LA
FIERA STORICA DI SANT'AGATA MILITELLO
di
Nuccio Lo Castro
tratto
da "L'Arca delle tradizioni" (Alcune feste e fiere dei Nebrodi) -
Estratto da «Feste Fiere Mercati» - vol. II
.
1.
L'economia prevalentemente pastorale e agricola dei paesi nebroidei
ha trovato nel raduno fieristico santagatese
una delle più favorevoli occasioni di mercato. Nella fascia costiera, in
cui erano possibili più agevoli comunicazioni e su cui gravitava una serie di
piccoli centri di popolazione che rendevano utile la pratica della mercatura
girovaga, l'attuazione di una fiera così
consistente assicurava la possibilità di incontro per la vendita dei capi di
bestiame e l'acquisto dei prodotti artigiani e «di consumo» agli abitanti di
una parte dell'Isola che viveva in singolare isolamento.
Molta
parte di questo territorio, totalmente soggetto ai monasteri brasiliani1 solo al
principio della
conquista normanna caposaldo del Regnum
e dunque variamente infeudato, trovò nella fascia litoranea il naturale punto
di incontro e confluenza, a cui si accedeva attraverso le più facili vie
che affiancavano i percorsi fluviali, naturale trama di comunicazioni di un
siffatto sistema montagnoso.
Le
fiere che ebbero in età medioevale molta fortuna, erano state quelle di Patti,
Tripi, Randazzo, S.
Fratello e Nicosia, quasi tutti centri
lontani dal mare; nella fascia costiera, sempre decantata da scrittori, geografi
e viaggiatori antichi per bellezza e feracità2,
erano le fiere di Pietra di Roma (S. Giuliano) e S. Pietro di Deca, che
si tenevano nella Piana di S. Marco3,
nella misura in cui alcune ragioni di insicurezza del litorale ne
consentissero lo svolgimento4.
Qui una debole resistenza ai pericoli che venivano dal mare opponevano alcune
vecchie torri non sempre efficienti5
ma assegnate al presidio dei traffici che si svolgevano lungo l'asse
viario costiero e dei numerosi caricatoi6.
Pure nella «marina» di Militello, compresa
tra le foci dell'Inganno e del Rosmarino (l'antico Chyda),
tenevano convegno annuale i trafficanti, e la favorevole posizione ebbe ad
assicurare una sempre maggiore fortuna a tali fiere.
L'abate
V. Amico, descrivendo il sito di S. Agata7,
scriveva nel XVIII secolo: «Celebre torre di guardia nella parte aquilonare
dell’Isola appo Capo d'Orlando...,
la torre è armata di artiglierie ad allontanare i pirati e tutelare le magnifiche
fiere tenutevi ogni anno con gran concorso
del vicinato». L'erudito siciliano
annotava un fatto constatabile nel suo tempo;
tuttavia bisogna credere che egli facesse riferimento ad una tradizione che
voleva gli scopi addotti quali motivi dell'esistenza stessa e della fondazione del grande castello.
Peraltro, una serie di
documenti facenti parte dei titoli di casa Gallego8
insiste sull'antichità e l'importanza di questo mercato, sottolineando come «sempre,
ab antico et da chi non vi è memoria d'huomo
in contrario, (si fosse fatto) una fera
nella Marina di S. Agata», «cossì celebre per tutto questo Regno», e si avesse «continuato con grande
concorso di genti»9.
I
baroni Gallego avevano assunto la signoria di Militello nel 1573; Girolamo,
figlio di don Giovanni Gallego nato da un cavaliere aragonese e da una
principessa azteca e castellano del
Salvatore a Messina10,
aveva sposato donna Angela Rosso, discendente di un casato che dal tempo dei
Martini aveva posseduto la cittadina. Nel 1600 titolo e beni passarono al figlio
Vincenzo, il quale nell'aprile 1620 ottenne
dalla Regia Curia il mero e misto imperio con facoltà di fabbricare un
castello presso le torri «vocatis di S.
Agata distantibus a terra Militelli
circa quattuor mille passus, quam aedificatione
(il barone) intendit proseguere illaque parietibus
et turribus munire pro offensione
et defensione ad inimicis nostrae sanctae fidei»11.
Dovettero
essere frequenti e feroci in quel tempo le incursioni piratesche, tanto da
esigere una maggiore difesa della costa («dove sogliono andando in terra i
nemici fare un gran danno,
come fecero le otto galere di Diserta sbarcando tanti mori che pottero depredare
le masserie della piana di S. Marco e la
stessa Terra, ammazzando alcuni vecchi,
altri cattivando, e contrappassando più
oltre alla montagna seguendo la gente che fugia...»)12.
Quando
nel 1629 il duca di Alburquerque firmava la
lettera esecutoria della concessione, alla marina di S. Agata si stava già
fabbricando la fortezza13.
Luigi Gallego, ricevuto il titolo di marchese, ottenne nell'anno
successivo per un rescritto di re Filippo IV la «pia facoltà di popolare S.
Agata»14.
La fondazione di un casale sulla costa lascia pensare che andava sensibilmente
mutando la realtà socieconomica del
territorio; nello stesso centro di Militello, privato
dei villani che andarono ad abitare il nuovo villaggio, il numero degli abitanti
si accresceva di oltre quattrocento unità rispetto al secolo precedente15.
Le
campagne, generalmente coltivate ad ulivi e «lavurativi»,
vennero dal secolo XVI ad ospitare soprattutto «vigni celsi
et arbori domestici», testimoniando un deciso intervento di riconversione
delle colture, che fu alla base dell'arricchimento
di una agiata classe di proprietari terrieri16.
La produzione della seta nei vari centri fu notevole e consistente fonte di
guadagno per quasi tutta la popolazione, incoraggiata dall'incremento
della domanda che ebbe una punta massima intorno all’anno
166017. Dagli scali di Naso,
S. Marco e S.Fratello
partivano carichi con lo zucchero prodotto nei locali opifici
alla volta delle grandi città18.
La
maggiore produzione di beni, che dovette influire sull’accresciuto
tenore di vita, la progressiva risoluzione del problema della difesa costiera
(nei documenti di fine secolo non si accenna più al problema della pirateria) e
l'esistenza di osterie e fondaci sulla costa,
che assecondavano una maggiore mobilità ai fini commerciali, furono i motivi
per l'incremento delle fiere che fin da quel
tempo poterono dirsi giustamente «magnifiche».
2.
Don Gaetano Gallego Ventimiglia,
che nel 1692 aveva ricevuto titolo e investitura di principe di Militello
e marchese di S. Agata19,
dovette chiedere intorno alla fine del secolo XVII un riconoscimento
della fiera, del cui privilegio avevano sempre goduto i suoi succoncessori;
in quegli anni gli era stata tentata causa da don Diego Joppolo Ventimiglia, duca di
Sinagra
e conte di Naso, il quale pretendeva che si abolisse la fiera in quanto veniva
quasi a coincidere col mercato di Capo d'Orlando,
avuto per concessione del 1697. Gli atti relativi alle petizioni rivolte al
Tribunale del Real Patrimonio e le rispettive
concessioni 20,
costituiscono dei preziosi documenti che restituiscono una quantità di
dati storici. Il primo è un privilegio del 28 luglio 1700 col quale al principe
veniva riconosciuto il diritto di fare la fiera, con le modifiche apportate
dagli ottenimenti del conte di Naso; il secondo, datato 50 marzo 1705, è la
supplica di venire ad una precisa definizione delle date, accolta dal viceré
e sufficiente a porre fine alla controversia21.
Quest'ultimo ricapitola le varie fasi della
disputa: «Siamo stati supplicati dall'ill.mo
don Gaetano Gallego, prencipe
di Militello Valdemone,
marchese di Sant'Agatha del tenor
che segue: che ritrovandosi nella quota e
pacifica possessione, come li suoi antecessori,
di fare ogn'anno
sotto li 24 ottobre la fora nella Marina di S. Agatha,
tanto celebre per tutto questo Regno, della quale non vi è memoria d'huomo
in contrario, nell’anno 1697 si pretendesse – dall’illustre Conte di Naso
e dal Sacerdote
don Francesco Zafarano,
cappellano della chiesa di S. Maria di Capo d'Orlando, fabricata nello scaro o marina del Castello
di Capo d'Orlando in virtù di un atto fatto
tra il predetto Conte e li vassalli della terra di Naso, per la quale si
concesse dal d. Joppulo facoltà di fare fera
nel giorno delli 21 ottobre d'ogn'anno,
nel quale si celebra la festa di Nostra
Signora di Capo d'Orlando - impedire detta fera nella Marina di Sant'Agatha»22.
Essendosi
aspramente contestato il «possesso che l'ill.mo
principe è suoi antecessori ha e hanno avuto», il 16 dicembre 1699 la
sentenza del Tribunale si pronunziò per la «proibitione di detta fera», riservando
al principe Gallego la facoltà di appellarsi e avanzare una nuova richiesta di
concessione.
Don
Gaetano Gallego, nella speranza di dimostrare con tutti i mezzi «l'immemorabile
possessione e concessione del privilegio», fece istanza nell’anno
successivo perché venisse confermato il suo diritto come era stato per il
passato. Nel documento, il procuratore don Filippo di Paola fa presente
come il principe ed i suoi predecessori «hanno sempre, ab antiquo
et da che non vi è memoria d'homo
in contrario, fatto una fera
nella Marina di S. Agatha propria di detto
illustre Principe con le franchelle della Doghana
o gabelle baronali spettanti ad esso sig.
Principe il giorno di 24 ottobre d'ogni anno,
quale fera intende l'esponente haversi
fatto e così doversi fare l'avvenire».
Questo a motivo del fatto che il principe aveva goduto sempre di tali privilegi
anche se era in quel momento nell'impossibilità
di presentare i carteggi «per ritrovarsi morti l'Illustre Principe e
Principessa suoi parenti e l'illustre signora donna Angela Gallego23,
li quali erano informatissimi di tutti li
privilegi della casa... et per varii accidenti occorsi che hanno deperso molte
scritture»24.
Contro
di esso aveva tentato giudizio il conte di Naso, «pretendendo di
fare proibire la detta fera sotto vano pretesto che egli habij avuto una simile concessione di fera... nella Marina di Capo d'Orlando
per li giorni 21, 22 e 23 di ottobre d'ogni anno, benché per molti e molti anni
non have avuto execuzione».
Gli stessi testimoni e vassalli del conte di Naso, pur asserendo che quel
mercato s'avesse fatto nella cittadina del
Capo, tuttavia «non hanno potuto negare che la fera di S. Agatha si
abbi sempre continuato con grande concorso di genti, senza contradizione
alcuna»25.
La
situazione era comunque tale che il nobile nasitano
poteva esibire il privilegio recentemente ottenuto; faceva ricorso al fatto
che il Gallego non possedesse al momento alcun documento e rilevava l'incompatibilità
fra le due fiere distanti appena dieci miglia e svolte con reciproco danno quasi
contemporaneamente.
Nell'atto
il principe di Militello, sicuro dell'ereditato
possesso della licenza, faceva domanda perché gli venisse confermato il
diritto alla fiera, da farsi a partire dal 24 ottobre26,
non avanzando comunque una nuova richiesta. Il conte Joppolo,
allora in causa pure per analogo motivo con don Corrado Lanza
duca di Brolo e barone di Ficarra (la fiera
presso quel castello si svolgeva alla fine di ottobre), chiese ai giurati che
non venisse concesso quanto richiesto dal Gallego; piuttosto si concedesse «per
un tempo congruo et opportuno, il quale non fosse di danno alle fere
di Capo di Orlando». Forte della favorevole sentenza della precedente
causa, egli pretese infatti che in nessun modo si dovesse concedere licenza
nel mese di ottobre né al principe di Militello né
al nobile di Brolo27.
Fornendo delle sue indicazioni egli suggerì che al primo si ammettesse di fare
una fiera settimanale «incipiendo a die vigesimo
primo septembris et quo
ad dom. ill. ducem Broli in eius maritima
Castri Broli per dies quatuor incipiendo
a die vigesimo nono»28.
Il testo della concessione che sortì recitava: «concediamo licenza
all'Ill.mo Principe che possa fare la fera
nella Marina di S. Agatha
per il termine di giorni sei incominciando dalli ventuno sett.
di ogni anno per tutti li ventisei (nella)
forma come pria per il passato ha fatto...
con tutte quelle potestà, autorità,
preminenze, lucri, emolumenti
e franchezze, immunità, esenzioni della Doghana
baronale, come di tutte quelle altre gabelle che per il passato have goduto e soluto godere e concesso e potuto concedere alli
mercanti che hanno venuto in detta fera...»29,
non intendendosi accordata la franchigia da alcune tasse (donativi regii
e regie segrezie), ma avendo la protezione
degli ufficiali del Regno 30.
A
distanza di tre anni, durante i quali la
fiera della Marina subì una notevole flessione, don Gaetano
Gallego chiese la revoca della sentenza, «conoscendo dall'esperienza
che la fera non ci riesce e resta inutile, (perché) in detto tempo per
essere le persone applicate al raccolto del musto,
e per il caldo che fa e la malaere, non
vengono né mercandanti
né compratori»31.
«Per
non perdersi detta fera cossì celebre»32
egli chiese «licenza di potere fare la fera nella Marina di S.ta
Agatha, come ha fatto per il passato... dalli 16 novembre d'ogn'anno
sino alli 24 del medesimo, e dell’istesso
modo e maniera che s'ha per il passato
costumato, con facoltà e potestà di poterla fare bandizzare
per tutto il Regno come sempre s'ha fatto,
affinché venghi alla notitia d'ogni uno». Il
Tribunale del Regno confermò le concessioni delle franchigie baronali «et
immunità delle gabelle che si concedono et hanno concesso in altre fere di questo Regno, e
nell'istessa forma
e maniera che si prattica in altre città e
terre di questo Regno dove vi è una fera annuale, nella cui conformità
permettiamo che l'Illustre supplicatore
(il principe Gallego) e li suoi ufficiali la possano far pubblicare e
bandizzare nelle città e terre convicine, a fin ché
ne tengano la dovuta nota, e li mercadanti
possano liberamente immettere tutte sorti di mercanzia, bestiame et altri...»
33.
La
concessione bastò a sopire ogni lite; il periodo e la durata furono in tal modo
definitivamente stabiliti. I signori feudali continuarono nella «pacifica
possessione» degli antichi diritti, dei quali faceva unicamente eccezione il
pagamento delle gabelle doganali, dei regi donativi e segrezie.
Le occasioni del mercato erano motivo di consistenti entrate economiche per il principe, il quale esigeva inoltre «il dritto del peso della
seta, che si vende nella fera per la Bilancia che adibisce per il commodo dei mercadanti
compradori... e (il dritto) sopra ogni genere
che dalla Terra e territorio di Militello e
casale e territorio di S. Agata in ogni tempo
si estrae» 34.
Nel
secolo XVIII la campagna era ricca «di biade, piantata a oliveti, gelseti e
fornita di alveari che danno un mele tanto
soave»35.
Come il Meli affermava circa il vicino centro di S. Marco, era notevole «la
produzione di frumento, vino, olio e fichi,
…ma soprattutto il prodotto della seta (manteneva) per la sua
abbondanza tutti i naturali»36.
Uniche,
importanti occasioni di scambio erano appunto le fiere annuali, in cui oltre
ai capi di bestiame venivano immessi nel mercato i prodotti della terra,
formaggi, stoffe e oggetti di uso domestico e contadino, condotti a dorso di
mulo ovvero per mezzo di barconi mercantili37.
Don Giuseppe Gallego Naselli, ultimo detentore del titolo e della signoria di Militello al momento della abolizione della feudalità, chiese e ottenne nell'aprile del 1790 che i diritti sulla vendita della seta e sull'estrazione dei prodotti del feudo in tempo di fiera, concessi alla sua famiglia fin dal 1651, fossero confermati, perché contestati da «taluni inquietanti perturbatori». Così egli chiese che venissero spedite lettere dirette a «tutti e singoli officiali di questo Regno di Sicilia acciò (lo) difendessero e mantenessero nella pacifica possessione dei divisati diritti in cui si trova», ordinando che «contro l’inquietanti perturbatori si pigliassero li legali informazioni e si procedesse alla cattura delle persone»38.
3.
Accresciutasi notevolmente ed oramai in grado
di esprimersi in una identità municipale, S.Agata inoltrò nel 1839 la prima istanza per l'autonomia
amministrativa da Militello, ottenendo il
definitivo riconoscimento nel 185739.
La spartizione delle terre consisté praticamente nell'assegnazione al nuovo Comune di
quella parte più ricca,
favorita dall'incremento delle comunicazioni e venutasi
a definire quale polo di attrazione commerciale, mentre sulla costa si iniziava
ad impiantare moderne piantagioni di agrumi. Nella fascia collinare e montana
si diffondeva sempre più la pratica della pastorizia, per il degrado del
paesaggio agrario, che abbisognava della costituzione di Monti frumentari
al fine di sostenere la produzione granaria. Dal caricatoio
di S. Agata nel 1829 era partito un carico di 20.000 salme di carbone40,
indizio di un intenso sfruttamento a cui faceva riscontro il progressivo
impoverimento del patrimonio forestale. I terreni così degradati costituivano
le ampie aree di pascolo che consentirono una grande diffusione dell'allevamento
bovino ed ovino. La maggiore richiesta della popolazione rurale fece sì che si
potenziasse della fiera l'antica funzione di compravendita del bestiame; mentre
per l'accresciuta domanda dei prodotti della città diveniva sempre più
cospicuo pure il mercato dei generi di consumo.
La
fiera di S. Agata divenne dalla seconda metà
del secolo scorso uno dei più importanti luoghi di affari, allargando il
proprio raggio di attrazione ad una clientela che abbracciava l'intero
Valdèmone. Specialmente il commercio al
minuto veniva a trovare crescente diffusione per la più rapida circolazione
di uomini e merci; a S. Agata funzionavano i servizi di posta (stazione di
cambio dei cavalli e scalo del vapore postale) e il telegrafo nell'omonima
contrada, mentre erano attivi osterie e fondaci costituenti una infrastruttura
essenziale per favorire la mobilità di mercati e compratori. Nel 1895
giungeva inoltre il primo treno nel nuovo, importante scalo ferroviario.
Per
quanto la realtà dell'emigrazione contrassegnasse
il periodo a cavallo fra i due secoli, una crescita demografica (cui seguiva l'espansione
urbana) fu alla base di un consistente sviluppo della cittadina. La fiera
divenne momento distintivo delle attività economiche di S. Agata, della quale
si delineavano sempre più le funzioni di nodale centro di commerci.
L'Amministrazione
Comunale promosse agli inizi del secolo presente una seconda edizione
dell'importante mercato, sulla base delle norme di nuove leggi41
che ne regolavano la materia, da effettuare nei giorni 14 e 15 aprile. La nuova
e l'antica fiera rappresentarono così la prima e l'ultima delle occasioni di
raduno del circondario, nel periodo del bei tempo. Un gran numero di persone
veniva pertanto ad essere richiamato in quanto i due momenti erano i più
opportuni per l'approvigionamento e rifornimento invernale, ovvero per
l'immissione nei circuiti fieristici del nuovo ciclo annuale.
La
fiera di novembre, per quanto avversata spesso dall'inclemenza degli inverni
precoci, continuò comunque ad essere la più frequentata. Ebbe le sue
manifestazioni più imponenti negli anni che andarono dal 1930 al ‘50, anni in
cui con una impennata l'indice demografico segnò l'aumento da 7.000 a 10.000
del numero degli abitanti42.
Da alcune foto del 1937, che riprendevano quasi tutta la zona della fiera,
brulicante di uomini, bestie, carretti e baracconi, si può stimare la
superficie a quel tempo coperta; essa si estendeva per oltre dieci ettari,
occupati dal mercato — disposto sulla strada e le aree su cui insisterà la
passeggiata a mare — e dalla porzione di spiaggia invasta dagli animali, dalla
proda delle barche fin'oltre il Vallone di Posta.
In
questo periodo ai pastori si affiancavano i contadini, che scendevano per vadduni
e fiumare con le «retini» di muli, per trafficare i loro prodotti: frumento e
farina, ceste e fiscelle per i formaggi, bardature e collari per campanacci,
fichi secchi e nocciole, oltre ai tessuti, al lino grezzo e alla seta, ancora
prodotta fino al secondo dopoguerra43
e accaparrata dai compratori che qui tenevano raccolta.
Compratori
e clienti cominciavano ad affluirvi fin dal pomeriggio del 13, trovando
ospitalità nei fondaci di contrada S. Giuseppe, Vallon di Posta, Largo
Sant'Agata, via Campidoglio alta, via Alessi e Via San Giuseppe, oppure alla
vintura nelle osterie e presso amici; era costume dei carrettieri per
esempio, dare ospitalità ai colleghi dei paesi lontani. I massariotti più
agiati preferivano pernottare al Florio, al Savoia e al Roma mentre l’omini
governavano gli animali negli stallaggi di via Medici, Telegrafo e via Roma
(Paraci). Giungevano a S. Agata, mai così opulenta, da ogni parte dell'Isola:
da ciascuno dei paesi dei Nebrodi, dalle Madonie (Gangi, le Petralie,
Castelbuono), la valle del Simeto e quella dell'Alcantara (Randazzo e Bronte),
dell'ennese (Nicosia, Leonforte, Piazza), dall’agrigentino (Aragona). Nelle
vie che permettevano l'accesso alla fiera, ovvero Campidoglio,
Roma, Zito, e alla marina molte famiglie improvvisavano banconi alimentari,
dov'era possibile mangiare carni e pesce alla brace, da cui esalavano pregnanti
odori; per l'occasione — se il mare di novembre l'avesse consentito — i
pescatori avevano portato a riva grandi retate di sardi e anciovi da
vendere o cucinare a buon prezzo per le masse di centroisolani vogliose di pesce
fresco. Le castagne arrostite nei padelloni sforacchiati, calia, simenza,
favi, luppinu, cannellina e colorate bottigliette di assenziu si
acquistavano in ogni dove, e raggiungevano ogni angolo della fiera sui canestri
a tracolla dei caliari ambulanti. La grande performance della
fiera riuniva sartimbanchi, organettisti con pappagalli e scimmietta;
attorno ai piccoli tavoli delle puntate, giovani e vecchi attratti dai giochi
di’ tri carti, a 'rralla, a’ rota, e i bambini alla giostra
dei cavalli, materializzazione di meravigliose favole.
Ha
scritto Vincenzo Consolo: « ...arrivavano gli induvinavintura, con
l'ombrellone e una grandissima mano disegnata sul cartellone, i musicanti col
pappagallo, la scimmia, il diavoletto di Cartesio (tutto rosso, compreso il tridente
che teneva in mano, e saliva e scendeva nel liquido dentro la boccia di vetro
issata sopra un'asta); i cantastorie, i venditori di cose di “delizia”, di
lusso... Nella fiera delle merci, ancora nel dopoguerra, oltre ai più famosi
cantastorie dell'Isola, come Ciccio Busacca e Grazio Strano, si potevano anche
vedere Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, allora macchiettisti, che si
esibivano solo nei mercati di Palermo e nelle fiere»44.
La
folla sciamava fra le bancarelle fatte di legno e ampi teli, in cui si
ammucchiavano le mercanzie; gli «urdunara» trafficavano bardature e selle
per cavalcature, scappucci e scarpe di montagna (i venditori di zampilli si
fermavano di preferenza nel centro cittadino, sulla scalinata del «chianu ‘i
Rizzu»); dopo la seconda guerra si moltiplicarono e invasero il mercato i
capi di vestiario americani e le mantelline militari in disuso.
In
un canto erano i commercianti di oggetti in legno, botti, scale, periconca;
era possibile trovare prodotti dei fonditori e degli stagnari di Tortorici e
Sant'Angelo (murtareddi, menzaranci, busunetti, cuppini, quarari, tribori)
e quegli attrezzi agricoli di cui facevano incetta i contadini.
«I
commercianti di stoffe e vestiario arrivavano da Catania (bisognava guardarsene:
erano i più abili imbonitori e i più famosi spacciatori di monete false);
quelli di rame e attrezzi agricoli da Randazzo, Brente, Nicosia, Calati; delle
giare e terraglie da S. Stefano e da Patti, i venditori di generi di lusso da
Palermo… »45.
Le bancarelle dei giocattoli allineavano palle di stoffa e segatura con
l'elastico, fucili, cavallini e carretti di legno multicolori, le bambole di
cartapesta e stoffa con i mobiletti in miniatura, infantili strumenti musicali
(come gli immancabili tamburini e trombette), strummuli e giocattoli a
molla, come il «Pulcinella» che — fatto avanzare — batteva ritmicamente
sui piatti. Oltre la lunga quinta di tendoni, la spiaggia brulicava di pecore,
capre, asini e carretti di paglia, cavalli, maiali e buoi, attorno a cui
vociavano padroni e compratori; interi nuclei familiari erano impegnati nella
compravendita del bestiame, attraverso l'interazione di gesti e formule
appartenenti ad un copione magistralmente orchestrato dal sinzali.
A
partire dagli anni ‘50 per arginare il fenomeno dell'abigeato, gli uffici
comunali si impegnavano nella redazione di certificati anagrafici dei capi di
bestiame46.
Nel 1965 vi si registravano circa 750 atti, relativo indice del volume di
contrattazioni in quanto non veniva compresa la vendita di alcuni tipi di
animali.
Come
un tempo, i pastori non motorizzati giungono a piedi con la lunga teoria di
animali, provvisti del sonoro campanaccio. Insieme a loro sono le donne e i
ragazzi, che pure si rendono utili in questo momento importante per la vita
della famiglia. Sulle spalle gli uomini rivestiti del rustico velluto portano il
grande paracqua e recano in mano pittoreschi bastoni per invigilare le
pecore, a cui si rivolgono inoltre con selvatiche espressioni vocali di
richiamo e di guida dei capi.
Mentre
in alcuni centri vicini le fiere sono andate sempre più deserte negli ultimi
anni, quella di S. Agata continua a conservare la sua rilevante funzione;
malgrado la crisi che interessa il settore zootecnico ne rifletta problemi e
difficoltà, e la presenza degli animali non possa dirsi imponente come un
tempo, la fiera storica di novembre conserva una propria consistenza sia sul
piano commerciale quanto su quello del costume, difendendo un considerevole
primato e il ruolo di importante happening.