di ambizioni politiche e di
aspirazioni alle consulenze del
settore pubblico- su un tema di fondamentale
importanza qual è quello della
eliminazione del settore pubblico (e di
buona parte di quello privato) dall’‘ancoraggio’
nazionale (ossia dal mantenimento di buona parte
dell’economia italiana in mano italiana),
sarebbe sorprendente se il veleno liberista, che
tanto colpisce oggi la classe politica e quella
imprenditoriale, non fosse asceso
all’empireo del dogma pseudoscientifico.
Quell’empireo, che vanamente i vari Adam
Smith e David Ricardo cercarono di scalare
nel XVIII swecolo, allo scopo di permettere
all’industria inglese di dominare
il mondo e di impedire
l’industrializzazione tanto dell’Europa
continentale quanto dei neonati Stati Uniti
d’America.
Creatosi, con il crollo dell’Unione Sovietica,
il clima adatto, sulle basi gettate
dalla ’scuola’ monetarista di
Milton Friedman e da tutti i ragionieri-’economisti’
allevati nelle varie banche centrali
di emissione, BRI, Banca Mondiale, oltre che nel
FMI e nel GATT (1), era inevitabile
che la classe politica si arrendesse
a discrezione, se questo era (e lo era) il prezzo
da pagare. Un prezzo che essa ha puntualmente
pagato, o meglio, che ha pagato il popolo
che bovinamente le aveva -e le ha- affidato
il proprio avvenire.
Si è tanto parlato, a proposito dell’industria
di Stato, di “carrozzoni” di cui
l’IRI rappresentava l’esempio maggiore.
Nessuno discute la necessità di risanare
quel pozzo senza fondo, in cui si
scorgeva una gestione catastrofica sopra
tutto di Finsider e Finmare. Ma una cosa
è il risanamento, ben altra cosa, invece,
è la liquidazione; Era possibile risanare?
Riguardo all’Italsider, se si tiene conto
che i deficit erano causati sopra
tutto da gravosissimi oneri bancari,
da approvvigionamenti a prezzi eccessivi
e dalla pletora di mano d’opera, la
risposta deve essere affermativa:
certo, era possibile risanare.
Per azzerare gli oneri bancari,
sarebbe stato sufficiente fornire alla gestione
i mezzi necessari al normale funzionamento, a
interesse zero. Eventualmente -come già
si usava praticare nei confronti degli Enti
Locali- tramite la Cassa Depositi
e Prestiti, dato che la grande liquidità
(proveniente dal risparmio postale) di quest’ultima
lo avrebbe facilmente consentito.
Per ridurre fino al 50% gli
oneri del personale, sarebbe bastato
attrezzare con le ultime applicazioni tecnologiche
gli impianti e la movimentazione,
nonché eliminare le assunzioni
clientelari e le assurde remore interne
imposte da sindacati ebbri di demagogia.
Per approvvigionarsi a prezzi
di mercato, sarebbe stato opportuno
operare mediante aste trasparenti, anziché
agire sulla base di tangenti. Inoltre
si sarebbe dovuto, da una parte,
puntare maggiormente sui nuovi processi
di produzione e sugli acciai speciali; dall’altra,
diversificare ulteriormente le fonti,
acquistando magari le migliori ‘maniere’ estere.
(Giappone docet). Anche per quel che riguarda
il gruppo Finmare la risposta non può che
essere affermativa. Per riportare ordine nei suoi
conti sarebbe bastato -in difetto di idee
originali- copiare il “know how” e la tecnologia
giapponesi -e/o quelli della cantieristica norvegese-
tanto in materia di organizzazione del lavoro
quanto in fatto di flessibilità di
rotte, di gestione dei container, di riduzione
dei tempi morti di permanenza
nei porti o in navigazione; si sarebbe
inoltre potuto curare una migliore
dinamica nell’acquisizione degli ordinativi e
nello sfruttamento dei volumi di carico.
Tutto ciò, senza dimostrare alcuna
sudditanza nei riguardi di committenti eccellenti
o di clienti politicamente protetti.
In entrambi i casi (Finsider e Finmare), una immediata
messa in disponibilità dei fondi di dotazione
avrebbe fatto risparmiare -con o senza il ricorso
alla Cassa Depositi e Prestiti- migliaia di miliardi
di interessi passivi.
Il medesimo discorso vale, mutatis
mutandis, per le altre imprese del
Gruppo IRI.
A quel punto, ovvero a risanamento ottenuto,
si sarebbe anche potuto vendere -però,
a imprese o a consorzi italiani (o a maggioranza
nazionale), con notevoli ricavi per
l’Erario e, quindi, per il contribuente,
mantenendo così in Italia la “cabina di
pilotaggio”. Ma tant’è... Attraverso Mario
Sarcinelli (2), Bankitalia aveva evidentemente
già promesso (3) agli uomini
della Finanza internazionale la svendita
del patrimonio degli Enti di Stato -quindi....bisognava
ottemperare!
Nel suo saggio, il Venier
sintetizza alcuni aspetti del disastro dell’industria
italiana, rivelando nella propria
agile ricognizione una lucidità e
una acutezza che di rado si riscontrano
pure nelle rare analisi anticonformistiche di
questo tema. Di ciò, tutti gli italiani
-o meglio tutti gli italiani che, pensando,
rimangono pensosi di fronte alla sorte di questa
Nazione- debbono essergli grati.
La materia, in realtà,
meriterebbe un’analisi più vasta
e articolata, attraverso uno studio complessivo,
munito di tabelle a confronto e -elemento,
questo, non meno importante- integrato da un
‘libro bianco’ (o ‘nero’?), redatto
dai principali protagonisti della
galassia IRI. Un ‘libro bianco’scritto sopra
tutto da coloro che, fra questi ultimi,
non furono pedissequi esecutori di ordini politici
e di ‘ukase’ della Finanza.
Certo, sarà vano attendersi un testo
siffatto da uomini come Romano Prodi che,
dopo aver rappresentato in Italia gli interessi
della “Goldman & Sachs”, venne nominato
presidente dello stesso
IRI: con quei risultati -a suo
dire- “straordinari”, che tuttavia non
impedirono la liquidazione del Gruppo a condizioni
catastrofiche non solo per l’erario ma anche
per l’indipendenza industriale e navale
nazionale, per le maestranze, e per
una miriade di professionalità irrecuperabili.
Possa quindi questo saggio di Antonio Venier essere
il primo di una più ampia letteratura specializzata.
E siano resi al medesimo autore la simpatia
e l’omaggio che meritano i pionieri
della ricerca, in campi dove chi si avventura
deve combattere non solo contro i muri
di gomma ma, sopra tutto,
contro l’ostilità ostinata di chi
sapendo non osa parlare.
* Note al testo di Antonio Venier,
Il disastro di una nazione. Saccheggio dell’Italia
e globalizzazione, presentazione di Bettino Craxi,
collezione ‘Le due bestie’, pp. 160, Edizioni
di Ar, 2000.
(1) Tutte istituzioni, queste, agli
ordini delle varie Lazard Bros, Lehman Bros,
Goldman & Sachs, First Boston, Warburg &
Co., Hong Kong ¦ Shanghai B. Corp.,
Rothschild etc., con contorno di Deutsche
Bank, Parisbas, UBS, Mediobanca etc.
(2) Universalmente noto, costui, peò
non essersi mai opposto, nella sua
qualità di vicepresidente della Banca
europea di ricostruzione e sviluppo, alle
follie del suo infausto presidente Jacques Attali.
(3) Nei primi anni ’90, a bordo del panfilo reale
“Britannia”?
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Trent'anni fa un libro di
Franco Freda
Tra gli scritti che hanno segnato
la generazione che si disse neo-fascista, o come
fu altrimenti detta, appartenente alla destra
radicale negli anni immediatamente seguenti il
'68, una speciale importanza riveste quello che
Franco Freda pubblicò trent'anni fa con
il titolo "La disintegrazione del sistema".
Il testo, scritto con innegabile stile e qualitativamente
di molto superiore a quanto mediamente caratterizzava
la letteratura politica dell'estrema destra dell'epoca,
appartiene alla fase utopica e sostanzialmente
impolitica di questo medesimo ambiente, così
come si espresse all'indomani del '68. Il sistema
del quale Freda predicava e intendeva perseguire
la distruzione era il sistema borghese. Si trattava
di un progetto talmente ambizioso che l'autore
non esitò a divulgarlo in forma di percorribile
progetto operativo, ma che all'epoca destò
ben pochi consensi e, semmai, rimediò invece
qualche sarcasmo. Secondo quel progetto, veniva
avanzata, nei confronti di certi settori della
sinistra "rivoluzionaria", un'esplicita
richiesta di alleanza tattica, al fine di creare
un unico fronte comune antiborghese. Ho detto
tattica, perché in termini strategici il
"vero Stato" a cui faceva riferimento
Freda - già allora coerente discepolo di
Platone - per il suo carattere comunistico-aristocratico,
non poteva certo essere confuso con gli obbiettivi
di una sinistra anarcoide e collettivistica. Si
trattava di un'ipotesi di lavoro assolutamente
utopica e certamente provocatoria. Servì,
se non altro, a chiarire chi veramente a destra
e a sinistra faceva una politica antisistema nei
fatti e non solo a livello retorico. Inutile ricordare
l'accoglienza che una simile proposta ebbe a sinistra,
in quegli anni di iper-antifascismo militante.
La superiorità e l'ulteriorità del
discorso e della prospettiva a cui faceva riferimento
Freda, rispetto ai tentativi di disintegrare il
sistema borghese perseguiti da sinistra, dopo
trent'anni risultano evidenti e acquisiti una
volta per tutte. Sarebbe interessante e istruttivo
il confronto tra i percorsi paralleli di un Toni
Negri e di Freda; ne emergerebbe l'insufficienza
dell'analisi sociologica e filosofica intrapresa
dalla sinistra più o meno marxiana. Questo
perché il sistema borghese non si disintegra
modificando la struttura economico-produttiva
della società, come pretende e presumeva
il marxismo al quale faceva riferimento la "Contestazione"
di sinistra; il problema andava indagato andando
alle radici di esso. E' a quest'indagine che si
prestò Freda. Ora tutti abbiamo capito
che il sistema borghese, come dimostrato da un'ampia
letteratura che prende le mosse anche in ambito
scientifico con i nomi di Weber e Sombart, è
soprattutto e prima di tutto un sistema di vita,
un'etica, un certo ordine di principi e di valori;
in una parola, una concezione del mondo.
La superiorità delle analisi di Freda,
che rappresentarono - peraltro - uno dei tentativi
più interessanti di oltrepassare Evola
- L'Evola de "Gli uomini e le rovine"
e di "Cavalcare la tigre", in particolare
- rispetto alle analisi della sinistra cosiddetta
rivoluzionaria, spiegano, almeno in parte, la
ragione per la quale, mentre nei confronti degli
ex terroristi rossi, anche se omicidi confessi,
il sistema da anni manifesta indulgenza e comprensione,
nulla di lontanamente simile, invece, nei confronti
dell'Autore di "Disintegrazione". Anzi,
al contrario, perché nei confronti di Freda
la più recente repressione ha assunto toni
e aspetti, se possibile, ancora più odiosi,
inaccettabili, nei confronti dei quali anche qualche
benpensante democratico e liberale ha finito per
reagire. Il sistema ha riconosciuto che il discorso
di Freda era più pericoloso dei vari terroristi
alla Curcio; ben più radicale dell'analisi
di un Toni Negri, proprio perché andava
al cuore della concezione del mondo borghese,
solo modificando la quale sarebbe ipotizzabile
l'evocazione di un'altra forma di società.
Da qui l'autodifesa violenta, inaudita sferrata
dal Sistema, attraverso la servizievole opera
dei solerti "Custodi" togati della sua
ortodossia.
A tutto ciò si aggiunga il fatto che dopo
il 1990 Freda, con il suo Sodalizio denominato
Fronte Nazionale, si è avventurato in quel
terreno minato che è la questione dell'immigrazione.
Non sono bastate agli inquisitori tutte le precisazioni
intorno al significato che dal Sodalizio veniva
attribuito al concetto di razza; Freda andava
a contrastare il progetto perseguito dalle forze
del mondialismo di trasformare l'Europa in una
società multirazziale e multietnica. Ancora
una volta il sistema si è sentito toccato
nel punto nevralgico e ha reagito. Nei confronti
del Fronte Nazionale e soprattutto di Freda la
più ortodossa delle procure d'Italia, quella
di Verona, si è resa protagonista di uno
dei più arroganti processi alle idee di
quest'Italia cosiddetta democratica e liberale.
Utilizzando la consulenza dello storico comunista
Enzo Santarelli, questa Procura è riuscita
a far condannare Freda in nome della Legge Scelba
e del famigerato Decreto Mancino. Si è
trattato di un processo alle idee in grande stile
e orchestrato secondo una regia ancora più
subdola, perché questa volta mancavano
i riflettori della grande informazione.
Siamo così arrivati alle cronache di questi
ultimi anni e alla verità che esse ci insegnano:
il sistema non si è disintegrato affatto.
Quasi tutti coloro che a vent'anni ne volevano
la distruzione, ora in esso sono perfettamente
integrati e omogenei. Avrebbe detto Nietzsche
che "nella vita si diventa sempre ciò
che si è". Non è questione
di moralismo, la mia: è semplicemente una
constatazione. Il borghese come "tipo",
nel senso attribuito alla parola da JUEnger, ha
vinto e ora predomina ovunque. La grande utopia
di Freda si è dissolta o si è solo
eclissata? Impossibile dare una risposta. Nonostante
tutto ancora esistono uomini capaci di sottrarsi
alle lusinghe del sistema borghese. Ricordare
oggi quel libriccino di trent'anni fa non può
avere nulla di intellettualistico; non si tratta
di un divertissement, di un nostalgico tuffo nel
proprio passato di aspirante rivoluzionario, per
chi, ormai, è alle soglie dei cinquant'anni.
Deve valere ancora una volta la regola già
indicata da Evola secondo la quale: ciò
su cui non posso nulla, nulla possa su di me.
Se non sarà possibile disintegrare il sistema,
quanto meno, si cerchi di non vedere disintegrato
il nostro io, radice metafisica dell'uomo integrale.
G. Perez, in Linea
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Pierre Drieu
La Rochelle, Eresie, Edizioni di Ar, Padova
1988, pp. 70. E. 6,20
Cercare di comprendere Drieu La Rochelle è
un pò come cercare di afferrare una meteora:
sfavillante di luce, essa percorre il suo cammino
bruciando se stessa nell'immane sforzo del suo
tragitto. Così Drieu attraversa la scena
politica e culturale del XX secolo: è difficile
riuscire a cogliere la totalità del suo
pensiero, aperto a tante letture trasgressive
ed a volte contraddittorie, senza farsi prendere
da una vertigine profonda - la vertigine di chi
percepisce l'aspetto più profondo del pensiero
di Drieu: la lotta alla decadenza, sia essa umana
che culturale e politica. La decadenza... Nella
estrema tensione di condurre una battaglia contro
questo male che avviluppa la civiltà europea,
indicando le possibili -ma mai definitive- alternative,
Drieu sacrifica se stesso: in una testimonianza
che non lascia insensibile un lettore alla cerca
anch'egli di una stella polare che ne illumini
il cammino nelle tortuose (e mal frequentate...)
contrade della modernità.
"Ebbene, la solitudine è la via del
suicidio o, almeno, la via della morte. Certo,
nella solitudine, si può godere del mondo
e della vita più di quanto non si possa
fare altrimenti; si può apprezzare molto
di più un fiore, un albero, una nuvola,
gli animali, gli stessi uomini che passano al
largo e le donne. Comunque, la solitudine è
già la discesa attraverso cui ci si perde
nel mondo". Questo breve passo tratto dal
Récit secret, è una chiave di lettura
importantissima per gli scritti di Drieu: è
la testimonianza vivissima del suo travaglio interiore,
Drieu "attraversa" il mondo, come un
Viandante medievale, ne svela i più reconditi
aspetti -ma tende continuamente ad un obiettivo
ben delineato, che nella sua sfera esistenziale
si trasfigurerà nella scelta del suicidio
come ultimo monito e testimonianza di fedeltà
e coerenza.
In tutti gli scritti di Drieu troviamo presente
questa ansia inespressa, questa cerca continua
di fede e destino: così è, per esempio,
anche nel protagonista dello stupendo romanzo
di Drieu pubblicato da Ar, L'uomo a cavallo. La
decadenza... "Sono diventato fascista perché
ho misurato i passi della decadenza". Così
scrive Drieu, mostrando la sua adesione a una
parte politica e la fedeltà che lo condurrà
nell'angusto mondo dei vinti fino alla morte.
Ma l'adesione di Drieu al fascismo fu l'adesione
di coglieva in questo movimento non l'aspetto
contingente, spesso contraddittorio e a volte
assai discutibile, bensì la dimensione
metapolitica, anzi metastorica: quella della lotta
alla decadenza in nome di valori forti, radicati
nel profondo della stirpe.
Nella antologia curata da Francesco Campanella
per le edizioni di Ar, v'è concentrato
tutto Drieu. Gli scritti raccolti furono composti
negli ultimi anni della guerra, quando ormai l'esito
dello scontro titanico fra democrazia e fascismo
stava giungendo al tragico epilogo. Troviamo in
queste pagine un Drieu tutt'altro che scoraggiato,
che pur non si arrende sul futuro dell'Europa
e tenta di avvertire disperatamente i segni di
una possibile rinascita proprio nel momento più
cupo, più buio. Nel far questo, Drieu scandaglia
a fondo, quasi con disperazione, la propria anima
per ritrovare i motivi che avevano provocato la
sua scelta ideale e per coglierne l'intemporalità
e il valore perenne.
In questa opera, quasi di testimonianza, Drieu
non usa il fioretto, ma la sua spada. Per cogliere
l'immutabile, frantuma molti idoli politici del
tempo: anche fra quelli appartenenti alla sua
parte politica, che forse fraintese il suo generoso
sforzo - dal momento che vari articoli oggi pubblicati
da Ar vennero a suo tempo censurati dalle autorità
tedesche. Le critiche di Drieu e le sue esaltazioni
creative hanno un punto focale in cui convergono:
un punto "sopra e fuori" della terra,
un punto al quale l'autore può proporre
le sue interpretazioni, dimostrando la sua volontà
di mantenersi distaccato da preconcetti e schematismi.
Le interpretazioni e le analisi di Drieu sono
frutto di una mente libera, dimostrandosi raramente
in linea con quelle dei regimi politici ai quali
egli si affiliò. Interpretazioni eretiche,
certo: ma esse colgono nel segno i motivi più
profondi delle scelte di una generazione.
Dalle pagine di questa raccolta emergono numerose
diagnosi che hanno poi trovato il consenso della
storiografia più attenta. Ad esempio, per
Drieu il nazionalsocialismo fu una rivoluzione
del nichilismo: ci sono voluti quarant'anni perché
la politologia ufficiale si rendesse finalmente
conto dell'importanza trasgressiva e rivoluzionaria
del movimento crociuncinato: né di destra,
né di sinistra. L'opzione di Drieu fu radicalmente
rivoluzionaria: "Ho pensato di diventare
comunista, per spingere verso la decadenza, verso
la fine di tutto, per mettere tutti al muro -
soprattutto il popolo [...]. E ad un tratto, c'è
stato il fascismo. Tutto ridiventava possibile,
povero il mio cuore!".
Se questa fu la tensione che animò Drieu
fino alla fine non possiamo dimenticare il lascito
che il tormentato scrittore francese ci ha lasciato
in alcune fra le pagine più belle e drammatiche
di questa antologia. Pagine, queste, che subivano
la censura proprio perché Drieu vedeva
più in là dei suoi contemporanei.
"La Germania poteva suscitare l'interesse
dei popoli alla sua presenza, permettere loro
di vederla da un'angolazione diversa da quella
dell'occupante, solo facendo di questa presenza
una presenza rivoluzionaria. I tedeschi non interessavano
in quanto tedeschi, non più degli inglesi,
americani o russi: ciò che interessa è
ciò che gli uni e gli altri possono apportare.
Gli uni il comunismo, gli altri la democrazia
capitalista; i tedeschi dovevano imporre il socialismo.
[...] C'è un'invocazione in quel terrore
che, nel 1940, aveva preceduto l'arrivo della
armate tedesche: si credeva che fossero armate
rivoluzionarie. Purtroppo non è successo
niente: erano solo armate di altri tempi. [...]
Ora è tempo che i tedeschi non solo proclamino,
ma realizzino il socialismo europeo sulle rovine
d'Europa. Perché in mezzo a queste rovine
c'è ancora la nostra anima da difendere.
Il momento peggiore è quello migliore".
Drieu vedeva lontano. Anche noi oggi viviamo nel
"momento peggiore". La testimonianza
di Drieu ci è preziosa nel nostro cammino:
solo chi conosce il passato più lontano
potrà conquistare il futuro.
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G. Brandes. Friedrich
Nietzsche o del radicalismo aristocratico.
Traduzione dall’inglese a cura di Antonio Ingravalle;
nota introduttiva di Francesco Ingravalle. Edizioni
di Ar, Padova 1995. Collezione Consonanze, pp.
132, con 3 ill., £. 20.000.
Brandes fu, di Nietzsche, attento lettore e interlocutore,
come tra l’altro dimostra l’epistolario, qui integralmente
riportato. Non è quindi un caso che Brandes
sia stato anche il destinatario di uno di quei
“biglietti della follia” che rappresentano l’estremo
congedo di Nietzsche. Ma merito indiscutibile
di Brandes fu l’essere stato uno dei primi a diffondere
l’opera nicciana attraverso corsi universitari,
conferenze e studi critici. Questi ultimi, qui
tradotti per la prima volta in italiano, inaugurarono
la letteratura critica su Nietzsche, in un periodo
in cui l’opera del filosofo tedesco era pressocché
sconosciuta al grande pubblico. Infine: il titolo
del libro. Come ebbe a dire Nietzsche (lettera
a Brandes del 2 dicembre 1887): “l’espressione
radicalismo aristocratico che Lei impiega è
ottima: mi permetta di dirlo, è la cosa
più intelligente che abbia letto sinora
sul mio conto”.
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Alfred Baeumler, L'Innocenza
del divenire, Edizioni di Ar, euro 25,00
La Germania dionisiaca di Alfred
Baeumler
Il profeta del ritorno alle radici
della Grecia presocratica, quando valeva la prima
devozione agli dei dell’Europa
Alfred Baeumler fu il primo filosofo
tedesco a dare di Nietzsche un'interpretazione
politica. Prima di Jaspers e di Heidegger, che
ne furono influenzati, egli vide nella Germania
"ellenica" pensata da Nietzsche la raffigurazione
eroica di una rivoluzione dei valori primordiali
incarnati dalla Grecia arcaica, il cui perno filosofico
e ideologico veniva ravvisato nel controverso
testo sulla Volontà di potenza. Asistematico
nella forma, ma coerentissimo nella sostanza.
In una serie di scritti che vanno dal 1929 al
1964, Baeumler ingaggiò una lotta culturale
per ricondurre Nietzsche nel suo alveo naturale
di pensatore storico e politico, sottraendolo
ai tentativi di quanti - allora come oggi -, insistendo
su interpretazioni metafisiche o psicologizzanti,
avevano inteso e intendono disinnescare le potenzialità
dirompenti della visione del mondo nietzscheana,
al fine di ridurla a un innocuo caso intellettuale.
Ora questi scritti di Baeul1Ùer vengono
riuniti e pubblicati dalle Edizioni di Ar sotto
il titolo L'innocenza del divenire, in un'edizione
di alto valore filologico e documentale, ma soprattutto
filosofico e storico-politico. Un evento culturale
più unico che raro nel panorama dell'editoria
colta italiana, così spesso dedita alle
rimasticature piuttosto che allo scientifico lavoro
di scavo in profondità.
Inoltre, l'edizione in parola reca in appendice
Una postilla di Marianne Baeumler, consorte del
filosofo, in cui si chiariscono i temi della famosa
polemica innescata da Mazzino Montinari, il curatore
di un'edizione italiana delle opere di Nietzsche
rimasto famoso per i suoi tenacissimi sforzi di
edu1corarne il pensiero, sovente deformandone
i passaggi culminali.
La polemica, vecchia di decenni (data dall'insano
innamoramento della "sinistra" per Nietzsche,
tra le pieghe dei cui aforismi cercò invano
consolazione per l'insuperabile dissesto culturale
e ideologico, precipitato nella sindrome del "pensiero
debole"), è tuttavia ancora di attualità,
stante il mai superato stallo del progressismo,
non ancora pervenuto ad un' onesta analisi del
proprio fallimento epocale e quindi dedito da
anni a operazioni di strumentale verniciatura
della cultura europea del Novecento. È
anche per questo che il breve scritto di Marianne
Baeumler acquista un particolare significato,
anche simbolico, di raddrizzamento dell' esegesi
nietzscheana, dopo lunghe stagioni di incontrollate
manomissioni interpretative.
Effettivamente, una falsificazione di Nietzsche
è esistita - soprattutto in relazione alla
Volontà di potenza ma non dalla parte di
Elisabeth Nietzsche, bensì proprio di coloro
che, come Montinari e Colli, si studiarono di
trasformare l'eroismo tragico espresso da Nietzsche
con ruggiti leonini nel belato di un agnello buonista:
uno sguardo alla postfazione del curatore e traduttore
Luigi Alessandro Terzuolo, basterà per
rendersi conto, testi alla mano, della volontà
di mistificazione ideologica lucidamente perseguita
dai soliti noti, con esiti di aperta e democratica
contraffazione.
Negli scritti (studi, postfazioni, saggi estratti
da altre opere) raccolti in L'innocenza del divenire,
Alfred Baeumler misura la forza concettuale di
Nietzsche in relazione alla storia, al carattere
culturale germanico e al destino della cultura
europea. Egli individua come ultimo elemento di
scissione lo spirito borghese, che si è
inserito sotto la dialettica hegeliana per operare
una sciagurata sovrammissione tra mondo classico
antico e cristianesimo, ottenendo così
un nefasto obnubilamento tanto del primo quanto
del secondo. Un procedimento, questo, che Nietzsche
riteneva decisivo per la perdita di contatto tra
cultura europea e identità originaria.
Una catastrofe del pensiero che si sarebbe riverberata
sul destino europeo, consegnato al moralismo e
sottratto all’autenticità, per cie prima
speculative e poi politiche. Solo in quella nuova
Ellade che doveva essere la Germania; preconizzata
prima dalla cultura romantica e dalla sua sensibilità
per le tradizioni mitiche popolari, poi da Holderlin
e infine da Nietzsche, si sarebbe realizzata,
secondo Baeumler, la riconquista dell'unità
dell'uomo, finalmente liberato dalle intellettualizzazioni
razionaliste e ricondotto alla verità primaria
fatta di mente, di corpo, di volontà, di
lotta ordinatrice, di eroismo dionisiaco, di legami
di storia e di natura, di verginità di
istinti e di slanci, di serena convivenza con
la tragicità del destino, di oltrepassamenti
verso una visione del mito come anima religiosa
primordiale, come superumana volontà di
potenza. Col suo duro lavoro di studioso, è
come se Baeumler ci restituisse, insomma, il vero
Nietzsche. II profeta del ritorno alle radici
di popolo della Grecia pre-socratica, quando valeva
la prima devozione agli dèi dell'Europa,
secondo quanto cantò HolderIin, in un brano
ripreso non a caso da Baeumler nel suo Hellas
und Gennanien uscito nel 1937: "Solo al cospetto
dei Celesti i popoli / ubbidiscono al sacro ordine
gerarchico / erigendo templi e città..
.".
La pubblicazione degli scritti di Baeumler - dovuta
all'unica casa editrice italiana che si stia metodicamente
interessando al filosofo tedesco, volutamente
occultato in omaggio ai perduranti blocchi mentali
- si inquadra nello sforzo culturale di porre
termine, per quanto possibile, alla stagione delle
dogmatiche falsificatorie. Un decisivo documento
che va in questa stessa direzione è, tra
l'altro, il recente lavoro di Domenico Losurdo
su Nietzsche come ribelle aristocratico. Pubblicare
Baeumler - come le Ar hanno fatto anche coi precedenti
Estetica. e Nietzsche filosofo e politico - significa
lasciare tracce eloquenti di quel contro-pensiero
intimamente radicato nell'anima europea e incardinato
sulla denuncia del modernismo progrossista come
finale maschera del caos, che oggi o viene semplicemente
ignorato per deficienza di mezzi intellettuali,
o viene piegato alle esigenze del potere censorio,
oppure viene relegato tra le voci della dissonanza.
Il che, nella logica del pensiero unico, significa
condanna e diffamazione.
(Luca Lionello Rimbotti, in Linea, 1/12/03)
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G. Compagno, L'identità
del nemico. Drieu La Rochelle e il pensiero della
collaborazione, Liguori. Euro 12,39.
Com'è noto il “collaborazionismo” fu un
fenomeno tipicamente francese non solo per la
sua estensione - si calcola che circa quattro
milioni di persone cooperarono con i tedeschi
- , ma anche per la qualità delle adesioni,
contemplando intellettuali e scrittori di fama
( Céline, Brasillach, Chateaubriand, Benoist
- Méchin, Giono, ecc.). Gli odi, i rancori,
le vendette private che seguirono l'entrata degli
Alleati a Parigi, sortirono i propri effetti anche
nel dopoguerra (carcere, condanne a morte, emarginazione
culturale, ecc.), perpetuandosi sino ai nostri
giorni. Basta pensare alle abituali levate di
scudi che accolgono la riedizione dei libri di
questi scrittori “maledetti” o l'eventuale organizzazione
di convegni che li riguardino. Non si può
dunque non salutare con sollievo ogni serio tentativo
di riflessione che, scevra da tensioni di parte,
tenti quantomeno di approfondire anche le ragioni
dei vinti. Lo studio di Giuliano Compagno, avvalendosi
di un notevole apparato critico che spazia da
Schmitt ad Heidegger, da Girard a Bataille, da
Kunnas a Sternhell, si pone l'obiettivo di valutare
in tutta la sua complessità la figura e
le scelte politiche di uno dei più noti
scrittori francesi dell'entre-deux-guerres: Drieu
La Rochelle, morto suicida il 16 marzo 1945.
(S. Giuliano, in 'Margini n. 23)
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