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LA FIERA STORICA DI SANT'AGATA MILITELLO

di Nuccio Lo Castro

 tratto da "L'Arca delle tradizioni" (Alcune feste e fiere dei Nebrodi) - Estratto da «Feste Fiere Mercati» - vol. II  

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1. L'economia prevalentemente pastorale e agricola dei paesi nebroidei ha trovato nel raduno fieristico santagatese una delle più favorevoli occasioni di mercato. Nella fascia costiera, in cui erano possibili più agevoli comunicazioni e su cui gravitava una serie di piccoli centri di popolazione che rendevano utile la pratica della mercatura girovaga, l'attuazione di una fiera così consistente assicurava la possibilità di incontro per la vendita dei capi di bestiame e l'acquisto dei prodotti artigiani e «di consumo» agli abitanti di una parte dell'Isola che viveva in singolare isolamento.

Molta parte di questo territorio, totalmente soggetto ai monasteri brasiliani1 solo al principio della conquista normanna caposaldo del Regnum e dunque variamente infeudato, trovò nella fascia litoranea il naturale punto di incontro e confluenza, a cui si accedeva attraverso le più facili vie che affiancavano i percorsi fluviali, naturale trama di comunicazioni di un siffatto sistema montagnoso.

Le fiere che ebbero in età medioevale molta fortuna, erano state quelle di Patti, Tripi, Randazzo, S. Fratello e Nicosia, quasi tutti centri lontani dal mare; nella fascia costiera, sempre decantata da scrittori, geografi e viaggiatori antichi per bellezza e feracità2, erano le fiere di Pietra di Roma (S. Giuliano) e S. Pietro di Deca, che si tenevano nella Piana di S. Marco3, nella misura in cui alcune ragioni di insicurezza del litorale ne consentissero lo svolgimento4. Qui una debole resistenza ai pericoli che venivano dal mare opponevano alcune vecchie torri non sempre efficienti5 ma assegnate al presidio dei traffici che si svolgevano lungo l'asse viario costiero e dei numerosi caricatoi6. Pure nella «marina» di Militello, compresa tra le foci dell'Inganno e del Rosmarino (l'antico Chyda), tenevano convegno annuale i trafficanti, e la favorevole posizione ebbe ad assicurare una sempre maggiore fortuna a tali fiere.

L'abate V. Amico, descrivendo il sito di S. Agata7, scriveva nel XVIII secolo: «Celebre torre di guardia nella parte aquilonare dell’Isola appo Capo d'Orlando..., la torre è armata di artiglierie ad allontanare i pirati e tutelare le magnifiche fiere tenutevi ogni anno con gran concorso del vicinato». L'erudito siciliano annotava un fatto constatabile nel suo tempo; tuttavia bisogna credere che egli facesse riferimento ad una tradizione che voleva gli scopi addotti quali motivi dell'esistenza stessa e della fondazione del grande castello. Peraltro, una serie di documenti facenti parte dei titoli di casa Gallego8  Stemma Famiglia Gallegoinsiste sull'antichità e l'importanza di questo mercato, sottolineando come «sempre, ab antico et da chi non vi è memoria d'huomo in contrario, (si fosse fatto) una fera nella Marina di S. Agata», «cossì celebre per tutto questo Regno», e si avesse «continuato con grande concorso di genti»9.

I baroni Gallego avevano assunto la signoria di Militello nel 1573; Girolamo, figlio di don Giovanni Gallego nato da un cavaliere aragonese e da una principessa azteca e castellano del Salvatore a Messina10, aveva sposato donna Angela Rosso, discendente di un casato che dal tempo dei Martini aveva posseduto la cittadina. Nel 1600 titolo e beni passarono al figlio Vincenzo, il quale nell'aprile 1620 ottenne dalla Regia Curia il mero e misto imperio con facoltà di fabbricare un castello presso le torri «vocatis di S. Agata distantibus a terra Militelli circa quattuor mille passus, quam aedificatione (il barone) intendit proseguere illaque parietibus et turribus munire pro offensione et defensione ad inimicis nostrae sanctae fidei»11.

Dovettero essere frequenti e feroci in quel tempo le incursioni piratesche, tanto da esigere una maggiore difesa della costa («dove sogliono andando in terra i nemici fare un gran danno, come fecero le otto galere di Diserta sbarcando tanti mori che pottero depredare le masserie della piana di S. Marco e la stessa Terra, ammazzando alcuni vecchi, altri cattivando, e contrappassando più oltre alla montagna seguendo la gente che fugia...»)12.

Quando nel 1629 il duca di Alburquerque firmava la lettera esecutoria della concessione, alla marina di S. Agata si stava già fabbricando la fortezza13. Luigi Gallego, ricevuto il titolo di marchese, ottenne nell'anno successivo per un rescritto di re Filippo IV la «pia facoltà di popolare S. Agata»14. La fondazione di un casale sulla costa lascia pensare che andava sensibilmente mutando la realtà socieconomica del territorio; nello stesso centro di Militello, privato dei villani che andarono ad abitare il nuovo villaggio, il numero degli abitanti si accresceva di oltre quattrocento unità rispetto al secolo precedente15.  

La fiera storica, fotografia di V. Vicari (1953 circa)

Le campagne, generalmente coltivate ad ulivi e «lavurativi», vennero dal secolo XVI ad ospitare soprattutto «vigni celsi et arbori domestici», testimoniando un deciso intervento di riconversione delle colture, che fu alla base dell'arricchimento di una agiata classe di proprietari terrieri16. La produzione della seta nei vari centri fu notevole e consistente fonte di guadagno per quasi tutta la popolazione, incoraggiata dall'incremento della domanda che ebbe una punta massima intorno all’anno 166017. Dagli scali di Naso, S. Marco e S.Fratello partivano carichi con lo zucchero prodotto nei locali opifici alla volta delle grandi città18.

La maggiore produzione di beni, che dovette influire sull’accresciuto tenore di vita, la progressiva risoluzione del problema della difesa costiera (nei documenti di fine secolo non si accenna più al problema della pirateria) e l'esistenza di osterie e fondaci sulla costa, che assecondavano una maggiore mobilità ai fini commerciali, furono i motivi per l'incremento delle fiere che fin da quel tempo poterono dirsi giustamente «magnifiche».

 

2. Don Gaetano Gallego Ventimiglia, che nel 1692 aveva ricevuto titolo e investitura di principe di Militello e marchese di S. Agata19, dovette chiedere intorno alla fine del secolo XVII un riconoscimento della fiera, del cui privilegio avevano sempre goduto i suoi succoncessori; in quegli anni gli era stata tentata causa da don Diego Joppolo Ventimiglia, duca di Sinagra e conte di Naso, il quale pretendeva che si abolisse la fiera in quanto veniva quasi a coincidere col mercato di Capo d'Orlando, avuto per concessione del 1697. Gli atti relativi alle petizioni rivolte al Tribunale del Real Patrimonio e le rispettive concessioni 20, costituiscono dei preziosi documenti che restituiscono una quantità di dati storici. Il primo è un privilegio del 28 luglio 1700 col quale al principe veniva riconosciuto il diritto di fare la fiera, con le modifiche apportate dagli ottenimenti del conte di Naso; il secondo, datato 50 marzo 1705, è la supplica di venire ad una precisa definizione delle date, accolta dal viceré e sufficiente a porre fine alla controversia21. Quest'ultimo ricapitola le varie fasi della disputa: «Siamo stati supplicati dall'ill.mo don Gaetano Gallego, prencipe di Militello Valdemone, marchese di Sant'Agatha del tenor che segue: che ritrovandosi nella quota e pacifica possessione, come li suoi antecessori, di fare ogn'anno sotto li 24 ottobre la fora nella Marina di S. Agatha, tanto celebre per tutto questo Regno, della quale non vi è memoria d'huomo in contrario, nell’anno 1697 si pretendesse – dall’illustre Conte di Naso e dal Sacerdote don Francesco Zafarano, cappellano della chiesa di S. Maria di Capo d'Orlando, fabricata nello scaro o marina del Castello di Capo d'Orlando in virtù di un atto fatto tra il predetto Conte e li vassalli della terra di Naso, per la quale si concesse dal d. Joppulo facoltà di fare fera nel giorno delli 21 ottobre d'ogn'anno, nel quale si celebra la festa di Nostra Signora di Capo d'Orlando - impedire detta fera nella Marina di Sant'Agatha»22.

Essendosi aspramente contestato il «possesso che l'ill.mo principe è suoi antecessori ha e hanno avuto», il 16 dicembre 1699 la sentenza del Tribunale si pronunziò per la «proibitione di detta fera», riservando al principe Gallego la facoltà di appellarsi e avanzare una nuova richiesta di concessione.

Don Gaetano Gallego, nella speranza di dimostrare con tutti i mezzi «l'immemorabile possessione e concessione del privilegio», fece istanza nell’anno successivo perché venisse confermato il suo diritto come era stato per il passato. Nel documento, il procuratore don Filippo di Paola fa presente come il principe ed i suoi predecessori «hanno sempre, ab antiquo et da che non vi è memoria d'homo in contrario, fatto una fera nella Marina di S. Agatha propria di detto illustre Principe con le franchelle della Doghana o gabelle baronali spettanti ad esso sig. Principe il giorno di 24 ottobre d'ogni anno, quale fera intende l'esponente haversi fatto e così doversi fare l'avvenire». Questo a motivo del fatto che il principe aveva goduto sempre di tali privilegi anche se era in quel momento nell'impossibilità di presentare i carteggi «per ritrovarsi morti l'Illustre Principe e Principessa suoi parenti e l'illustre signora donna Angela Gallego23, li quali erano informatissimi di tutti li privilegi della casa... et per varii accidenti occorsi che hanno deperso molte scritture»24.  

La Fiera storica, presso la "Rotonda" sul lungomare (anni '50)

Contro di esso aveva tentato giudizio il conte di Naso, «pretendendo di fare proibire la detta fera sotto vano pretesto che egli habij avuto una simile concessione di fera... nella Marina di Capo d'Orlando per li giorni 21, 22 e 23 di ottobre d'ogni anno, benché per molti e molti anni non have avuto execuzione». Gli stessi testimoni e vassalli del conte di Naso, pur asserendo che quel mercato s'avesse fatto nella cittadina del Capo, tuttavia «non hanno potuto negare che la fera di S. Agatha si abbi sempre continuato con grande concorso di genti, senza contradizione alcuna»25.

La situazione era comunque tale che il nobile nasitano poteva esibire il privilegio recentemente ottenuto; faceva ricorso al fatto che il Gallego non possedesse al momento alcun documento e rilevava l'incompatibilità fra le due fiere distanti appena dieci miglia e svolte con reciproco danno quasi contemporaneamente.

Nell'atto il principe di Militello, sicuro dell'ereditato possesso della licenza, faceva domanda perché gli venisse confermato il diritto alla fiera, da farsi a partire dal 24 ottobre26, non avanzando comunque una nuova richiesta. Il conte Joppolo, allora in causa pure per analogo motivo con don Corrado Lanza duca di Brolo e barone di Ficarra (la fiera presso quel castello si svolgeva alla fine di ottobre), chiese ai giurati che non venisse concesso quanto richiesto dal Gallego; piuttosto si concedesse «per un tempo congruo et opportuno, il quale non fosse di danno alle fere di Capo di Orlando». Forte della favorevole sentenza della precedente causa, egli pretese infatti che in nessun modo si dovesse concedere licenza nel mese di ottobre né al principe di Militello né al nobile di Brolo27. Fornendo delle sue indicazioni egli suggerì che al primo si ammettesse di fare una fiera settimanale «incipiendo a die vigesimo primo septembris et quo ad dom. ill. ducem Broli in eius maritima Castri Broli per dies quatuor incipiendo a die vigesimo nono»28. Il testo della concessione che sortì recitava: «concediamo licenza all'Ill.mo Principe che possa fare la fera nella Marina di S. Agatha per il termine di giorni sei incominciando dalli ventuno sett. di ogni anno per tutti li ventisei (nella) forma come pria per il passato ha fatto... con tutte quelle potestà, autorità, preminenze, lucri, emolumenti e franchezze, immunità, esenzioni della Doghana baronale, come di tutte quelle altre gabelle che per il passato have goduto e soluto godere e concesso e potuto concedere alli mercanti che hanno venuto in detta fera...»29, non intendendosi accordata la franchigia da alcune tasse (donativi regii e regie segrezie), ma avendo la protezione degli ufficiali del Regno 30.

A distanza di tre anni, durante i quali la fiera della Marina subì una notevole flessione, don Gaetano Gallego chiese la revoca della sentenza, «conoscendo dall'esperienza che la fera non ci riesce e resta inutile, (perché) in detto tempo per essere le persone applicate al raccolto del musto, e per il caldo che fa e la malaere, non vengono né mercandanti né compratori»31.

«Per non perdersi detta fera cossì celebre»32 egli chiese «licenza di potere fare la fera nella Marina di S.ta Agatha, come ha fatto per il passato... dalli 16 novembre d'ogn'anno sino alli 24 del medesimo, e dell’istesso modo e maniera che s'ha per il passato costumato, con facoltà e potestà di poterla fare bandizzare per tutto il Regno come sempre s'ha fatto, affinché venghi alla notitia d'ogni uno». Il Tribunale del Regno confermò le concessioni delle franchigie baronali «et immunità delle gabelle che si concedono et hanno concesso in altre fere di questo Regno, e nell'istessa forma e maniera che si prattica in altre città e terre di questo Regno dove vi è una fera annuale, nella cui conformità permettiamo che l'Illustre supplicatore (il principe Gallego) e li suoi ufficiali la possano far pubblicare e bandizzare nelle città e terre convicine, a fin ché ne tengano la dovuta nota, e li mercadanti possano liberamente immettere tutte sorti di mercanzia, bestiame et altri...» 33.

La concessione bastò a sopire ogni lite; il periodo e la durata furono in tal modo definitivamente stabiliti. I signori feudali continuarono nella «pacifica possessione» degli antichi diritti, dei quali faceva unicamente eccezione il pagamento delle gabelle doganali, dei regi donativi e segrezie. Le occasioni del mercato erano motivo di consistenti entrate economiche per il principe, il quale esigeva inoltre «il dritto del peso della seta, che si vende nella fera per la Bilancia che adibisce per il commodo dei mercadanti compradori... e (il dritto) sopra ogni genere che dalla Terra e territorio di Militello e casale e territorio di S. Agata in ogni tempo si estrae» 34.

Nel secolo XVIII la campagna era ricca «di biade, piantata a oliveti, gelseti e fornita di alveari che danno un mele tanto soave»35. Come il Meli affermava circa il vicino centro di S. Marco, era notevole «la produzione di frumento, vino, olio e fichi,ma soprattutto il prodotto della seta (manteneva) per la sua abbondanza tutti i naturali»36.

Uniche, importanti occasioni di scambio erano appunto le fiere annuali, in cui oltre ai capi di bestiame venivano immessi nel mercato i prodotti della terra, formaggi, stoffe e oggetti di uso domestico e contadino, condotti a dorso di mulo ovvero per mezzo di barconi mercantili37.

Don Giuseppe Gallego Naselli, ultimo detentore del titolo e della signoria di Militello al momento della abolizione della feudalità, chiese e ottenne nell'aprile del 1790 che i diritti sulla vendita della seta e sull'estrazione dei prodotti del feudo in tempo di fiera, concessi alla sua famiglia fin dal 1651, fossero confermati, perché contestati da «taluni inquietanti perturbatori». Così egli chiese che venissero spedite lettere dirette a «tutti e singoli officiali di questo Regno di Sicilia acciò (lo) difendessero e mantenessero nella pacifica possessione dei divisati diritti in cui si trova», ordinando che «contro l’inquietanti perturbatori si pigliassero li legali informazioni e si procedesse alla cattura delle persone»38.

 

3. Accresciutasi notevolmente ed oramai in grado di esprimersi in una identità municipale, S.Agata inoltrò nel 1839 la prima istanza per l'autonomia amministrativa da Militello, ottenendo il definitivo riconoscimento nel 185739. La spartizione delle terre consisté praticamente nell'assegnazione al nuovo Comune di quella parte più ricca, favorita dall'incremento delle comunicazioni e venutasi a definire quale polo di attrazione commerciale, mentre sulla costa si iniziava ad impiantare moderne piantagioni di agrumi. Nella fascia collinare e montana si diffondeva sempre più la pratica della pastorizia, per il degrado del paesaggio agrario, che abbisognava della costituzione di Monti frumentari al fine di sostenere la produzione granaria. Dal caricatoio di S. Agata nel 1829 era partito un carico di 20.000 salme di carbone40, indizio di un intenso sfruttamento a cui faceva riscontro il progressivo impoverimento del patrimonio forestale. I terreni così degradati costituivano le ampie aree di pascolo che consentirono una grande diffusione dell'allevamento bovino ed ovino. La maggiore richiesta della popolazione rurale fece sì che si potenziasse della fiera l'antica funzione di compravendita del bestiame; mentre per l'accresciuta domanda dei prodotti della città diveniva sempre più cospicuo pure il mercato dei generi di consumo.

La fiera di S. Agata divenne dalla seconda metà del secolo scorso uno dei più importanti luoghi di affari, allargando il proprio raggio di attrazione ad una clientela che abbracciava l'intero Valdèmone. Specialmente il commercio al minuto veniva a trovare crescente diffusione per la più rapida circolazione di uomini e merci; a S. Agata funzionavano i servizi di posta (stazione di cambio dei cavalli e scalo del vapore postale) e il telegrafo nell'omonima contrada, mentre erano attivi osterie e fondaci costituenti una infrastruttura essenziale per favorire la mobilità di mercati e compratori. Nel 1895 giungeva inoltre il primo treno nel nuovo, importante scalo ferroviario.

Per quanto la realtà dell'emigrazione contrassegnasse il periodo a cavallo fra i due secoli, una crescita demografica (cui seguiva l'espansione urbana) fu alla base di un consistente sviluppo della cittadina. La fiera divenne momento distintivo delle attività economiche di S. Agata, della quale si delineavano sempre più le funzioni di nodale centro di commerci.

L'Amministrazione Comunale promosse agli inizi del secolo presente una seconda edizione dell'importante mercato, sulla base delle nor­me di nuove leggi41 che ne regolavano la materia, da effettuare nei giorni 14 e 15 aprile. La nuova e l'antica fiera rappresentarono così la prima e l'ultima delle occasioni di raduno del circondario, nel periodo del bei tempo. Un gran numero di persone veniva pertanto ad essere richiamato in quanto i due momenti erano i più opportuni per l'approvigionamento e rifornimento invernale, ovvero per l'immissione nei circuiti fieristici del nuovo ciclo annuale.

La fiera di novembre, per quanto avversata spesso dall'inclemenza degli inverni precoci, continuò comunque ad essere la più frequentata. Ebbe le sue manifestazioni più imponenti negli anni che andarono dal 1930 al ‘50, anni in cui con una impennata l'indice demografico segnò l'aumento da 7.000 a 10.000 del numero degli abitanti42. Da alcune foto del 1937, che riprendevano quasi tutta la zona della fiera, brulicante di uomini, bestie, carretti e baracconi, si può stimare la superficie a quel tempo coperta; essa si estendeva per oltre dieci ettari, occupati dal mercato — disposto sulla strada e le aree su cui insisterà la passeggiata a mare — e dalla porzione di spiaggia invasta dagli animali, dalla proda delle barche fin'oltre il Vallone di Posta.

In questo periodo ai pastori si affiancavano i contadini, che scendevano per vadduni e fiumare con le «retini» di muli, per trafficare i loro prodotti: frumento e farina, ceste e fiscelle per i formaggi, bardature e collari per campanacci, fichi secchi e nocciole, oltre ai tessuti, al lino grezzo e alla seta, ancora prodotta fino al secondo dopoguerra43 e accaparrata dai compratori che qui tenevano raccolta.

Compratori e clienti cominciavano ad affluirvi fin dal pomeriggio del 13, trovando ospitalità nei fondaci di contrada S. Giuseppe, Vallon di Posta, Largo Sant'Agata, via Campidoglio alta, via Alessi e Via San Giuseppe, oppure alla vintura nelle osterie e presso amici; era costume dei carrettieri per esempio, dare ospitalità ai colleghi dei paesi lontani. I massariotti più agiati preferivano pernottare al Florio, al Savoia e al Roma mentre l’omini governavano gli animali negli stallaggi di via Medici, Telegrafo e via Roma (Paraci). Giungevano a S. Agata, mai così opulenta, da ogni parte dell'Isola: da ciascuno dei paesi dei Nebrodi, dalle Madonie (Gangi, le Petralie, Castelbuono), la valle del Simeto e quella dell'Alcantara (Randazzo e Bronte), dell'ennese (Nicosia, Leonforte, Piazza), dall’agrigentino (Aragona). Nelle vie che permettevano l'accesso alla fiera, ovvero Campidoglio, Roma, Zito, e alla marina molte famiglie improvvisavano banconi alimentari, dov'era possibile mangiare carni e pesce alla brace, da cui esalavano pregnanti odori; per l'occasione — se il mare di novembre l'avesse consentito — i pescatori avevano portato a riva grandi retate di sardi e anciovi da vendere o cucinare a buon prezzo per le masse di centroisolani vogliose di pesce fresco. Le castagne arrostite nei padelloni sforacchiati, calia, simenza, favi, luppinu, cannellina e colorate bottigliette di assenziu si acquistavano in ogni dove, e raggiungevano ogni angolo della fiera sui canestri a tracolla dei caliari ambulanti. La grande performance della fiera riuniva sartimbanchi, organettisti con pappagalli e scimmietta; attorno ai piccoli tavoli delle puntate, giovani e vecchi attratti dai giochi di’ tri carti, a 'rralla, a rota, e i bambini alla giostra dei cavalli, materializzazione di meravigliose favole.

Ha scritto Vincenzo Consolo: « ...arrivavano gli induvinavintura, con l'ombrellone e una grandissima mano disegnata sul cartellone, i musicanti col pappagallo, la scimmia, il diavoletto di Cartesio (tutto rosso, compreso il tridente che teneva in mano, e saliva e scendeva nel liquido dentro la boccia di vetro issata sopra un'asta); i cantastorie, i venditori di cose di “delizia”, di lusso... Nella fiera delle merci, ancora nel dopoguerra, oltre ai più famosi cantastorie dell'Isola, come Ciccio Busacca e Grazio Strano, si potevano anche vedere Fran­co Franchi e Ciccio Ingrassia, allora macchiettisti, che si esibivano solo nei mercati di Palermo e nelle fiere»44.

La folla sciamava fra le bancarelle fatte di legno e ampi teli, in cui si ammucchiavano le mercanzie; gli «urdunara» trafficavano bardature e selle per cavalcature, scappucci e scarpe di montagna (i venditori di zampilli si fermavano di preferenza nel centro cittadino, sulla scalinata del «chianu ‘i Rizzu»); dopo la seconda guerra si moltiplicarono e invasero il mercato i capi di vestiario americani e le mantelline militari in disuso.

In un canto erano i commercianti di oggetti in legno, botti, scale, periconca; era possibile trovare prodotti dei fonditori e degli stagnari di Tortorici e Sant'Angelo (murtareddi, menzaranci, busunetti, cuppini, quarari, tribori) e quegli attrezzi agricoli di cui facevano incetta i contadini.

«I commercianti di stoffe e vestiario arrivavano da Catania (bisognava guardarsene: erano i più abili imbonitori e i più famosi spacciatori di monete false); quelli di rame e attrezzi agricoli da Randazzo, Brente, Nicosia, Calati; delle giare e terraglie da S. Stefano e da Patti, i venditori di generi di lusso da Palermo… »45. Le bancarelle dei giocattoli allineavano palle di stoffa e segatura con l'elastico, fucili, cavallini e carretti di legno multicolori, le bambole di cartapesta e stoffa con i mobiletti in miniatura, infantili strumenti musicali (come gli immancabili tamburini e trom­bette), strummuli e giocattoli a molla, come il «Pulcinella» che — fatto avanzare — batteva ritmicamente sui piatti. Oltre la lunga quinta di tendoni, la spiaggia brulicava di pecore, capre, asini e carretti di paglia, cavalli, maiali e buoi, attorno a cui vociavano padroni e compratori; interi nuclei familiari erano impegnati nella compravendita del bestiame, attraverso l'interazione di gesti e formule appartenenti ad un copione magistralmente orchestrato dal sinzali.

A partire dagli anni ‘50 per arginare il fenomeno dell'abigeato, gli uffici comunali si impegnavano nella redazione di certificati anagrafici dei capi di bestiame46. Nel 1965 vi si registravano circa 750 atti, relativo indice del volume di contrattazioni in quanto non veniva compresa la vendita di alcuni tipi di animali.

Come un tempo, i pastori non motorizzati giungono a piedi con la lunga teoria di animali, provvisti del sonoro campanaccio. Insieme a loro sono le donne e i ragazzi, che pure si rendono utili in questo momento importante per la vita della famiglia. Sulle spalle gli uomini rivestiti del rustico velluto portano il grande paracqua e recano in mano pittoreschi bastoni per invigilare le pecore, a cui si rivolgono inoltre con selvatiche espressioni vocali di richiamo e di guida dei capi.

Mentre in alcuni centri vicini le fiere sono andate sempre più deserte negli ultimi anni, quella di S. Agata continua a conservare la sua rilevante funzione; malgrado la crisi che interessa il settore zootecnico ne rifletta problemi e difficoltà, e la presenza degli animali non possa dirsi imponente come un tempo, la fiera storica di novembre conserva una propria consistenza sia sul piano commerciale quanto su quello del costume, difendendo un considerevole primato e il ruolo di importante happening.

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