VINCENZO SALERNO

La “Commedia” di Dante
in Inghilterra

Da Geoffrey Chaucer a W. M. Rossetti

Prefazione di
Tommaso Pisanti

LIBROITALIANO
Editrice Letteraria Internazionale

ULTIMO NOVECENTO

 

Prefazione

È stato, ed è, un dantismo di prim’ordine quello fiorito, con abbondanti frutti, nella “pallida Albione”. E “volgere Dante in inglese è diventata un’attività molto praticata in questo paese” – scrisse R. Weiss, l’autore di Humanism in England. È comunque un fatto, come che sia, che in nessun’altra lingua Dante è stato così tradotto e studiato. Un lungo itinerario, da Geoffrey Chaucer, che fece dei grandi trecentisti italiani i suoi esemplari autori, a T. S. Eliot che, con Ezra Pound, ha rilanciato in pieno Novecento, Dante e dantismo come valori “militanti” e sempre attuali.
E, nei secoli intermedi, risplendé il dantismo romantico: dalla visionarietà di Blake alla basilare traduzione di Henry Francis Cary e di Keats, e all’acuto saggismo di S. T. Coleridge (col Foscolo, intanto, esule in Inghilterra). E il raffinato Dante dei “preraffaelliti” e di Dante Gabriel Rossetti, il poeta–pittore, e del fratello William Michael Rossetti.
Si ferma qui l’accurata e nitida ricerca che il giovane Enzo Salerno consegna ora alle stampe. Culture e letterature vanno sempre più indagate, si sa, nell’intreccio arduo e fascinoso dei reciproci influssi, degli incontri e confronti. La via della comparazione, insomma. E lo studio di Enzo Salerno, che potrà magari essere continuato fino ad includere anche gli ulteriori sviluppi del dantismo britannico, va proprio, e con successo, in quella direzione.


Tommaso Pisanti

Università di Salerno
Bianca

Dante e la Commedia in Inghilterra
prima della traduzione di Cary
Bianca

“Dante and Shakespeare divide the modern world between
them (…) Shakespeare gives the greatest width of human
passion; Dante the greatest altitude and the greatest depth”

T. S. Eliot, Essays on Dante
Bianca
I – L’Inghilterra e Dante

I.1 – La geografia dell’isola nelle opere di Dante

Poche sono le indicazioni geografiche che Dante offre, attraverso le sue opere, dell’Inghilterra. Nel De Vulgari Eloquentia1 i fines Anglie costituiscono il limite occidentale dell’area linguistica dello ‘iò’, mentre l’Anglicum mare2 è il confine nord–occidentale della lingua d’‘oil’. Nell’Inferno e nel Purgatorio vengono nominati il Tamigi e l’Inghilterra3.
E’ possibile che Dante avesse attinto notizie sulla geografia dell’isola dal Tresor di Brunetto Latini e, forse, anche dalla consultazione delle carte di viaggio di qualcuno dei tanti mercanti toscani che, in questo periodo, avevano con l’Inghilterra proficui scambi commerciali. A Firenze, infatti, si importavano grosse quantità di panno e lana inglesi e a Londra, in quegli stessi anni, era stato aperto un banco di cambio fiorentino4.


I.2 – Gli Inghilesi

Il popolo inglese è indicato dal poeta col termine volgare inghilese, parola che compare due volte nel Convivio5 e una volta nella Commedia 6.
Inoltre, come ha giustamente osservato Toynbee, “per caso, o forse anche a disegno, dato il ben noto amore di Dante per la simmetria, l’Inghilterra è rappresentata in ognuna delle tre Cantiche della Commedia; ciascuno dei tre regni, Inferno, Purgatorio, Paradiso, conta tra i suoi cittadini un inglese ed uno solo”7.
Nel canto XII dell’Inferno8, appena sceso nel settimo cerchio dei violenti, Dante incontra Guy de Montfort, un’ombra dall’un canto sola, figlio di Simone, conte di Leicester, e di Eleonora, figlia di re Giovanni d’Inghilterra. Guy, vicario di Carlo d’Angiò in Toscana, per vendicare l’assassinio del padre9, voluto dal sovrano inglese Edoardo I, aveva ucciso il cugino del re Enrico di Cornovaglia in grembo a Dio, vale a dire nella chiesa di San Silvestro a Viterbo, il 13 marzo del 1291. L’ombra, solitaria, è collocata dall’Alighieri nel primo girone del settimo cerchio, dove i violenti sono immersi fino al collo nel Flegetonte, il fiume di sangue bollente. Appare comunque poco chiaro il motivo per cui il poeta presenta l’ombra di Guy de Montfort in disparte. Secondo Benvenuto da Imola “propter singulare maleficium enormiter commissum”, mentre nell’esegesi di altri commentatori tale rappresentazione, di un’ombra dall’un canto sola, si spiegherebbe con la nazionalità di Guy, “inglese e, dunque, estraneo all’Impero”.
Ancora nella prima Cantica Dante ricorda un altro episodio della storia inglese, la ribellione contro Enrico II Plantageneto del primo figlio, Enrico III, conosciuto come il “giovane Re”10. Istigatore del giovane Enrico sarebbe stato, secondo una notizia priva di fondamento storico, il trovatore Bertram dal Bornio, signore di Hautefort, punito nella nona bolgia dell’ottavo cerchio tra i seminatori di discordia.
E’ lo stesso Bertram che, con in mano il proprio capo mozzato, dichiara:

E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al Re giovane i ma’ conforti.
Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli.
Inf., XXVIII, vv.133–136.

Nella valletta dell’Antipurgatorio Sordello, che guida Dante e Virgilio, indica al poeta fiorentino il re de la semplice vita, seduto in solitudine, Arrigo d’Inghilterra11. Figlio di Giovanni Senzaterra, Arrigo III succedette al padre nel 1216 regnando fino al 1272, anno della sua morte. Villani lo ritiene “semplice uomo di buona fe’ e di poco valore”12 mentre Dante lo considera più fortunato nei suoi discendenti quando dice questi ha ne’ rami suoi migliore uscita, riferendosi al figlio Edoardo I. Soprannominato il “Giustiniano inglese”, Edoardo è ricordato, sempre dal Villani, come “uno de’ più valorosi signori e savio de’ cristiani al suo tempo, e bene avventuroso in ogni sua impresa, di là da mare contra i Saraceni, e in suo paese contra gli Scotti, e in Guascogna contra i Franceschi”13.
Nella terza Cantica, tra i regnanti cristiani indegni, l’Alighieri annovera l’Inghilese folle, forse ancora Edoardo I, o forse semplicemente un sovrano inglese che combatteva contro gli scozzesi.

Lì si vedrà la superbia ch’asseta,
che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
sì che non pò soffrir dentro a sua meta.
Par., XIX, vv.121–123.

Lo Scotto è, con molta probabilità, il re scozzese Robert Bruce. I due regnanti, secondo l’aquila che qui parla, non sopportano di restare nei confini dei propri paesi, assetati dalla superbia e resi folli dalla voglia di predominio che li spinge a continui scontri. L’identificazione di entrambi i personaggi ha comunque destato non poche difficoltà e, ancora oggi, l’esegesi storica del passo appare incerta.
Sempre nel Paradiso, tra le anime dei sapienti, Dante colloca il Venerabile Beda, autore dell’Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum, insieme al magnus contemplator scozzese Riccardo di San Vittore:

Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro
D’Isidoro, di Beda e di Riccardo
che a considerar fu più che viro.
Par., X, vv.130–132.

I due religiosi vengono nuovamente citati dal poeta nelle Epistulae. Nella lettera ai cardinali italiani14, infatti, Dante rimprovera ai dotti della chiesa di trascurare le opere di Beda e di altri Padri, mentre nella celebre epistola a Cangrande della Scala15 il priore Riccardo, per il De Contemplatione, è ricordato con Agostino e con Bernardo per meglio chiarire la condizione dell’excessus mentis, propria dell’esperienza mistica.


I.3 – Sull’ipotesi di un soggiorno di Dante in Inghilterra

A lungo si è discusso di un probabile soggiorno dell’Alighieri in Inghilterra16. La tesi, sostenuta soprattutto dai dantisti britannici Edward Hayes Plumptre e William Ewart Gladstone, era argomentata principalmente su indicazioni di commentatori antichi e, in particolar modo, si basava su un’affermazione del Boccaccio, il quale dichiarava, in un carme del 1359, indirizzato al Petrarca e premesso alle sue Esposizioni sopra la Comedia17, che Dante fu “...Parisios demum serusque Britannos”. Unitamente all’autore del Decameron venivano citati anche due punti del commento alla Commedia di Giovanni da Serravalle che presentavano Dante studente ad Oxford e a Parigi: “...Dilexit theologiam sacram, in qua diu studuit tam in Oxoniis in Regno Angliae quam Parisiis in Regno Frantiae; (...) Dantes se in juventute dedit omnibus artibus liberalibus, studens eas Paduae, Bononiae, demum Oxoniis et Parisiis”18. E infine un passo della Cronica del Villani in cui, molto genericamente, si affermava che “...Dante, giovane, andossene allo studio a Bologna, e poi a Parigi, e in più parti del mondo”.
Secondo il Dean of Wells Plumptre, autore anche di pregevoli versioni in lingua inglese del Canzoniere e della Commedia, l’ipotetico viaggio sarebbe avvenuto tra il 1285 e il 1289, ovvero gli anni che vanno dal matrimonio di Beatrice alla battaglia di Campaldino. In questo lasso di tempo il poeta sarebbe stato in Francia e da lì poi si sarebbe imbarcato alla volta dell’Inghilterra. Tra i motivi che avrebbero spinto l’Alighieri a visitare l’isola, lo studioso adduce il debito culturale nei confronti del doctor mirabilis Roger Bacon, che fortemente aveva influenzato Dante con i suoi studi scientifici19.
Di contro, la tesi di Gladstone20, che pure fu apprezzato come traduttore degli episodi di Ugolino, di Piccarda e del Pater Noster recitato dai superbi nel XI del Purgatorio, propone un soggiorno dell’Alighieri ad Oxford per ragioni di studio e colloca la permanenza in Inghilterra negli anni dell’esilio, insistendo molto sui riferimenti a personaggi e vicende della storia inglese presenti nella Commedia. Infatti tali richiami costituirebbero, per il dantista, un’evidente testimonianza della familiarità del poeta con l’isola britannica.
Tuttavia, i biografi moderni del ‘bardo’ fiorentino sono concordi nel ritenere il viaggio e il soggiorno inglese una semplice congettura dei cultori di Dante d’oltremanica, una tesi molto suggestiva ma, di certo, assai poco probabile.
II – Presenza di Dante nella letteratura inglese fino a Cary

II.1 – Chaucer

L’interesse per Dante iniziò assai presto in Inghilterra. La sua influenza si ritrova, a poco più di cinquant’anni dalla morte, nell’opera di Geoffrey Chaucer, il primo grande versificatore in middle English. Profondo conoscitore della tradizione poetica francese e di tutto quanto il Medioevo aveva filtrato del mondo classico, Chaucer fu subito affascinato dalla letteratura italiana trecentesca e dalla poesia dell’Alighieri, che si apriva ai suoi occhi come una perfetta summa teologica, mitologica e filosofica. Il poeta inglese rielaborò ciò che aveva appreso dall’illustre fiorentino e dagli intellettuali italiani in funzione della sua poesia, che fissava la propria indagine principalmente sull’individuo, sulla sua psicologia e sul suo universo ‘sociale’.
Chaucer fu in Italia due volte, nel 1372 e tra il 1378 e il 1379, quando probabilmente acquistò una copia della Commedia. Tracce dantesche si trovano già nei primi componimenti21, nel frammento in terza rima Complaynt to his Lady e, in particolare, in The House of Fame. L’incipit dell’opera rimanda, palesemente, ad un luogo della Commedia. Il poema si apre, infatti, con una discussione sui sogni e, dopo l’invocazione rivolta al dio del sonno, il poeta–protagonista “Geffrey” si ritrova nel tempio di Venere. Uscito di là, egli è rapito da un’aquila d’oro, “this egle (...) that shon with fethres as of gold”, che lo porta alla Casa della Fama. Similmente Dante, la notte precedente il suo ingresso nel Purgatorio, sognava di essere portato in volo da un’aguglia nel ciel con penne d’oro. In molti casi le parole dell’aquila, guida del poeta inglese, sembrano riecheggiare i consigli del mentore di Dante, Virgilio. Chaucer dà l’impressione di usare la Commedia a mo’ di enciclopedia, da cui estrapolare suggestioni, immagini e situazioni. A tale proposito Mario Praz 22 ha sottolineato il fatto che il poeta inglese spesso scioglie i versi danteschi dal loro “legame musaico” e li colloca, come “pietre preziose”, tra i suoi. In realtà, la House of Fame doveva essere, nelle intenzioni di Chaucer, la descrizione di un pellegrinaggio ultraterreno e la Commedia costituiva una fonte e un modello validissimo. Bisogna, tuttavia, tener conto anche delle sostanziali diversità delle due opere.
Anzitutto la differenza del metro. L’ottonario usato da Chaucer, ereditato dalla poesia d’‘amor cortese’, non solo non era in grado di assicurare il tono ‘serio’ della terzina dantesca, ma creava, talora, un andamento ‘burlesco’, quasi da ‘parodia’. Lo stesso viaggio ultraterreno compiuto dai due poeti è inteso in maniera diversa. Per l’Alighieri, infatti, il pellegrinaggio nei regni dell’aldilà era cosa vera, realmente accaduta: “allegoria” e “lettera”, nella Commedia, si compenetrano perfettamente, poiché, come si legge nel Convivio23, l’allegoria dei teologi ha per fondamento la lettera delle Sacre Scritture, che è veritiera e indiscutibile. Chaucer ricorre, invece, al topos medievale del sogno. Dante, secondo Praz, doveva sembrare al “borghese e realistico” letterato inglese una sorta di “divinistre”, un ‘indovino’ che raccontava di luoghi e persone che non aveva visitato né incontrato.
Anche l’aspetto politico, fondamentale nella Commedia, è trattato in modo marginale nella House of Fame. Dante legge la crisi radicale del suo tempo in chiave teologico–politica, individuandone le cause nella decadenza del papato e dell’impero. Non a caso, infatti, lungo tutto il corso delle tre Cantiche, polemizza con imperatori e papi, chierici e politici illustri, attraverso il racconto degli eventi storici più importanti di cui sono stati protagonisti. Diversamente Chaucer, che pure visse in un periodo travagliato della storia inglese–la fine delle corvées feudali, i primi statuti, lo spopolamento delle campagne a causa delle pestilenze e i difficili anni del regno di Riccardo II– non sembra affatto influenzato da simili questioni. Solo di rado, in questo come in altri suoi scritti, l’autore de’ La Casa della Fama fa riferimento a avvenimenti o a precise vicende storiche.
Ancora reminiscenze e richiami ai versi del ‘padre della lingua italiana’ si ritrovano in due poemi successivi, The Parliament of Fowls e Troilus and Cressida24. Ma l’influenza della Commedia si manifesta, in maniera abbastanza evidente, nell’opera più famosa di Chaucer, i Canterbury Tales. In particolare nel Monk’s Tale, dove l’Alighieri è citato come “The grete poete of Itaille– that highte Dant”25, Chaucer narra la storia De Hugelino Comite de Pize, con modalità però assai differenti dall’‘originale’ dell’Inferno. La vicenda è raccontata in terza persona, si insiste soprattutto sulla crudele morte dei figli di Ugolino e l’episodio funge piuttosto da commento che non da parafrasi dei versi della Commedia. L’Ugolino del poeta inglese, che piange insieme ai figli, assume un carattere sentimentale, forse privo di autentico spessore tragico. Diversamente, in una dimensione di “assoluta terribilità”, appare il medesimo personaggio nella versione italiana. Immerso nel lago ghiacciato al fondo dell’Inferno, rodendo il teschio dell’arcivescovo Ruggieri, il conte di Pisa ‘rinovella’ il suo disperato dolor a ciglio asciutto, rendendo in questa maniera più toccante e dunque più tragico il suo racconto.
L’immagine migliore per comprendere la differenza di stile e di tono dei due episodi è suggerita ancora da Mario Praz: “I versi di Chaucer hanno andatura d’idillio. Egli ci presenta un quadretto di genere al modo olandese, accanto alla fosca acquaforte che è l’episodio dantesco”.26 Se la tragedia narrata da Dante assurge a dimensione “cosmica”, quasi da tragedia greca, in Chaucer diviene invece “tragedia domestica”: una famiglia che muore di fame27.
Sempre nei racconti di Canterbury, precisamente nel Prologue to the second Nun’s tale, Chaucer, con l’invocatio ad Mariam, traduce parzialmente la preghiera di San Bernardo alla Vergine dell’ultimo canto del Paradiso28. Il testo inglese risulta però, in sostanza, una traduzione libera, alquanto ridotta rispetto alla preghiera della Commedia.
La distanza tra la poesia dell’Alighieri e quella di Chaucer diviene manifesta proprio attraverso queste novelle e, a ragione, Harold Bloom giudica i Canterbury Tales una “scettica critica di Dante”,29 un’opera che allontana il Pellegrino di Canterbury dal fiorentino, Pellegrino dell’Eternità, e che ribadisce l’incompatibilità sostanziale tra le due personalità poetiche.


II.2 – Tra Chaucer e Milton

Nei due secoli che dividono la poesia di Chaucer da quella di Milton30 l’attenzione per Dante e per la Commedia si riduce molto, anche se Toynbee ha rintracciato, in questo arco di tempo, circa duecento esempi di citazioni e di parziali traduzioni dell’Alighieri. Ancora vivo l’autore de I Racconti di Canterbury, John Gower, amico del poeta e da questi molto stimato31, nella raccolta di novelle in distici di ottonari Confessio Amantis, nomina il “poeta de Italia qui Dantes vocabatur”.
Alcuni anni dopo la morte di Gower, nel 1417, il vescovo di Fermo Giovanni dei Bertoli da Serravalle compie la prima traduzione in latino della Commedia. L’opera è dedicata al vescovo di Bath, Nicholas Bubwith, e a Robert Hallam, presule di Salisbury, entrambi incontrati durante il concilio di Costanza e che avevano esortato Giovanni da Serravalle alla traduzione32. Il latino, lingua dotta della Chiesa, è ancora largamente adoperato nella letteratura inglese del Quattrocento soprattutto per la stesura di opere religiose, unitamente al francese, che, diversamente, è preferito per i componimenti poetici del genere della letteratura cortese. Un altro contemporaneo di Chaucer, John Lydgate33, nella sua raccolta di tragedie The Falle of Princis fa riferimento a Dante e alla Commedia “...whose thre bokes the great wonders tell / of hevyn above, of purgatorie and of hell”34.
Bisogna tuttavia aspettare circa un secolo, in pieno Umanesimo, per incontrare, di nuovo, un’opera che testimoni una certa influenza dantesca: il poema è The Dreme, del 1528, e la ‘mano’ quella dello scozzese David Lyndsay35. Molte sono le analogie con la Commedia, come il viaggio di un poeta nei regni ultraterreni, una guida femminile, l’incontro del protagonista con illustri personaggi defunti del clero e della nobiltà e la descrizione di sfere celesti. Gli umanisti inglesi, i cortigiani–intellettuali e i versificatori di corte di Enrico VIII, nel loro lavoro di riscoperta critico–filologica del patrimonio classico, rivalutarono anche la poesia italiana, traendone preziose indicazioni, stilistiche e di contenuti, che adoperarono in toto nei loro componimenti. In questo senso è perciò comprensibile il grosso interesse di alcuni poeti del tempo, in special modo Thomas Wyatt e Henry Howard, conte di Surrey36, per le liriche dantesche e del Petrarca.
Secondo Friederich37 il primo esempio, dai tempi di Chaucer, di traduzioni parziali dalla Commedia viene però offerto nella seconda metà del XVI secolo, esattamente nel 1568, dall’elisabettiano William Barker in The Fearful Fansies of the Florentine Couper, versione in lingua inglese del dialogo I ragionamenti di Giusto Bottaio da Firenze dello scrittore toscano Giovanni Battista Gelli. Altro letterato che in quegli stessi anni mostra una discreta conoscenza della produzione poetica di Dante è John Harington38.Noto in Inghilterra per aver tradotto l’Orlando Furioso, Harington cita l’Alighieri, in una raccolta postuma39, chiamandolo “the pleasant learn d’Italian Poet Dant” ma soprattutto compie la prima traduzione, in terza rima, dei versi iniziali della Commedia.
Nel breve periodo della reazione cattolica, durante il regno di Mary “la sanguinaria”, al ‘dotto’ fiorentino –“an italian writer against the Pope” – si era richiamato John Foxe40. Questi, nell’opera Book of Martyrs aveva sottolineato soprattutto il fatto che Dante spesso polemizzasse con le tre specie di “nemici della verità”: Papi, ordini religiosi e decretalisti. Similmente il vescovo di Salisbury, John Jewel, anch’egli espatriato negli anni della sovrana cattolica, citando il v. 149 del XXXII canto del Purgatorio, traduce l’epiteto che il poeta toscano usa per Roma, “the whore of Babylon”41.
Sul finire del secolo John Florio42 – che insegnò lingue ad Oxford, fu amico di Giordano Bruno e forse anche di Shakespeare – in questi termini si esprime a proposito dei protagonisti del Trecento italiano: “Boccace is prettie hard, yet understood; Petrarche harder, but explaned; Dante hardest, but commented. Some doubt if all aright”43.
Friederich comunque ritiene sintomatico della scarsa considerazione o della poca conoscenza delle Cantiche dell’Alighieri nel periodo elisabettiano il fatto che i tre maggiori poeti dell’epoca, Edmund Spenser, Philip Sidney e William Shakespeare, quasi mai si richiamino alla Commedia e all’illustre poeta fiorentino nelle loro opere. Ad eccezione di Sidney , infatti, che nella Apology for Poetry nomina Dante44 e, per la prima volta nella letteratura inglese, Beatrice, sia Spenser – che di certo aveva letto i componimenti latini di Petrarca e di Boccaccio – che il ‘Bardo di Stratford’ – il quale si ispirò spesso a testi italiani per i suoi lavori teatrali – pur conoscendo il “divino poeta” e la sua opera, non ne furono influenzati nella loro creazione letteraria, sicuramente poco vicina alla visione scolastico–medievale dell’universo dantesco.


II.3 – Milton

Un giudizio sull’Alighieri, tutt’altro che lusinghiero, viene espresso da Ben Jonson, “il Virgilio, il modello del bello scrivere”, nella commedia satirica Volpone, or the fox: “Dante is hard and few can understand him”45. Dante e la Commedia rappresentavano, per i letterati inglesi del XVII secolo, l’eredità culturale della tradizione filosofica medievale. Agli occhi della maggior parte degli intellettuali di quel tempo la Scolastica appariva “oscura” e “incomprensibile”, e di conseguenza la produzione e il pensiero dell’Alighieri, che su questa dottrina filosofica poggiavano le fondamenta, risultavano, nella stessa misura, “oscuri” e “incomprensibili”. Non è, dunque, casuale che John Donne, il principe dei poeti metafisici, che scrisse canzoni e sonetti d’argomento religioso e moraleggiante, mai citi o imiti il “poema sacro” dell’Alighieri nei suoi versi. Ciò nonostante, l’autore più importante del Seicento inglese, John Milton, subì molto l’influenza di Dante e parecchio attinse dal suo corpus poetico.
Grande estimatore dell’Italia e della cultura italiana,46 Milton trascorse a Firenze due mesi del suo lungo tour attraverso l’Europa, iniziato nel 1638 e concluso nell’agosto del 1639 e, sempre in Toscana, strinse amicizia con il grammatico Benedetto Buonmattei. Dalla città fiorentina si spostò a Siena, a Roma e a Napoli. Particolarmente felice fu il soggiorno partenopeo: ai piedi del Vesuvio lo scrittore ebbe modo di conoscere il nobile erudito Giovan Battista Manso, dedicatario di un’opera minore del Tasso47, al quale indirizzò uno dei suoi poemata in esametri latini, il Mansus. Ancora con lo stesso metro scrisse Ad Leonoram, Romae canentem, per la cantante napoletana Leonora Baroni. Dalla Campania ritornò, quindi, a Roma, muovendosi alla volta dell’Inghilterra e visitando, durante il viaggio, nuovamente Firenze e Ferrara, Bologna, Milano e Venezia.
Alcuni studiosi hanno ritenuto importante sottolineare come determinati caratteri della vicenda biografica e spirituale di Dante ritornino, seppure in maniera casuale e in un contesto storico–culturale ovviamente differente, nella vita di Milton. Il poeta inglese è, come l’Alighieri, un uomo profondamente religioso ma, allo stesso tempo, un intellettuale essenzialmente ‘politico’. E perciò, Milton, protestante, spesso polemizza nei suoi pamphlets con l’arcivescovo Laud per le “involuzioni ritualistiche” che questi aveva reintrodotto nella liturgia e nel culto anglicano; similmente, ma con toni molto più accesi, il ‘guelfo’ Dante attacca la corrotta Chiesa romana e papa Bonifacio VIII. Infine, le speranze di un cambiamento riposte da Milton nelle persone di Fairfax e di Cromwell hanno fine con la morte di quest’ultimo; lo stesso significato ha la scomparsa di Arrigo VII, indicato dal poeta fiorentino come l’unico uomo in grado di risollevare le sorti del potere imperiale contro il predominio temporale del papato.
L’influenza dell’Alighieri si rivela fin dai primi testi di Milton. Nello scritto in prosa A Common Place Book, riconducibile verosimilmente al 1637,48 il poeta inglese parla di “Dantes Florentinus” e del suo libro “cui titulo est Monarchia”. Citazioni e richiami alla Commedia compaiono ancora in Of Reformation Touching Church Discipline in England, nell’elegia Lycidas e nel ‘masque’ Comus. Negli ultimi tre versi del sonetto To Mr. Henry Lawes on his Airs l’amico musicista è paragonato, attraverso questa immagine, al Casella del Purgatorio: “Dante shall give Fame leave to set thee higher / then his Casella, whom he wooed to sing / Met in the milder shades of Purgatory”.49
Ma è soprattutto il Paradise Lost che maggiormente testimonia la presenza di Dante nella lirica di Milton. Nel disegno poetico dell’autore del Paradiso Perduto tale opera doveva essere la rappresentazione epica del peccato originale e, dunque, la narrazione della caducità della condizione umana. “Al pari di Dante”, scrive Bloom, “Milton mirava a scrivere il poema divino o, pragmaticamente, un terzo Testamento” 50.
Come giustamente è stato osservato da alcuni critici,51 il Paradise Lost è un “original work” che risente, però, dell’influsso di altri exempla nella lingua, nello stile e nella costruzione della vicenda narrata. In particolare echi danteschi nel poema di Milton sono rintracciabili sia quando questi usa la terza rima per il Second Psalm, sia quando racconta, nel suo Inferno, della trasformazione degli angeli peccatori in serpenti, nella descrizione delle torture del fuoco e del ghiaccio, oppure quando vengono affrontati, lungo tutto il corso del Paradise Lost, temi come il libero arbitrio e la corruzione della Chiesa.
Gli stessi studiosi, d’altro canto, hanno anche evidenziato le considerevoli differenze tra le due opere: la rappresentazione dei regni ultraterreni, le pene inflitte ai peccatori e, soprattutto, una evidente diversità di tono che è bene espressa da Macaulay il quale afferma: “The poetry of Milton differs from that of Dante as the hieroglyphics of Egypts differed from the picture–writing of Mexico. The images which Dante employs speak for themselves; they stand simply for what they are. Those of Milton have a signification which is often discernible only to the initiated . Dante (…) gives us the shape, the color, the sound, the smell, the taste; His smiles are the illustrations of a traveller. Unlike those of other poets, and expecially of Milton , they are introduced in a plain, business–like manner; not for the sake of any beauty, in the objects from which they are drawn”52.


II.4 – Il Settecento e le traduzioni parziali della Commedia

Sul finire del XVII secolo riferimenti di scarso rilievo a Dante e alla sua poesia si trovano in alcuni componimenti minori di John Dryden53, ma è tuttavia la seconda metà del Settecento che ripropone un rinnovato entusiasmo per il ‘sommo’ poeta e, in special modo, per la Commedia. Tale rivalutazione non è, però, da intendersi come momento esclusivamente letterario, bensì deve essere inquadrata in un contesto politico e ideologico europeo molto più complesso. Per Da Pozzo, infatti, “...va crescendo un gusto inglese per le cose italiane che è soprattutto curiosità intellettuale per un’area culturale che sembra quasi venir riscoperta quale ulteriore testimonianza dell’autonomia delle culture delle nazioni, differenziantesi nello svolgersi del tempo, dal Medioevo all’età moderna”54.
Malgrado ciò, i protagonisti principali in letteratura dell’età augustea, il poeta Alexander Pope55 nonché i romanzieri Daniel Defoe e Jonathan Swift, sembrano ignorare l’illustre fiorentino nelle loro opere. Del resto, i valori intellettuali sostenuti dalla nascente ‘aristocrazia borghese’, l’affermarsi di una nuova cultura attraverso il giornalismo e i canoni letterari proposti dal neoclassicismo all’inizio del “secolo dei lumi” escludevano, a priori, un benché minimo interessamento alla ‘materia poetica’ dell’Alighieri.
Pesava parecchio, sulla ‘intellighenzia’ inglese di quegli anni, il giudizio negativo del Medioevo italiano espresso da Voltaire in alcuni suoi scritti56.La polemica volterriana, basata su speculazioni filosofiche e su una rigorosa metodologia storica, non era indirizzata unicamente contro Dante, ma contro tutti i letterati del Trecento. L’autore di Candido attaccava, anzitutto, la cultura letteraria e filosofica degli “anni bui”, strettamente intrecciata con la religione cristiana e organica, in particolar modo, con l’infàme Chiesa cattolica. Il Dio di Voltaire non era, infatti, il Dio medievale delle guerre sante e del fanatismo religioso, della cultura mistica e della tradizione biblica, ma l’entità superiore del “secolo dei lumi”, propria di tutti gli uomini, “universale come la ragione”. Di conseguenza, la poesia dell’Alighieri, de facto espressione delle istanze intellettuali e religiose del Medioevo, non poteva evitare l’aspro giudizio critico del pensatore francese.
Il saggio del filosofo illuminista non passò comunque inosservato, in quanto costituiva un chiaro attacco del classicismo francese a tutta la tradizione letteraria e poetica italiana e, pertanto, non tardarono a comparire gli scritti di risposta a Monsieur Voltaire per mano degli “Italians of England” – un gruppo di intellettuali italiani espatriati: Paolo Rolli, Giuseppe Baretti e Vincenzo Martinelli57.
Nella querelle con Voltaire, ma anche nella rivalutazione della figura di Dante in Inghilterra, particolarmente significativi furono i contributi di Baretti che all’argomento dedicò due lavori, la Dissertation upon the Italian Poetry in which are interspersed some Remarks on Mr. Voltaire’s Essay on the Epic Poets del 1753 e il Discours sur Shakespeare et sur Monsieur de Voltaire del 1777. A dispetto delle polemiche e delle critiche dei classicisti d’oltralpe, nella Dissertation Baretti eleggeva il fiorentino campione del gusto e della tradizione letteraria italiana, offrendo al lettore inglese preziose indicazioni sulla biografia del poeta e sulle tematiche della sua opera e corredando lo scritto con numerose citazioni e con brevi versioni in prosa58 dalla Commedia. Nel Discours, invece, il letterato esule ribadiva l’importanza dell’Alighieri nella cultura italiana settecentesca ma soprattutto criticava, con toni duri, una resa parziale di Voltaire del XVII canto dell’Inferno59. Infine il Baretti tracciava un ritratto di Dante nella sua Italian Library, una raccolta antologica e biografica di poeti e scrittori italiani datata 1757.
Alla prima metà del secolo appartengono due traduzioni dell’episodio di Ugolino, eseguite dal pittore Jonathan Richardson60 e da Thomas Gray 61, che fin da giovane mostrò particolare interesse per ‘l’illustre toscano’. Sperimentatore di diversi generi poetici (si ricordino gli esempi di odi pindariche o le poesie di tradizione scandinava e celtica), Gray trasse dal Canzoniere petrarchesco e dal De Vulgari Eloquentia elementi per due suoi saggi sulla metrica inglese: Pseudorythmus e Observations on English Metre. Inoltre, l’incipit del suo componimento più celebre, l’Elegy written in a Country Churchyard, sembra richiamare i vv. 5–6 del VIII canto del Purgatorio62.
Nel panorama neoclassico dei primi decenni del secolo63 le due traduzioni di Richardson e Gray rimasero però episodi isolati e, soltanto nella seconda metà del Settecento, le nuove tendenze letterarie, che già in nuce contenevano i temi caratterizzanti del romanticismo europeo, riproposero in Inghilterra lo studio di Dante e, soprattutto, della Commedia. Si andava affermando, in questi anni, un tipo di poesia meditativa che rivolgeva la propria attenzione alla condizione morale dell’individuo, si riscopriva il gusto per il passato e si rivalutava, in una nuova ‘luce’, il ‘cupo’ gotico. Larga eco avevano, poi, le composizioni “sepolcrali” e della “malinconia filosofica”, i cui argomenti i letterati inglesi attingevano, non poco, dal corpus poetico dell’Alighieri.
Di considerevole importanza, in questo senso, sono i giudizi formulati da Joseph Warton nell’Essay on the Genius and Writings of Pope, apparso nel 1756. Partendo dal concetto che il “sublime ed il patetico sono i due cardini della poesia autentica” il critico lodava il “wonderful, original Dante”, che tra i tanti meriti aveva avuto, in primis, quello di avere scritto la Commedia, “a sublime and original poem”, da considerare “the next composition to the Iliad, in point of originality and sublimity”. In seguito, Warton si cimentò anche in una traslazione in prosa della vicenda di Ugolino, episodio questo in grado di rappresentare, a suo giudizio, l’espressione più alta del “patetico” in poesia.
Altrettanto significative furono le osservazioni sulla Commedia formulate nell’incompiuta History of English Poerty, del 1781, da Thomas Warton, fratello minore di Joseph, poeta di discreto valore e a lungo “Professor of Poetry” ad Oxford. Il giovane Warton riconosceva nel ground–work dell’Inferno una matrice di tipo classico anche se molte erano, a suo parere, le “Gothic extravagant innovations”. Pur riconducendo la scelta di un così “strange subject” ai modelli classici virgiliani ed omerici, ribadiva l’autonomia del poema in quanto “wonderful compound of classical and romantic fancy, of pagan and christian theology, of real and fictitious history, of tragical and comic incidents, of familiar and heroic manners, and of satirical and sublime poetry”64.
Iniziava il cosiddetto periodo “etico” del romanticismo e si arrivava, simpliciter, all’Alighieri e alla sua poesia: non solum attraverso i canti di Macpherson e l’esotismo del medioevo di Thomas Chatterton, sed etiam riconoscendo ai versi di Dante la stessa “melanconia religiosa” della lirica di Cowper, il “sublime” dell’arte di Blake, il “fantastico ed il romantico” della poesia di Wordsworth e di Coleridge.
La Commedia era summa perfecta e armoniosa di tutto questo. A questa perfetta sintesi i letterati romantici inglesi rivolgevano adesso la loro attenzione.
“The reasons for this significant awakening of interest in Dante will appear as we examine the evidence for it in the literature of the period. It was the result partially of an alleged similarity of taste and imagination between Dante and many of the English Romantics: they felt that Dante was one of them; partially of the rise of interest in Italy’s political aspirations of which Dante was considered to be the father; and partially of the presence in England of the Italian refugees, some of them distinguished Italian scholars, who revered Dante both as patriot and poet, and stimulated the English interest in his writings”.65
Il rinnovato interesse per la poesia dantesca si manifestò, in questo periodo, principalmente attraverso le traduzioni. Particolare successo ebbe il canto di Ugolino, che, dopo le versioni in blank verse di Gray e Richardson e le traslazioni in prosa ad opera di Baretti e Joseph Warton, fu reso in versi anche da Frederik Howard, earl of Carlisle e tutor di Lord Byron e da Constantine Jennings che vi aggiunse la vicenda di Paolo e Francesca, pubblicata col titolo A Translation of the Fifth Canto of Dante’s Inferno, and of the Entire Scene and Narrative of Ugolino.
Non mancarono, comunque, le voci fuori dal coro che su Dante si espressero con giudizi piuttosto severi: Oliver Goldsmith, ad esempio, a proposito della Commedia, parlò di un’opera costruita su di una “mixture of good sense and absurdity”. Ma si ricordino anche l’irlandese Martin Sherlock, che drasticamente valutava il poema dell’Alighieri “the worst that there is in any language”66, e Horace Walpole, il quale, malgrado avesse vissuto a lungo a Firenze e conoscesse bene l’italiano, non esitò a definire il poeta fiorentino “extravagant, absurd, disgusting”67.
A questi stessi anni dovevano appartenere la prima traduzione completa della Commedia, andata purtroppo perduta68, eseguita da un certo William Huggins69 e una edizione in prosa dell’Inferno, presumibilmente del 1761, anch’essa smarrita, di Charles Burney70. Infine, nel 1782, venivano pubblicate le traduzioni dei tre canti iniziali dell’Inferno, in terza rima, compiute da William Hayley71, il maggiore biografo del poeta William Cowper, e la versione completa della prima Cantica, in blank verse, ad opera di Charles Rogers72.


II.5 – Henry Boyd e la prima traduzione completa della Commedia

Nel 1785 compariva la traduzione dell’Inferno del reverendo irlandese Henry Boyd, figura nota nella storia di Dante in terra inglese per avere pubblicato, nel 180273 , la prima versione completa della Commedia. Poche e incerte sono le notizie sulla sua vita: nato in Irlanda nel 1755, studiò all’Università di Dublino dove si laureò nel 1776. Venne in seguito ordinato sacerdote della chiesa anglicana e fu vicario di Drumgath e di Rathfriland. Morì a Ballintemple nel 183274.
Boyd tradusse la Commedia in endecasillabi ordinati in strofe di sei versi75, corredando il testo con un corposo apparato di note e commenti76. Il valore della sua opera appare, comunque, assai limitato. Il reverendo eseguì, infatti, un lavoro di semplificazione e di esplicazione del testo dantesco, per meglio rendere leggibile la Commedia ai suoi contemporanei. Dunque la sua Divina Commedia of Dante Alighieri, risultò piuttosto una parafrasi che non una traduzione nel senso stretto del termine. D’altronde la preoccupazione maggiore dello studioso, letterato di “gusto romantico” ma, allo stesso tempo, traduttore ancora influenzato dalle tendenze estetizzanti della scuola neoclassica, era quella di presentare una versione capace sia di garantire la trasmissione immediata del senso dell’originale sia di adattarsi ai criteri stilistici e estetici dell’epoca. Sono pertanto condivisibili le osservazioni di De Sua che insiste parecchio sulla “Boyd’s deafness to Dante’s exquisite echoing of sense in sound”77, individuando il limite più grande della traduzione, al di là dei difetti di forma e di resa, nella sua tendenza eccessivamente didascalica.

La Vision di Cary
e i romantici inglesi
Bianca

“Call to mind from whence ye sprang:
“Ye were not form’d to live the life of brutes,
“But virtue to pursue and knowledge high”
Hell, XXVI, vv.115–117.
Bianca
I – Henry Francis Cary

Nel 1814 veniva data alle stampe, col titolo The Vision of Dante78, la traduzione della Commedia di Henry Francis Cary. L’edizione dell’opera, che valse al suo autore il titolo di Translator of Dante79, rappresentò un episodio importante nelle vicende della fortuna in Inghilterra dell’Alighieri, il quale, attraverso la Vision, fu letto ed apprezzato, in molti casi per la prima volta, da numerosi letterati ed intellettuali romantici.


I.1 – La vita e le opere

Henry Francis Cary80 nacque il 6 dicembre del 1772 a Gibilterra. L’anno seguente il padre William, capitano di un reggimento di fanti, lasciò l’esercito e si trasferì con la famiglia in Inghilterra, stabilendosi nello Staffordshire. Dal 1783 al 1785 il giovane Henry studiò prima presso la Rugby School e poi al Sutton Coldfield Grammar e al King Edward VI di Birmingham. Al 1788 risale l’inizio della sua corrispondenza letteraria con la poetessa Ann Seward, meglio conosciuta come the Swan of Lichefield. Lo scambio epistolare tra i due fu duraturo, molto intenso e, spesso, ebbe Dante come argomento. La Seward, nelle sue missive, si mostrava molto scettica sul reale valore poetico dell’Alighieri, giudicandolo anzi poco interessante sotto il profilo strettamente letterario. Inoltre, the Swan non condivideva l’ammirazione di Cary per la letteratura italiana trecentesca e gli rimproverava di preferire la lettura delle poesie di Petrarca ai Night Toughts di Young81. Appartiene a questo periodo la pubblicazione dei suoi primi due libri di versi, The Irregular Ode to the General Elliot e Sonnets and Odes. Nel 1790, potendo usufruire di una borsa di studio, Cary si trasferì ad Oxford, dove fu studente al Christ’s Church College. Nella cittadina universitaria il giovane si dedicò presto allo studio delle letterature classiche e moderne, scoprendo una particolare predilezione per le liriche di Pindaro e di Dante. Nel 1793 scrisse The Mountain Seat e nel 1794 si laureò. Nel 1796, a ventitré anni, Cary fu ordinato sacerdote e, nell’agosto dello stesso anno, sposò l’irlandese Jane Ormsby, che gli darà otto figli. Nel 1809, dopo otto anni di intenso lavoro, pubblicò una traduzione dei primi sedici canti dell’Inferno, in blank verse, il ‘verso sciolto’, con testo italiano a fronte. L’anno successivo terminò la resa della seconda metà della prima Cantica, che fu edita in due volumi82. Poche le vicende importanti della vita del reverendo Cary durante questo lungo lasso di tempo: la morte dell’ultima figlia Herriet ed il trasferimento con la famiglia a Londra.
L’8 maggio del 1812 annota nel suo diario: “finished my transalation of Dante’s Commedia–began the 16th of June 1797”. Ma solamente dopo due anni, nel 1814, in seguito ai rifiuti di alcuni editori londinesi, si decideva a fare stampare, a sue spese, l’intera opera col titolo The Vision, in tre piccoli volumi senza testo italiano83. Le attese di Cary furono, tuttavia, deluse: la traduzione passò quasi inosservata, le vendite furono scarse e la maggior parte dei libri rimase invenduta. Nel 1816 moriva di tisi la figlia Jane e, nell’autunno dell’anno seguente, avveniva il suo primo incontro con Coleridge, che avrebbe poi più volte lodato la traduzione di Cary, adoperata per le sue lecturae su Dante. Altro episodio significativo fu la favorevole recensione, a firma di Ugo Foscolo, apparsa sulla “Edinburgh Review”. Questi due fatti, insieme, si rivelarono determinanti per la fortuna editoriale della Vision. Nel 1819 la traduzione fu ripubblicata, dagli editori Taylor and Hessey, in una nuova e migliore veste: tre volumi in ottavo, con note ed introduzione parecchio ampliate rispetto alla prima stampa84. La nuova edizione aprì, finalmente, al reverendo le porte del mondo delle lettere: Cary conobbe Charles Lamb, Gabriele Rossetti, padre dell’altro traduttore di Dante William Michael e iniziò la sua collaborazione con il London Magazine. Fu questo il momento letterario forse più prolifico del Translator of Dante: durante il suo primo viaggio all’estero, in Francia, scrisse una serie di saggi sulla poesia medievale che includevano anche alcune traduzioni e preparò la continuazione delle Lives of Poets di Johnson. Nel 1824 pubblicò una versione in lingua inglese de Gli Uccelli di Aristofane e, nel 1826, fu assunto come “Assistant–Keeper of Printed Books” al British Museum. Nel 1831 la Vision veniva ristampata, mentre l’anno successivo moriva la moglie Jane. In seguito a questo nuovo lutto Cary decise di visitare, per la seconda volta, il ‘vecchio’ continente, soggiornando nuovamente in Francia e, per la prima volta, in Italia. Tra il 1837 ed il 1839 comparvero una sua traduzione di Pindaro e un’antologia dei componimenti di Cowper. Intanto, dopo essersi licenziato dal British Museum–forse perché gli era stato preferito il letterato italiano Antonio Panizzi, espatriato in Inghilterra, alla carica di direttore–pur soffrendo fisicamente, continuava a lavorare, con una certa insistenza, alla revisione del testo della sua traduzione della Commedia e a un ulteriore ampliamento delle note. Purtroppo le sue condizioni di salute si aggravarono durante la correzione delle bozze. Cary moriva il 14 agosto del 1844, a 71 anni, dopo avere visto la pubblicazione della terza edizione85 della Vision. Nel 1846, tutti i suoi saggi furono raccolti ed editi col titolo The Early French Poets and Lives of English Poets from Johnson to Kirk White. Infine, nel 1866, comparve l’edizione della Vision corredata delle illustrazioni di Gustave Doré.


I.2 – Coleridge e Foscolo

Il successo e la fortuna della traduzione di Cary sono dovuti, in larga misura, a Samuel Taylor Coleridge e a Ugo Foscolo, esule in Inghilterra dal 1816 al 1827, periodo che il letterato italiano dedicò, in buona misura, all’attività di studioso e di critico del “ghibellin fuggiasco”86.
Per Coleridge, come per molti altri romantici inglesi, la riscoperta di Dante costituiva, in primis, la rivalutazione della letteratura e della filosofia medievale, a lungo ed ingiustamente tacciate di ‘barbarismo’. Dal canto suo l’inglese collocava l’Alighieri tra quei “divine poets (…) who deserve to have critics”, sia perché questi era ‘bardo’ superiore al “criticism in the vulgar sense”, sia perché, come poeta, agiva nella “sphere of religion”87.
Il primo fortuito incontro tra Coleridge e Cary avvenne a Littlehampton, nell’autunno del 1817. “Cary had been walking on the sands with his son at Littlehampton, declaiming Homer so expressively above the noise of the sea–breezes, that Coleridge, who had noticed them for several days, at last accosted Cary with ‘Sir, yours is a face I should know; I am Samuel Taylor Coleridge’. That evening Dante’s name was mentioned, and as Coleridge had not heard of Cary’s translation, he was given a copy of it to take home with him. The next morning Coleridge was able to recite whole passages of Cary’s version from memory, such was his delight with it”.88
Coleridge usò il testo della Vision durante le sue ‘lezioni’ del 1818 sulle letterature europee e mantenne, per un certo periodo, una corrispondenza epistolare con Cary. Nella sua prima lettera l’autore della Ryme sottolineava la “severity” e la “learned simplicity of the diction” ma, soprattutto, elogiava il “peculiar character” del blank verse, il verso sciolto, capace di una opportuna resa poetica di passi particolarmente ardui per l’incastro di espressività e terza rima. Sempre nella stessa lettera Coleridge dichiarava: “I would that my literary influence were enough to secure the knowledge of the work for the true lovers of poetry in general”89.
Un altro considerevole aiuto alla diffusione della versione di Cary venne dalla recensione, apparsa sul numero di febbraio del 1818 della “Edinburgh Review”, con la firma di Ugo Foscolo90.
Nello scritto si formulava un giudizio abbastanza positivo del lavoro svolto da Cary, ritenendo che il traduttore: “Throughout he discovers the will and the power to do justice to his author. He has omitted nothing, he has added nothing; and though here and there his inversions are ungraceful, and his phrases a little obsolete, he walks not unfrequently by the side of his master, and sometimes perhaps goes beyond him”91.Poco più avanti, il recensore concludeva con queste parole il suo breve contributo sulla Vision: “Mr Cary reminds us sometimes of Shakespeare, oftener of Milton; but, in his anxiety to imitate them, he becomes more antiquated than either; and we hope, that, when he republishes his translation, which, we trust, he soon will, in a larger and more legible character, he will think proper to modernize the language a little, and give more simplicity and sweetness to many parts of it”92.
Il Foscolo, infine, ricorse alla traduzione del reverendo inglese anche per i suoi successivi Saggi sopra il Petrarca e per il Discorso sul testo della Commedia93.


I.3 – La Vision

Cary rende il titolo originale Divina Commedia con The Vision of Dante, già dalla prima edizione del 1814, così motivando il cambiamento: “In one or two of those editions94 is to be found the title of ‘Vision’, which I have adopted as more conformable to the genius of our language than that of the ‘Divine Comedy’. Dante himself, I believe, termed it simply ‘The Comedy’; in the first place, because the style was of the middle kind; and in the next, because the story, (if story it may be called) ends happily”95.
Ma la vera novità della transmutazione96 di Cary è costituita dal verso, il blank verse, in sostituzione della terza rima usata dall’Alighieri. Tale scelta non fu casuale, nascendo dalle teorie contemporanee sulla traduzione97, alle quali il Translator of Dante si attenne fedelmente. In sintonia con le nuove idee, infatti, Cary si sforzò di creare, nella lingua di resa, lo stesso effetto dell’originale, servendosi di un ‘equivalente’ – metrico o stilistico – che rappresentasse nella maniera migliore l’opera tradotta.
Anche se la terza rima non era del tutto ‘estranea’ alla cultura inglese98, il traduttore non ritenne che questa struttura metrico–formale fosse equivalente nelle due lingue e scelse, pertanto, il blank verse come soluzione più efficace. Pensò, invece, che il ‘verso sciolto’ avesse, in inglese, lo stesso valore letterario della terza rima in italiano99 e giudicò che potesse degnamente sostituire il metro dantesco.
Naturalmente, il confronto tra i testi della Commedia e della Vision apre una forbice assai significativa. Innanzitutto, la metrica della terza rima (aba, bcb, cdc,) scompariva nel blank verse, come si evince dalla terzina che racconta l’incontro di Dante e Virgilio nel I canto dell’Inferno. Il poeta latino, nel rivelare a Dante la sua identità, dice:

Rispuosemi: “Non omo, omo già fui, (a)
e li parenti miei furon lombardi, (b)
mantoani per patria ambedui. (a)
Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi,(b)
e vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto, (c)
nel tempo de li dei falsi e bugiardi. (b)
Inf., I, vv.67–72.

I versi italiani vengono così resi nella traduzione di Cary:

He answer’d: Now not man, man once I was,
And born of Lombard parents, Mantuans both
By country, when the power of Julius yet
Was scarcely firm. At Rome my life was past
Beneath the mild Augustus, in the time
Of fabled deities and false.
Hell, I, vv.63–68.

La divisione in terzine veniva sostituita, in inglese, dal paragraph, un ‘paragrafo’ di versi non regolato da alcuna scansione. Si perdeva, perciò, in traduzione, la tripartizione in versi dell’originale; fatto, questo, che finiva con l’annullare sia la funzione metrica– la chiusura del verso– sia il valore semantico della rima, poiché spesso l’ultima parola del primo verso serviva da “richiamo” all’ultima parola del terzo. Il paragrafo di versi continui stravolgeva, inoltre, la stessa punteggiatura dantesca, tanto che più volte Cary si vide costretto a collegare i versi con enjambement.
Quando, infatti, Marco Lombardo si presenta a Dante nel XVI del Purgatorio dice:

“Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l’arco”.
Purg., XVI, vv.46–48.

Nella Vision la traduzione di questi versi necessitava dell’utilizzo dell’enjambement.

‘I was of Lombardy, and Marco call’d:
Not inexperienc’d of the world, that worth
I still affected, from which all have turn’d
The nervless bow aside.
Purg., XVI, vv.46–49.

La varietà stilistica e ritmica della Commedia, malgrado gli sforzi del reverendo di rendere il blank verse più versatile e vario, scompariva quasi del tutto nella edizione inglese. Si spiega, in questo modo, l’appunto mosso da diversi studiosi alla evidente piattezza e monotonia della Vision rispetto al poema dell’Alighieri100.
La critica ha dato diverse definizioni del metodo teorico seguito da Cary per la sua traduzione. Molti studiosi insistono sulla “literaliness” dell’opera tradotta; altri, invece, parlano di resa “almost literal”, in totale contrapposizione alle versioni estetizzanti settecentesche. Dal canto suo, De Sua valuta il metodo del traduttore inglese una via di mezzo tra la parafrasi augustea e la metafrasi vittoriana; una soluzione questa che, pur annullando la divisione in terzine dell’originale, garantiva una migliore esposizione in inglese del testo italiano.
La Vision era, nelle intenzioni di Cary, in primis, il tentativo di ‘ricreazione’, in una lingua differente, della grande poesia della Commedia. Quasi a conferma del reale valore poetico del ‘padre della lingua italiana’, il reverendo compie, nelle note aggiunte al testo, continui paralleli tra i versi danteschi e quelli di celebri poeti inglesi, citando, in particolare, dal Paradise Lost di Milton, dai poemi di Chaucer e dalle opere di Shakespeare101. In questa maniera Cary cercava una legittimazione della sua ‘doppia identità’, di traduttore e di uomo di lettere e, dunque, la giustificazione del taglio stilistico e culturale della sua transmutazione.
Malgrado tutte le difficoltà connesse ad una simile operazione, the Translator of Dante compì pochissimi errori di traduzione. E’ tuttavia molto difficile indicare quale delle tre Cantiche sia stata tradotta nella maniera migliore. Molti critici, infatti, pur riconoscendo la “buona qualità” del tono generale della Vision, evidenziano una notevole differenza tra la resa dell’Inferno e quella del Purgatorio e del Paradiso. Il rimprovero mosso alla prima Cantica dell’opera tradotta è di non offrire al lettore il senso di violenta crudezza e di sottomissione ispirati dai personaggi e dalle vicende nel testo italiano.
Secondo Pite102 la parte meglio riuscita in traduzione è il Paradiso: il dantista britannico individua nell’“amore erudito del sapere di Cary” l’elemento determinante per la buona esposizione, in lingua inglese, delle ‘dottrine’ che l’Alighieri più volte illustra nella terza Cantica. A conferma delle preferenze dell’autore, lo studioso inglese addita il fatto che il reverendo avesse transmutato, per primo, il Purgatorio, nel 1797, e che la traduzione ultima del Paradiso fosse servita da conforto alle sue vicissitudini familiari103.
La Vision di Cary rimane, in ogni caso, il testo più importante per la conoscenza della Commedia in Inghilterra e fondamentale per tutti quei romantici che, grazie a questo medium, si avvicinarono a Dante, lo riscoprirono e, in molti casi, ne furono profondamente influenzati. Il valore dell’opera, malgrado la molteplicità e la diversità di giudizi, è indubbio. Ma, forse, proprio Cary ci suggerisce il vero senso e le motivazioni che sono alla base della sua versione quando scrive nella prefazione alla prima edizione: “On a retrospect of the time and exertions, that have been thus employed, I do not regard those hours as the least happy of my life, during which (to use the eloquent language of Mr. Coleridge) ‘my individual recollections have been suspended, and lulled to sleep amid the music of nobler thoughts’; nor that study as missapplied, which has familiarized me with one of the sublimest efforts of the human invention”104.
Bianca
II – La Commedia ed i romantici inglesi

II.1 – La “seconda generazione romantica” e i traduttori dopo Cary

Non c’è dubbio che l’entusiasmo per Dante e la Commedia crebbe di molto in seguito alle edizioni di Cary. Pite, citando da un libro di Peacock del 1818, Nightmare Abbey, afferma che, come per il “romanziere della Compagnia delle Indie orientali”, il poeta fiorentino era ormai divenuto una “lettura obbligata” agli occhi degli intellettuali inglesi: “I don’t know how it is, but Dante never came in may way till lately. I never had him in my collection, and if I had had him I should not have read him. But I find he is growing fashionable, and I am afraid I must read him some wet morning”105.
Wordsworth lesse la Vision, traduzione che non esitò a definire “a great national work”. Il ‘poeta dei laghi’ tuttavia predilesse soprattutto il Dante sonettista, affermando che “The Sonnet glittered a gay myrtle leaf/Amid the Cypress with which Dante crowned his visionary brow”.106
Ancora in un altro ‘sonnet’, dedicato a Firenze, memorial di un viaggio in Italia compiuto nel 1837, Wordsworth celebrava “The laurelled Dante”: “Under the shadow of a stately Pile/The dome of Florence, pensive and alone,/Nor giving heed to aught that passed the wile,/I stood, and gazed upon a marble stone,/The laurelled Dante’s favourite seat./A throne, In just esteem, it rivals;/though no style/be there of decoration to beguile/The mind, depressed by thought of greatness flown./As a true man, who long had served the lyre,/I gazed with earnestness, and dared no more./But in his breast the mighty Poet bore/A Patriot’s heart, warm with undying fire./Bold with the thought, in reverence I sate down,/And, for a moment, filled that empty Throne”.107
Byron, Shelley e Keats, protagonisti del cosiddetto “secondo Romanticismo inglese”, si richiamarono frequentemente all’Alighieri ed alla Commedia, tradussero dal poema i canti più famosi, guadagnandone non pochi spunti per i loro componimenti.
Lord Byron transmutò, durante il soggiorno ravennate108, l’episodio di Paolo e Francesca109, in terza rima. La scelta di mantenere il verso dantesco anche nella versione inglese voleva essere un tentativo di literal translation, una traduzione speculare, nei versi e nelle parole, all’originale. Consapevole, infatti, che Dante è the most untranslatable of all poets, Byron non accettava, in ogni caso, la resa–parafrasi dei traduttori settecenteschi. La versione inglese della sua Fanny of Rimini è il tentativo, ben riuscito, di riproporre sia il valore semantico che quello stilistico del modello originale. E’ possibile, inoltre, che il letterato inglese identificasse nella relazione incestuosa dei due cognati il suo amore per la sorellastra Augusta Leigh. Similmente, nella Prophecy of Dante, dove l’esule Alighieri, “The poet of liberty”, è profeta delle fortune e sciagure italiane, Byron si riflette nel poeta costretto ad un forzoso esilio e, in egual misura, libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta110.
Ancora citazioni e riferimenti danteschi si ritrovano nel Childe Harold Pilgrimage e nel “poema burlesco” Don Juan111, nella novella in versi Corsair e nella Age of Bronze.
Percy Bysshe Shelley, come Byron, visse per lungo tempo in Italia, oramai divenuta il “paradiso degli esuli.”112. Ammiratore, soprattutto, del “Poeta dell’amore sublime e spirituale”, imitò l’Alighieri nei versi del Prometheus Unbound, nel poema Epipsychion113 e nell’incompleto Triumph of Life, opera grazie alla quale “s’avvicina all’arte plastica e realistica della Commedia, e giunge ad una virtù di stile insolita in lui”114. Tradusse, inoltre, in terza rima, l’episodio di Matelda del XXVIII canto del Purgatorio,115 il sonetto dedicato a Guido Cavalcanti, i versi 22–75 della storia di Ugolino e la canzone voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete116.
Nel saggio postumo A Defence of Poetry, Shelley aveva preso le parti della “fantasia” nella creazione poetica, ritenendola unico “tramite” per arrivare al mondo platonico delle idee. L’autore della celebre Ode to the West Wind sosteneva, infatti, che, solamente attraverso il “linguaggio” e la “poesia”, la “fantasia” aveva ragione di esistere e di esprimere la realtà. E dunque, per meglio spiegare il connubio “fantasia–linguaggio”, il poeta inglese era ricorso al repertorio poetico dell’Alighieri offrendo al lettore esempi tratti dalla Vita Nova e dalla Commedia117.
John Keats trascorse in Italia l’ultimo anno della sua vita, morendo a Roma nel 1821118. Attento alla letteratura italiana–oltre che di Dante si era occupato anche di Ariosto, di Pulci e di Boiardo–lesse la Commedia durante il tour, a piedi, in Scozia nell’estate del 1818. Lontano da casa, così scriveva all’amico Benjamin Bailey: “I’m not at home and your letter being there I cannot look it over to answer any particular – only I must say I felt that passage of Dante – If I take any book with me it shall be those minute volumes of carey (sic) for they will go into the aptest corner”119.
L’influenza dell’Alighieri sulla produzione poetica di Keats si evidenzia, nel sonetto A Dream, after reading Dante’s Episode of Paolo and Francesca –“Lovers need not tell their sorrows”– e in particolare, nel poema epico The Fall of Hyperion, a Vision, riedizione del precedente Hyperion120. Di sicura ispirazione dantesca si può, ad esempio, parlare a riguardo dell’utilizzo della prima persona narrativa, come pure alla Commedia è riconducibile la figura femminile, per molti versi simile alla Beatrice di Dante, che guida il narratore lungo tutto il corso della vicenda.
Il critico William Hazlitt dimostrò una discreta familiarità col testo dell’Alighieri, citando personaggi della Commedia in Notes of Journey through France and Italy, del 1826 e traducendo i passi più significativi del poema dantesco in alcuni suoi Essays; mentre Leigh Hunt, già ricordato per la sua Story of Rimini, riassunse, in prosa, il viaggio di Dante nei regni ultraterreni nelle Stories from Italian Poets, del 1846.
Chi, invece, poco apprezzò i versi dell’illustre italiano fu Walter Savage Landor che, pur avendo vissuto a Firenze, dove morì nel 1864, non si mostrò particolarmente interessato alle opere di Dante, limitandosi a elencarne meriti e difetti poetici nelle Imaginary Conversations of Literary Men and States Men, composte tra il 1824 e il 1828, e a citare il nome del ‘padre della lingua italiana’ nel successivo Pentameron.
All’Alighieri si ispirò certamente anche Alfred Tennyson per il monologo Ulysses, nominò “The world–worn Dante” nel componimento allegorico Palace of Art e eseguì una traduzione del canto di Paolo e Francesca. Nel 1865, per i festeggiamenti in occasione dei seicento anni dalla nascita del poeta, Firenze gli commissionò questo breve ‘poem’ sull’autore della Commedia: “King, that hast reign’d six hundred years/and grown in power, and ever growest, since thine own./Fair Florence honouring thy nativity/Thy Florence now the crown of Italy/Hath sought the tribute of a verse from me/I wearing but the garland of a day/Cast at thy feet one flower that fades away”121.
Amico di Tennyson fu il poeta Artur Hallam, morto prematuramente a soli ventidue anni, il quale rese in giambi greci l’episodio del conte Ugolino e tradusse parzialmente la Vita Nova.
Ancora ‘tracce’ dantesche si evincono sia dalla lettura dei testi di Robert Browning che, con molta probabilità, trasse preziose indicazioni dal VI canto del Purgatorio per il suo Sordello del 1840, sia dagli scritti di John Ruskin, il quale in The Stones of Venice, prendendo le mosse da una particolareggiata indagine sul valore dell’arte e dell’architettura gotica nella penisola, in questi termini valutava il ruolo storico–letterario di Dante: “l’uomo centrale del mondo, rappresentante in perfetto equilibrio, al più alto grado, le facoltà immaginative, intellettuali e morali”122.
Ben sedici traduttori si cimentarono nella resa di singole Cantiche o dell’intera Commedia nei cinquantatré anni che dividono la Vision di Cary, dall’altra celebre traduzione ottocentesca dell’opera, eseguita dal poeta americano Henry Wadsworth Longfellow123.
La grossa novità è rappresentata dal fatto che la maggior parte di coloro che transmutarono in inglese Dante non era costituita, unicamente, da letterati ‘di professione’, bensì da molti ‘dilettanti’, appartenenti alle più disparate categorie sociali: medici, avvocati, ecclesiastici e impiegati, quasi a volere sottolineare l’interesse che l’Alighieri e l’affascinante universo delle tre Cantiche avevano suscitato nella cultura d’oltremanica dell’epoca.
Stilisticamente le traduzioni erano, in ogni caso, molto diverse. In un primo momento, sull’esempio di Cary, si conservò l’uso del blank verse: Nathaniel Howard124 e Joseph Hume125, infatti, lo adoperarono per le loro versioni della prima Cantica. Purtuttavia, già nel 1833, appariva una resa parziale della Commedia in strofe di sei versi rimati126, ad opera del banchiere Ichabod Charles Wright127 che pubblicava, in questo tipo di verso, l’Inferno.
Altri ‘dilettanti’ dell’illustre fiorentino, invece, tentarono, con esiti non sempre felici, di rendere la Commedia in terza rima. Tra il 1854 e il 1866, venivano date alle stampe le traduzioni del prete anglicano John Dayman128, dello scholar Charles Bagot Cayley129, degli avvocati Thomas Brooksbank130 e William Patrick Wilikie131, del pastore metodista John Wesley Thomas132 e della prima traduttrice in Inghilterra di Dante, Claudia Hamilton Ramsay133.
Diversamente, discreta fortuna ebbero le versioni in prosa che, libera dalle costrizioni metriche e formali della poesia, riusciva in traduzione più ‘malleabile’ e, pertanto, più accessibile a quei lettori che non possedevano gli strumenti tecnici per la comprensione della poesia dantesca. Due i testi in prosa: nel 1849 l’Inferno di John Aitknen Carlyle134, fratello minore del più noto poeta Thomas che pure si occupò dell’Alighieri135, e, nel 1852, l’intera Commedia del prete E. O’Donnell136.
Le traduzioni migliori, con ogni probabilità, sono quelle in blank terzine, la terzina in blank verse, forma che, per valore stilistico e per successo di resa, sostituì nelle edizioni inglesi della Commedia il verso sciolto. Nel 1854 fu pubblicata la prima traduzione in blank terzine, eseguita dall’avvocato William Federick Pollock137. Undici anni più tardi, William Michael Rossetti138 presentava, con lo stesso verso, l’Inferno.
Da registrare, per questo stesso arco di tempo, ancora due transmutazioni del poema dantesco: l’Inferno dell’avvocato Bruce Whyte e l’intera Commedia di Patrick Bannerman.139
II.2 – Le illustrazioni inglesi della Commedia

Numerose furono, in Inghilterra, le “traduzioni pittoriche” dalla Commedia, già a partire dal 1773 con l’esposizione, presso la Royal Academy, del Count Ugolino and his Children in the Dungeon, eseguito da Joshua Reynolds140.
Toynbee141 ha contato, durante tutto il corso dell’Ottocento, circa ottanta soggetti ispirati ad opere dantesche. Alle vicende del ‘viaggio ultraterreno’ si richiamarono, agli inizi del XIX secolo, alcuni degli esponenti più rappresentativi della pittura e dell’arte in terra inglese: Heinrich Fuseli, John Flaxman e William Blake. Superati i canoni stilistici del Neoclassicismo, abbandonato il “gusto della forma” e la continua ricerca del bello ideale, l’artista tende ora al sublime, che “riempie l’animo di un orrore che diletta”, riscopre il mondo magico e pittoresco del “primitivo Medioevo” e, attraverso di esso, il macrocosmo di simboli, di misticismo e di visioni rinchiuso nella Commedia dell’Alighieri.
Il pittore del ‘fantastico’ Heinrich Fuseli142, rifacendosi ai temi dell’“orrendo” e del “cupo”, dipinse due quadri aventi per argomento Paolo e Francesca e il Conte Ugolino. Entrambe le tele furono presentate alla Royal Academy, rispettivamente nel 1786 e nel 1818. Sempre dal ‘sacro poema’, illustrò i canti X, XIII, XXIV, XXV dell’Inferno ed il V del Purgatorio.
I disegni della Commedia dello scultore John Flaxman143 , artista per molti versi ancora legato ai dettami dell’estetica neoclassica, furono, invece, eseguiti e incisi in Italia presso la bottega–studio del Piroli, e presentati prima a Roma, nel 1793, e solamente quattordici anni più tardi in Inghilterra.
Il poeta William Blake, il “mistico visionario”, prima di ‘istoriare’ con i suoi disegni la Commedia, lesse la Vision di Cary, convinto perfino che, per poter degnamente illustrare le tre Cantiche di Dante avrebbe dovuto prima imparare l’italiano e studiare l’opera in lingua originale. Il lavoro per la Commedia iniziò nel 1825, su commissione dell’amico pittore John Linnell, e proseguì fino a pochi giorni dalla morte. Benché costretto a letto dalla malattia, Blake eseguì centoquattro disegni, novantotto dei quali a colori e quattro in bianco e nero144.
Discreto successo ebbero, inoltre, nella seconda metà del secolo, le illustrazioni del poema dell’Alighieri compiute dal ‘pre–raffaellita’ Dante Gabriel Rossetti145, e i disegni del romantico francese Gustave Doré146, pubblicati come supporto pittorico all’edizione del 1866 della Vision di Cary.

Bianca
Appendice antologica

Geoffrey Chaucer

Il brano sotto riportato è tratto dai Canterbury Tales, il “capolavoro incompiuto” di Chaucer, alla cui stesura il poeta attese tra il 1387 ed il 1400, anno della sua morte. Inserito in The Prologue of the Seconde Nonnes Tale, il testo costituisce una traduzione “libera” della preghiera alla Vergine che Bernardo recita alla fine della Commedia.
Si confrontino, pertanto, le terzine iniziali, vv.1–9, del canto XXXIII del Paradiso:

“Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.

Con i versi 36–41 dell’Invocacio ad Mariam:

Thou mayde and mooder, doghter of thy sone,
Thou welle of mercy, sinful soules cure,
In whom that god, for bountee, chees to wone,
Thou humble, and heigh over every creature,
Thou nobledest so ferforth our nature,
That no desdeyn the maker hadde of kinde,
His sone in blode and flesh to clothe and winde147.


Thomas Gray

La versione inglese dell’episodio di Ugolino del poeta Thomas Gray può essere datata, presumibilmente, intorno al 1738, quando questi era ancora studente ad Oxford. Subito dopo il versificatore dell’Elegy partì, insieme con Horace Walpole, per un lungo viaggio alla volta dell’Italia.
Nell’incipit del canto XXXIII dell’Inferno, vv.1–9, Ugolino interrompe il suo fiero pasto e comincia il racconto del suo disperato dolor:

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’ elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’ io rinovelli
disperato dolor che ‘l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’ io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’ i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.

Gray traduce in blank verse l’‘attacco’ dell’ultimo canto del ‘primo libro’:

From his dire Food the griesly Fellon raised
His Gore–dyed Lips, which on the clotter’d Locks
Of th’ half devoured Head he wiped, and thus
Began. Would’st thou revive the deep Despair,
The Anguish, that unutter’d nathless wrongs
My inmost Heart? yet if the telling may
Beget the Traitour’s Infamy, whom thus
I ceaseless gnaw insatiate; thou shalt me
At once give loose to Utterance, and to Tears148.

William Hayley

William Hayley (1745–1820), poeta e biografo–si ricordino le monografie su Milton e Cowper–fu amico di Cary e della poetessa Ann Seward, nonché sostenitore, morale e finanziario, di William Blake. Hayley tradusse soltanto i primi tre canti dell’Inferno, in terza rima, e li pubblicò nella suo Essay on Epic Poetry del 1782.
Nei primi nove versi del II canto Dante propone l’argumentum e invoca le muse:

Lo giorno se n’ andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io, sol uno
m’ apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m’ aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’ io vidi,
quì si parrà la tua nobilitate.

Le tre terzine sono così rese, in lingua inglese, da Hayley:

The day was sinking, and the dusky air
On all the animals of earth bestow’d
Rest from their labours. I alone prepare
To meet new toil, both from my dreary road,
And pious whish to paint in worthy phrase
The Unerring Mind, and his divine abode.
O Sacred Muses! now my genius raise!
O Memory, who writest what I saw,
From hence shall spring thy ever–during praise149.

Henry Boyd

La traduzione del reverendo Henry Boyd, la prima versione completa della Commedia di Dante in Inghilterra, venne edita nel 1802. L’opera, in strofe di sei versi in rima (AAB,CCB), preceduta nel 1785 dalla pubblicazione del solo Inferno, fu presentata col titolo: The Divina Commedia of Dante Alighieri, consisting of the Inferno–Purgatorio–and Paradiso. Translated into English Verse, with preliminary essays, notes and illustrations, by the Rev. Henry Boyd, A. M., Chaplain to the Right Honourable the Lord Viscount Charleville. London: Printed by A Strahan for T. Cadell Jun. and W. Davies. 1802, 3 vols.
I celebri versi 100–108 del V dell’Inferno:

Amor, ch’ al cor gentil ratto
s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’ a nullo amato amar
perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’ abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.

Sono tradotti da Boyd con le due sestine rimate qui di seguito riportate:

“This mangled form was fated to inspire
The gentle Paulo’s breast with am’ rous fire;
From his to mine the soft infection spread:
Too soon the fatal secret I divin’d;
Too soon with his my guilty wish combin’d,
Wretch that I was! who shar’d his brother’s bed!
“Love link’d our souls above, and links below,
But, far beneath, in scenes of deeper woe
The eldest murth’ rer and his mates prepare
Already to receive the ruffian’s soul:
Where Caina reaches to the nether pole
With Fratricides the penal doom to share.”150

George Gordon Byron

Byron tradusse l’episodio di Paolo e Francesca durante gli anni vissuti in Italia, precisamente a Ravenna, e rese la vicenda conservando, nella sua lingua, la terza rima della Commedia. Malgrado avesse compiuto una discreta versione del testo dantesco, Byron riconobbe che l’Alighieri era: “the most untranslatable of all the poets. You may give the meaning; but the charm, the simplicity–the classical simplicity–is lost. You might as well clothe a statue as attempt to translate Dante. He is better, as an Italian said, nudo che vestito”151.
La storia dell’infelice amore dei due cognati, nel racconto della Francesca della Commedia inizia al verso 97 e si prolunga fino al verso 142 del V canto del ‘primo’ regno:
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’ al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’ offende.
Amor, ch’ a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’ abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’ io intesi quell’ anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ‘l poeta mi disse: “Che pense?”.
Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!”.
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: “Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’ i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”.
E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi legemmo avante”.
Mentre che l’ uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’ io morisse.
E caddi come corpo morto cade.

Il modello dantesco è seguito fedelmente dalla resa di Lord Byron:

‘The Land where I was born sits by the Seas,
Upon that shore to which the Po descends,
With all his followers, in search of peace.
Love, which the gentle heart soon apprehends,
Seized him for the fair person which was ta’en
From me, and me even yet the mode offends.
Love, who to none beloved to love again
Remits, seized me with wish to please, so strong,
That, as thou see’ st, yet it doth remain.
Love to one death conducted us along,
But Caina waits for him our life who ended.’
These were the accents utter’ d by her tongue–
Since I first listened to these Soul offended,
I bow’ d my visage and so kept it till–
‘What think’ st thou?’ said the bard; when (then) I
[unbended,
And recommenced: ‘Alas! unto such ill
How many sweet thoughts, what strong extacies
Led these their evil fortune to fulfill!’
And then I turned unto their side my eyes,
And said, ‘Francesca, thy sad destinies
Have made me sorrow till the tears arise.
But tell me, in the Season of sweet sighs,
By what and how thy Love to Passion rose,
So as his dim desires to recognise?’.
Then she to me: ‘The greatest of all woes
Is to remind us (recall to mind) of our happy days
In misery, and that (this) thy teacher knows.
But if to learn our passion’ s first root preys
Upon thy spirit with such Sympathy,
I will do even (relate) as he who weeps and says.
We read one day for pastime, seated nigh,
Of Lancilot, how Love enchained him too.
We were alone, quite unsuspiciously,
But oft our eyes met, and our Cheeks in hue
All o’ er discolour’d by that reading were;
But one point only wholly us o’ erthrew
[(overthrew);
When we read the long–sighed–for (desired)
[smile of her,
To be thus kist by such devoted (a fervent) lover,
He, who from me can be divided ne’er,
Kissed my mouth, trembling in the act all over.
Accursed was the book and he who wrote!
That day no further leaf we did uncover.
While thus one Spirit told us of their lot,
The other wept so, that with pity’ s thralls
I swoon’d as if by death I had been smote,
And fell down as a dead body falls’152.

Percy Bysshe Shelley

Shelley iniziò a leggere la Commedia, in italiano, nel 1818 poco prima di abbandonare l’Inghilterra. E’ probabile che il poeta inglese possedesse una copia della Vision di Cary e che l’adoperasse quando il testo dantesco presentava, in lingua originale, passi di difficile comprensione. Acquistata familiarità con la loquela dell’Alighieri, durante gli anni nella penisola la lettura e la discussione dei canti della Commedia divenne un fatto consueto a casa Shelley.
La traduzione di “Matilda gathering flowers” risale, verosimilmente, al 1820.
Inoltratosi nella foresta del paradiso terrestre, Dante arriva nei pressi di un rio. Sull’altra sponda il poeta scorge una donna soletta che canta e raccoglie fiori:


Tutte l’acque che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova bruna bruna
sotto l’ombra perpetua, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna.
Coi piè ristretti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran variazion d’i freschi mai;
e là m’apparve, sì com’elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’era pinta tutta la sua via.
Purg. XXVIII, 28–42.

Lo stesso episodio è transmutato, in inglese, da Shelley conservando la terza rima della Commedia:

Water of purest hue
On earth would appear turbid and impure
Compared with this, whose unconcealing dew,

Dark, dark, yet clear, moved under the obscure
Eternal shades, whose interwoven looms
No ray of moon or sunlight will endure.

I moved not with my feet but mid the glooms
Pierced with my charméd eye, contemplating
The mighty multitude of fresh May blooms
Which starred that night, when, even as a thing
That suddenly, for blank astonishment,
Charms every sense, and makes all thought take
[wing,–

A solitary woman! and she went
Singing and gathering flower after flower
With which her way was painted and besprent.153

Nathaniel Howard

Nato a Plymouth nel 1781, Howard scrisse, a ventitré anni, il suo primo volume Bickleigh Vale and other Poems. Autore inoltre di grammatiche greche e latine, si occupò anche di lingue e letterature orientali. Dal 1812 ebbe l’incarico di ‘headmaster’ presso Harwood House, a Tamerton. La sua traduzione dell’Inferno, in blank verse, è da datarsi, presumibilmente, intorno al 1807, pubblicata con l’intestazione The Inferno of Dante Alighieri, Translated into English blank–verse, with notes historical, classical, and explanatory, and a life of the author by Nataniel Howard. London: Printed for John Murray; and A. Constable & Co., Edinburgh. 1807. Morì nel 1834 a Margate.
I versi 52–57, qui proposti, sono del II dell’Inferno. Virgilio racconta al dubbioso Dante il suo incontro con Beatrice:
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella.

L’incipit del racconto dell’anima cortese mantovana è, invece, così tradotto nella prima cantica di Howard:

With those I dwelt
Who feel nor pain nor pleasure after death,
When to my dazzled gaze a virgin form
Came gliding, fair in angel beauty, came;
And all–commanding, call’ d me near. Her eyes
Like stars a living lustre stream’d. She spake;
Words, sweet as nectar, melted on her lips.
Seraphic flow’d her voice and thus began154.

Ichabod Charles Wright

Ichabod Charles Wright (1795–1871), studiò ad Oxford dedicandosi soprattutto all’apprendimento di materie economiche. Nel 1847 pubblicò Evils of the Currency. Rimase, invece, incompiuta una sua versione dell’Iliade. Wright impiegò circa dieci anni per dare alle stampe l’intera traduzione, in strofe di sei versi rimati, della Commedia155: nel 1833 apparve l’Inferno, nel 1836 il Purgatorio e infine nel 1840 il Paradiso. Nel 1845, nel 1850 e nel 1859 l’opera venne riedita con numerose correzioni e ampliamenti.
I due testi riportati, in originale e in lingua inglese, sono tratti dalla terza Cantica, XVII, vv.103–114. Il poeta fiorentino si rivolge al trisavolo Cacciaguida:

Io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:
“Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’ è più grave a chi più s’abbandona
per che di provedenza è bon ch’ io m’ armi
sì che, se loco m’ è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.
Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi del la mia donna mi levaro.

‘Sire’ I began, ‘I mark how time for me
Prepares a blow that heaviest falls on those
Who look for it with most despondency:
Therefore with foresight let me arm my breast,
That if I lose the place I cherish most,
The boldness of my verse lose not the rest.
Down in the world of endless misery,
And on the mountain, from whose beauteous coast
The eyes of Beatrice exalted me’156.

John Aitken Carlyle

John Aitken Carlyle (1801–1879), medico, esercitò poco questa professione, rivolgendo i suoi interessi principalmente allo studio delle lettere. La traduzione dell’Inferno, in prosa, comparve nel 1849 e doveva essere, nel disegno dell’autore, una “correct edition” della prima Cantica in lingua italiana, supportata da note e commento in inglese. Il lavoro venne presentato col titolo Dante’s Divine Comedy: The Inferno. A Literal Prose Transaltion, with the Text of the original collated from the best editions, and explanatory notes. By John A Carlyle, M. D. London: Chapman and Hall. 1849.
Il brano in prosa, che segue alle terzine della Commedia, è la resa della fine del III dell’Inferno, vv. 130–136. Sulla riva d’Acheronte Dante, impaurito da un improvviso terremoto, perde i sensi e cade come, l’uom cui sonno piglia.

Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’ uom cui sonno piglia.

“When he had ended, the dusky champaign trembled so violently, that the remembrance of my terror bathes me still with sweat. The tearful ground gave out wind, and flashed with crimson light, which conquered all my senses: and I fell, like one who is seized with sleep”157.

Claudia Hamilton Ramsay

Pochissime sono le notizie sulla prima traduttrice inglese di Dante. Sconosciuta è la data di nascita e quella di morte, si sa solo che fu autrice di un libro intitolato A Summer in Spain, e che abitò per alcuni anni in Italia, stabilendosi a Roma.
Nel 1862 la Ramsay pubblicò le prime due Cantiche della Commedia e nel 1863 il Paradiso, tradotto, come il resto dell’opera, in terza rima.
Ai piedi del monte del Purgatorio, canto III, vv.121–23, Dante colloquia con re Manfredi. Questi, nella schiera degli scomunicati che si pentirono in punto di morte, dice al fiorentino:

Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.

La terzina è proposta da Claudia Hamilton Ramsay nella sua lingua conservando la terza rima dell’italiano.

In life my sins did God’s great judgments brave;
But yet his arms of tender love embrace
All who return to him before the grave158.

William Michael Rossetti

Saggista e studioso di cose d’arte, William Michael Rossetti (Londra 1829–1919) apparteneva alla nota famiglia di letterati e di poeti. Fu direttore del giornale “The Germ”, la rivista dei ‘pre–raffaelliti’, pubblicò il volume Democratic Sonnets, e vari scritti di critica letteraria, tra i quali discreto successo ebbero Life of Some Famous Poets, e Life of John Keats.
La sua versione inglese dell’Inferno fu volutamente fatta stampare nel 1865, a seicento anni dalla nascita del poeta. Sul frontespizio si legge: The Comedy of Dante Allighieri (sic). The Hell. Translated into blank verse by William Michael Rossetti, with introduction and notes. London and Cambridge: Macmillan and Co. 1865.
I due passi, in lingua originale e nella transmutazione in ‘blank terzine’, sono tratti, rispettivamente, dai canti XXX, vv.22–24, e V, vv.121–123:

Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mai in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane
quant’ io vidi…

But neither Trojan furies nor of Thebes
Were ever against any seen so fierce,
Nor beasts be stabbed–(I say not human limbs)–
As I beheld…

Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria;

There is no greater grief
Than to remember one of happy time
In misery159.
Tavola cronologica dei traduttori e delle principali edizioni inglesi della Commedia


–Charles Rogers (1711–84), The Inferno of Dante Translated. London: printed by J. Nichols; and sold by T. Payne and Son, J. Dodsley, B. White, J. Robson, P. Elmsly, C. Dilly, Leigh and Sotheby, P. Molini and T. Evans. 1782. Blank verse.

–Henry Boyd (1755–1832), A Translation of the Inferno of Dante Alighieri in English Verse with Historical Notes, and the Life of Dante to which is added a specimen of a new translation of the Orlando Furioso of Ariosto. By Henry Boyd, A. M., London: printed by C. Dilly. 1785, 2 vols.
–The Divina Commedia of Dante Alighieri consisting of the Inferno–Purgatorio–and Paradiso. Translated into English Verse, with preliminary essays, notes, and illustrations, by the Rev. Henry Boyd, A. M., Chaplain to the Right Honourable the Lord Viscount Charleville. London: Printed by A. Strahan for T. Cadell Jun. and W. Davies. 1802, 3 vols. Strofe di sei versi in rima.

–Henry Francis Cary (1772–1844), The Inferno of Dante Alighieri, with a translation into English blank verse, notes and a life of the author by the Rev. Henry Francis Cary, A. M., London: Printed for James Carpenter. 2 vols, 1805–6.
–The Vision: or Hell, Purgatory and Paradise, of Dante Alighieri. Translated by the rev. Henry Francis Cary, A. M., London: Printed for the author by J. Barfield. 1814, 3 vols.

–Nathaniel Howard (1781–1834), The Inferno of Dante Alighieri, Translated into English blank–verse, with notes, historical, classical, and explanatory, and a life of the author by Nathaniel Howard. London: Printed for John Murray; and A. Constable & Co., Edinburgh. 1807.

–Joseph Hume (1767–1843), Inferno: A Translation from Dante Alighieri into English blank verse by Joseph Hume Esq. London: Printed for T. Cadell and W. Davies. 1812.

–Ichabod Charles Wright (1795–1871), Dante. Translated by Ichabod Charles Wright, M. A. A new edition revised and corrected. London: Longmans. 1845. Strofe di sei versi rimati.

–John Dayman (1802–1871), The Inferno of Dante Alighieri, translated in the terza rima of the original with notes and appendix by John Dayman, M. A. London: William Edward Painter.1843.
–The Divine Comedy of Dante Alighieri, translated in terza rima by John Dayman, M. A. London: Longmans. 1865.

–John Aitken Carlyle (1801–1879), Dante’s Divine Comedy: The Inferno. A Literal Prose Translation, with the text of the original collated from the best editions, and explanatory notes. By John A. Carlyle, M. D. London: Chapman and Hall. 1849. Prosa.

–Patrick Bannerman (?), The Comedy of Dante Alighieri. Translated by Patrick Bannerman, Esq. Printed for the Author by William Blackwood and Sons, Edinburgh. 1850. Verso irregolare.

–Charles Bagot Cayley (1823–1883), Dante’s Divine Comedy, translated in the original ternary rhyme by C. B. Cayley, B. A. London: Longmans, 4 volumes: The Vision of Hell, 1851; The Purgatory, 1853; The Paradise, 1854; Notes on the Translation, 1855.

–E. O’ Donnell (?), Translation of the Divina Commedia of Dante Alighieri. By the Rev. E. O’Donnell. London: Thomas Richardson and Son; Dublin; and Derby. 1852. Prosa.

–Thomas Brooksbank (1824–1902), Dante’s Divine Comedy. The First Part. Hell. Translated in the Metre of the Original with Notes. By Thomas Brooksbank, M. A. Camb. London: John Parker and Son . 1854.Terza rima.

–William Frederick Pollock (1815–88), The Divine Comedy; or The Inferno, Purgatory, and Paradise, of Dante Alighieri, born MCCLXV, died MCCCXXI, rendered into English By Frederick Pollock, Esq. with fifty illustrations drawn by George Scharf, Junr. London: Chapman and Hall. 1854. Blank terzine.

–Bruce Whyte (?), A Free Translation, in verse, of the ‘Inferno’ of Dante, with a Preliminary Discourse and Notes by Bruce Whyte, Advocate, Author of ‘A History of the Romance Tongues and their Literature’. London: Wright & Co. and Simpkin, Marshall & Co. 1859. Rima irregolare.

–John Wesley Thomas (1798–1872), The Trilogy; or Dante’s Three Visions, translated into English, in the metre and triple rhyme of the original; with notes and illustrations, by the Rev. John Wesley Thomas. London: Henry G. Bohn. 3 vols. (Inferno 1859; Purgatorio 1862; Paradiso 1866).

–William Patrick Wilkie (1829–1872), Dante’s Divina Commedia. The Inferno. Translated by W. P. Wilkie, Advocate, Edinburgh: Edmonston and Douglas. 1862. Rima irregolare.

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Bianca
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