ALTRO       di Rubicande

 

back     next

 

Tutto sommato ritengo di essere un sopravvissuto, anche se "vivere" o
"vivente" non sarebbe stato un termine adatto a me. Diciamo semplicemente
che lasciavo correre intorno a me questa pratica che è l'esistenza. Vi è una
ragione precisa per questo, cercherò di ricordarla senza troppa benevolenza
nei miei confronti; così, per illudermi di potermi ancora ritenere sincero.
Sono sopravvissuto agli anni trenta, in quel periodo se avevi tra i 17 e 23
anni potevi tranquillamente decidere di rimanere a casa: se non volevi farti
male. Successe che sì illuminò la mente assopita del "segui come e
consigliato vivere" con una rivelazione sociale, mirata a risolvere i
problemi del mondo; davvero un'ottima idea lasciatemelo dire, se non fosse
che le illuminazioni fossero due: opposte in aperto contrasto tra di loro.
Si scendeva in strada allora, si colpiva. Periodicamente così, la città
diveniva un curioso ring dove potevamo ferirci per affetto.
Io ero uno dei più orgogliosi predicatori; se sei in massa non paghi le
conseguenze dei tuoi gesti, e sufficiente farsi guidare come una macchina
senza anima. Ma una cosa devo chiarire, in quest'orto in cui tutto e
concesso vi e solo un frutto proibito: il cercare di riaddentare la propria
anima, di questo fui colpevole io. Avvenne che mentre espletavo le mie
funzioni nel tranciare e nel contundere, riconobbi una cosa inibita quando
ci si avventa da una massa contro un'altra massa: scorsi un odiato
individuo.
Non motiverò quell'odio ora, ammetterò semplicemente che era una mia singola
sensazione quel disprezzo. E così mentre il mio gruppo avanzava, "io"
voltavo leggermente a quella destinazione, poi io piegavo verso di lui;
infine con non so cosa, e al punto giusto colpii. Vidi cadere davanti a me
una persona fisicamente ferita, sentii la paura in me perché era quella la
prima volta che vedevo le conseguenze delle mie azioni con i miei propri
occhi (*).
Quel giorno mi resi consapevole di quello che ero, non avevo più intenzione
di alimentare un'anima sporca; morì in me ogni passione. Vissi da quel
giorno tra i metodi della scuola e la sicurezza della casa: lasciandomi
andare; nell'attesa e nel silenzio.
Già sei anni dopo il destino giocava di nuovamente con me; vediamo, avevo 24
anni. Si sei anni quasi esatti erano passati, era, infatti, il 2438 un altro
paio di generazioni e saremmo arrivati a metà di questo bizzarro terzo
millennio. Vivevo vicino ai miei genitori, avevo lasciato la famiglia per
spazio, ma senza mai abbandonare la mia casa veramente: non avevo la
passione e il desiderio di un'altra destinazione.
Ero in spiaggia di notte e solo, aveva piovuto da poco e si sentiva l'
intenso odore polveroso della pioggia leggera sulla sabbia, bevevo da una
lattina una bevanda analcolica. Mi tormentavo riflettendo ora sulla mia vita
sprecata ora sulla antica colpa di violenza, riuscendo a sopprimere il mio
desiderio di rivalsa sull'una grazie all'altra e viceversa. Mantenendo cosi
quel perfetto equilibrio che è il  fibrillare costantemente se stessi.
Avevo come unico spettatore di fronte a me luminescente e orgogliosa tra le
nuvole, la luna. Su di essa esistevano molte costruzioni militari una in
particolare era pienamente visibile a occhio nudo dalla terra: una enorme
base; per qualche bizzarre scherzo del destino essa era proprio sotto quello
che pareva il suo scuro occhio sinistro; era come una macchia, stretta in
cima che si allargava a goccia sul suo volto eternamente sereno. Questo
vedevo, come se anche la luna piangesse anche lei i suoi inganni; che aveva
dovuto subire da noi uomini invidiosi della sua natura divina.
E curioso, il suono che fanno i passi di una persona che cammina sulla
sabbia bagnata senza calzature adeguate, quel suono già mi rese fastidioso l
'individuo responsabile, se poi si aggiunge che si rivolse a me in una
lingua, che non conoscevo per giunta; bhe allora.
"Amico, che mi colga il diavolo in persona se capisco una sola parola della
tua infernale lingua" risposi così perché ero irritato, e ne avevo tutto il
diritto: il francese che ero stato costretto a imparare a scuola aveva ben
saziato il mio desiderio di conoscere altre culture.
Mi rispose con una risata e qualche parola del più abbozzato itagliano che
un italiano e in grado di comprendere (FP: bhe ma se state ancora leggendo
quello che scrivo io.vuol dire che in fondo siamo abbastanza comprensivi),
senza aspettare una mia risposta mi chiese per accertarsi della mia
identità, quindi ignorando quando avevo da dire mi propose "Come ti ho già
detto sono un vecchio amico dei tuoi genitori" (non ricordo precisamente
come parlava; mi limiterò a riportarne il succo) "Loro mi hanno detto che le
cose non ti vanno bene qui; che ne diresti di seguirmi?" mi rendo conto ora
di non aver minimante descritto l'individuo che avevo di fronte: esso era
una persona abbastanza avanti con gli anni, ma non con la mente; gli
coronava la testa una spuma bianca di capelli crespi e ribelli affiancati in
questo da occhi attenti a ogni movimento, molto smilzo nel corpo e nell'
animo si mostrava come una persona che non solo aveva addentato per molto
tempo ma che si apprestasse a farlo ancora di continuo.
"Aviatore? Non so, non direi" infine gli risposi, aveva parlato molto e a
lungo, descriveva gli avio-vascelli le navi dell'aria, oppure parlava dei
motori che sollevavano nello spazio siderale così meravigliosi castelli; e
lo diceva con una passione tale che avresti voluto tuffarti all'avventura
solo al sentire questo.
"Ragazzo mio la vita e fatta per navigare nello spazio, io ti ho scelto:
semplicemente non hai il diritto di rifiutare" agiva in me ormai profondo il
veleno dal desiderare di rifiutare, ma nella mia mente già si muoveva
qualcosa di euforico nel "non averne il diritto".
Così "convinto" senza mio merito a partire misi per la prima volta piede su
uno di quei dannati apparecchi volanti, col pensiero che un giorno avrei
dovuto pilotare qualcosa di simile. E pensare che da cinque secoli mettevamo
in concorrenza la sicurezza delle carrozze motorizzate con l'incertezza
offerta da apparecchiature volanti; l'instabilità mentale spesso si chiama
progresso.

Imparare e avere compiti, non vi era nulla di speciale in questo; feci la
mia carriera in due anni. E già avevo pieno diritto sul volo, ma ancora non
sentivo nulla di risolto nella mia vita. Gli avvenimenti si mossero ancora.
Di rado vedevo il vecchio amico: che ora era un mio superiore; quella sera l
'incontrai in uno dei corridoi. Era euforico canticchiava come ogni sera tra
l'altro, raramente ci parlavamo, io ancora non mi fidavo della mia
pronuncia: avevo imparato prima le cattive abitudini della lingua che
parlavo piuttosto che la grammatica, ma mi rivolsi a lui in ogni caso.
".ha! Non immagini quanto. Finalmente ragazzo mio e sera!" "Riposo? Dio no!
La sera ragazzo mio si vive!" "mmmh.già ma vedi ragazzo sei sicuro di voler
andare a dormire proprio ora? Domani e domenica." cosi rispondeva alle mie
domande, mi resi conto che lui poteva convincermi a qualunque cosa. Quella
sera allora uscimmo insieme, ci recammo in un bar  tendenza.
Luci blu rilassanti, dissolvevano il loro colore in tonalità calde, fredde
miscugli rilassanti che seguivano i battiti di una musica che vi sarebbe
parsa assordante solo alla vostra prima entrata; poi il fumo, pareva
studiato apposta per dissolvere l'ambiente: non puzzava. In fondo alla
nebbia un bancone irragionevolmente lungo; ricordo quello corto in un bar
del mio paese: la macchina del caffè occupava metà bancone, restavi con un
braccio fuori se avresti bevuto il cappuccino con troppe persone nel locale.
"Qui ci dividiamo ragazzo, bevi qualcosa il resto sarà spontaneo". Mi
avvicinai al bancone, non aveva nulla di rilevante su di esso: birra, alcol,
altri tipi di alcol credo e spugne in mano ai barristi, e ha, si; anche
spugne vive (se si può dire così), avevano la testa posata lì sopra con idee
immonde che giravano per essa, ogni tanto la sollevavano e si allontanavano
credendo di portar via quei grandi quesiti. Non si accorgevano però che
proprio lì avevano lasciato una macchia d'alcol dove in realtà erano rimaste
intrappolate quelle geniali idee: quelle spugne scrittori probabilmente.
Senza rispetto un barista passava il panno inumidendola di quelle
rivelazioni e svuotandole nel lavandino: impegno di chi, quel lavoro e la
critica.
Mi diressi verso quello che avevo catturato la mia attenzione da quando ero
entrato, una schiena al bancone, a mandolino come ho sentito che si dice;
ella portava pantaloncini neri aderenti, la luce soffusa blu cadeva
dolcemente sulle sue spalle ma. come cadeva più in basso, che ombre
deliziose le segnavano i bordi delle mutandine attraverso il tessuto
aderente, mentre mi avvicinavo alla sua destra come vibrava la mia mano nel
desiderio di portarmi a un atto di incredibile scortesia, raggiuntomi
parallelo a lei voltai nel guardarne il profilo: la coda rossa dei capelli
che si disperdeva in una massa ondulante dalle  spalle, le labbra e quel
naso che delimitava l'ombra dell'esistenza di quella stupenda creatura; con
al centro il lato di una gemma verde dall'insano taglio (perché lo giuro,
solo un maestro folle poteva scolpirli giacché vi è nella follia l'
irripetibile).
Si accorse di me, che misuravo con lo sguardo, che seguivo qualsiasi linea
lei fosse costretta a crearmi davanti solo per muoversi; Tentò di
parlarmi.credo, mi stavo lasciando sfuggire una possibilità solo perché
desideravo, allora smisi di desiderare e parlammo quella sera: con un po' di
alcol, e più avanti quando la notte più era intensa con inviti maliziosi.
Lei conosceva un buon posto per amarsi, con un taglio nervoso in bocca dalla
gelosia sorrisi e chiesi semplicemente dove.
Uscimmo dal locale ci addentrammo nelle vie della città, ora che avevamo
abilitato noi stessi al contatto ne approfittavamo in ogni momento per
strada. Dove le luci al neon non arrivavano a causa di uno sviluppo urbano
frettoloso noi entravamo nel buio, incrociavamo le labbra e assaporavamo.
Nella hall il giallo molto chiaro creava un affascinate effetto oro, ma
avendoci era quasi irrilevante. Prendemmo le chiavi per una stanza, quando
arrivammo alle scale rimasi maliziosamente più indietro rispetto a lei, che
reggendomi il gioco mi offrì l'eccitante visuale della sua siluette (FP: ma
come cavolo si scrive!) ancheggiante. Ci accalcammo scherzosamente alla
porta prima di entrare.
Non ricordo minimamente come fosse la nostra camera, incrociato il divano
credo che l'avremmo fatto lì se lei non mi avesse guidato fino al letto, una
volta lì sopra la distesi e mi obbligai su di lei, le cinsi i polsi con le
mie mani di fianco alla sua testa, così per sentirmi ogni diritto su di lei
nel poterla guardare e prendere, aggirò rapidamente le mie intenzioni:
mentre sorrideva con un invito sulle labbra sollevò leggermente la sua gamba
a massaggiare mirando a irrigidirmi.
Lasciai i suoi polsi e mi sollevai sul letto in ginocchio con l'intenzione
di slacciarmi i pantaloni quando lei mi blocco circondandomi in vita con le
sue gambe, ancora non mi ero liberato completamente dei miei vestiti che già
premevo irrigidito al centro delle sue cosce fermato dalle mie mutande e i
suoi pantaloncini, "Aspetta, guardami" cosi dicendo si libera dalla sua
maglietta per attimi che mi paiono eterni guardo i suoi seni pieni anche in
quella posizione che di solito mira a appiattire, poi copre con l'indice e
il medio delle sue mani i capezzoli, soddisfatta di questo scherzo-invito mi
sorride, eccitandomi all'inverosimile.
Quasi ora rovino tutto nel fare frenetico di spogliarmi, ma quando inizio a
spogliare lei ritorna in me il desiderio di godere di ogni istante, da sotto
l'ombelico inizio a abbassare i suo pantaloncini mentre lo faccio mi sistemo
di lato e lecco le sue mutandine, sollevando lo sguardo la vedo massaggiarsi
i seni e sento il suoi sospiri delicati; poi la liberai anche di quelle
sempre molto lentamente fino a quando potevano celarmi la parte che avrei
penetrato grazie all'eccitazione che lei mi concedeva. Ad un tratto lei si
sollevo, apri un cassetto del comodino di fianco al letto e sicura di
trovare quello che cercava ne estrasse un preservativo, poi tornata da me
messasi a quattro zampe di fronte a me afferro il mio arnese e iniziato a
stimolarlo con le mani poi si aiutò facendomi provare così il delicato
tessuto delle sue labbra, dopo avermi stimolato così per paradisiaci istanti
quando arrivavi a una rigidità che mai sarei stato in grado di credere mi
fece indossare il tessuto trasparente di plastica, mi dilettai comunque a
poggiarlo sul suo volto ancora mentre mi guardava con i suoi occhi così
pieni di erotismo e bellezza, poi il desiderio del suo volto mi spinse a
baciarla ancora a discapito di tutto; quindi lei si sdraiò nuovamente sulle
sue spalle, e mentre mi piegavo su di lei per leccarle i seni e con una mano
cercavo la mia rotta dentro di lei sentii nuovamente che le sue gambe si
chiudevano intorno a me, accolto da questa delicata entrai come lei mi
guidava.
Scorrevo in su e giù sopra di lei, respiravamo appassionatamente insieme, a
volte baciavo la sua bocca come a voler catturare il suo respiro mentre ero
maggiormente dentro di lei. Altre volte muovevo velocemente il bacino per
brevi tratti per aumentare il ritmo e approfittare della situazione
baciandola e penetrarci le bocche a vicenda giocando cosi anche con la
lingua.
Muovevo anche le mani da una parte all'altra, ovunque sentissi per istinto
che la presa sarebbe stata più eccitante.

Fine

 

 

back     next

 

By Rubicande