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Foto n.3

                            Macomer: Sas tuvas.

 

Di fronte alla chiesa di San Pantaleo, patrono della città, si innalzavano sas tuvas e si dava loro fuoco la sera del 16 gennaio. Si era provveduto durante tutto l’inverno ad andare sui monti e individuare alcuni degli alberi più vecchi e malandati le cui parti interne, morte da tempo fossero state corrose dagli elementi atmosferici e risultassero ben cave. Si formavano allora sos sozios, uno dei quali istituzionale, era senz’altro s’oberaroria de Sant’Antoni de su fogu. Si tagliava l’albero individuato, spesso scalzandolo dalle radici in modo che le corte diramazioni delle stesse fungessero da facile base per la sistemazione in verticale del lungo tronco. Il carro sardo, al quale si aggiogavano anche tre gioghi di buoi, forniva in questa occasione le sue più difficili e brillanti prestazioni. Condotto per sentieri spesso solo immaginati, s’inerpicava snello sul monte e ve ne ritornava col suo carico non eccessivamente pesante ma oltremodo ingombrante. Sul carro e a cavalcioni della tuva sedevano decine di persone tutte intente a cantare a squarciagola e bere vino allegramente. Nei passaggi più difficili dei tortuosi sentieri i gioghi erano guidati e incitati dai carradores più esperti, quelli che maggiormente si facevano ubbidire dalle bestie e meglio di ogni altro conoscevano la statica e la dinamica del carro sardo. Guidarlo in questa occasione diventava una vicenda che entrava nell’epica della sonnolenta società contadina, e ad ogni citazione e rievocazione gli episodi si arricchivano di nuovi e inediti particolari. Se ne parlava spesso fino all’occasione successiva consistente nel trasporto in paese di una nuova tuva, e mettere in dubbio le sempre più fantasiose versioni significava non aver partecipato ai fatti. E poi il giorno fatidico. Si piantavano tra Sa Domo de su Conte e la Chiesa sas tuvas e si dava loro fuoco. Ogni soziu pensava alla sua, di tuva: che bruciasse bene e lentamente, che sprigionasse lunghe fiamme e molte scintille, che non cadesse per terra e non provocasse danni alle persone che andavano a vedere. Era occasione per tutta la comunità di incontro e di scambi di opinioni, sull’annata agraria e la salute del bestiame, sulle controversie di pascolo e sul prezzo del latte, e sulla più o meno calorosa partecipazione ai fatti del Vicario. Sant’Antonio Abate, un santo del menologio bizantino, aveva incarico di proteggere le bestie ed era molto venerato. E poi si invitava da bere, vino e acquavite. Tanto vino, tanta acquavite. E tutti bevevano in segno di amicizia e di benevolenza. In segno beneaugurale. E i ragazzini raccoglievano carboni spenti e si tingevano il volto di nero. Un anticipo di quanto sarebbe successo nel periodo di Carrasegare, ormai incombente. Le donne raccoglievano piccole manciate di cenere e le custodivano gelosamente. Contro il mal di pancia dei bambini erano spesso l’unico rimedio, se messe nell’ombelico recitando sos brebos.

L’usanza dei fuochi nel mese di gennaio è stata certamente tramandata dall’antichità pagana. Serviva per rischiarare in senso metaforico la lunga notte invernale e augurare il prossimo risveglio della primavera che avrebbe portato tanta erba per le pecore e a buon fine la semina dei cereali. Era un passaggio nel ciclo agrario che scandiva annualmente l’attesa del risveglio della natura e della verifica dei risultati positivi dopo tante fatiche, in un periodo in cui Mastru Giuanne era fisso all’uscio di casa.