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Foto n.8

Inaugurazione monumento a S.Antonio

 Per il possesso dei terreni promiscui e per il possesso e sfruttamento esclusivo del monte Sas Coas, o Monte di Sant’Antonio unitamente alla regione a sud, confinante con il territorio del comune di Borore, denominato Meuddinu, i due comuni interessati, Borore e Macomer si fecero causa.

Nel corso dei 23 anni correnti tra il 1728 e il 1751, il villaggio di Borore raggiunse un migliaio circa di abitanti, mentre quello di Macomer superò i 1400 abitanti. Il sensibile aumento di popolazione dei due villaggi confinanti moltiplicò le esigenze degli agricoltori e dei pastori costringendoli a contendersi i territori disponibili per il seminerio e per il pascolo. Macomer, che disponeva di una estensione territoriale cinque volte più vasta di quella di Borore, riuscì a soddisfare più facilmente le maggiori necessità della popolazione, per Borore invece il problema si presentò di difficile soluzione, perché essendo il comune scarsamente dotato di terre, fu necessario ricorrere all’affitto di terreni di altri villaggi, Macomer compreso. Per questa ragione da allora aumentò la presenza dei bororesi nei territori di Macomer, con una maggiore frequenza nella vidazzone di Meuddinu e nella montagna de Sas Coas, dove sin dall’antichità i macomeresi usufruivano dei diritti feudali, fra cui il pascolo, il seminerio, il legnatico e altri.

Nel 1774, nella zona denominata S’Iscala de Oschera e a Meuddinu furono costruite dai bororesi delle strade, impiantate vigne e recintati con muretti a secco alcuni terreni, violando apertamente le consuetudini e le disposizioni vigenti per la salvaguardia e l’uso della vidazzone. Con sentenza la Corte d’Appello di Cagliari nel 1880, confermata anche dalla Corte di Cassazione in Roma, “reietta ogni contraria e maggiore istanza, in riforma della sentenza 8 agosto 1876” del Tribunale di Oristano, e dichiara spettare a Borore sulla montagna detta di Sant’Antonio, proprio del comune di Macomer, in conformità delle leggi, il diritto di tenerci a pascolo il suo bestiame e di consumarci e raccogliervi ghiande e di far legna da ardere e da fabbricare per i bisogni degli abitanti. Seguì da parte del comune di Macomer il ricorso alla Corte di Cassazione che confermò la sentenza della Corte d’Appello. La Cassazione, piuttosto, riconobbe al comune di Macomer “il diritto di liberare la montagna di Sant’Antonio dalla comunione d’uso esistente” chiedendo lo scioglimento “mediante compenso da determinarsi da periti, sia in denaro, sia in terre”.

Al giudizio decisamente negativo e definitivo si aggiunsero le spese della lite e gli onorari degli avvocati ammontanti ad oltre 6000 lire.

Il 1° novembre 1883, si raggiunse un accordo con il comune di Borore che assegnava al comune di Macomer i due terzi della superficie della montagna e il rimanente terzo al comune di Borore. In conclusione, alla comunità di Macomer la controversia, condotta più all’insegna della prepotenza che dalla buona ragione e dall’equità, comportò per oltre un secolo oneri assai gravosi e alla fine la perdita di oltre 2000 ettari del suo territorio, la cui dotazione iniziale fu costituita durante il periodo giudicale e successivamente ampliata sotto le dominazioni aragonese e spagnola.