Editoriale di febbraio 2004 (n.32)
Editoriale di ottobre 2003 (n.31)
Editoriale di luglio 2003 (n.30)
Editoriale di maggio 2003 (n. 29)
Editoriale di febbraio 2003 (n. 28)
Editoriale di ottobre 2002 (n. 27)
Editoriale
di luglio 2002 (n. 26)
Editoriale di marzo 2002 (n. 25)
Editoriale di dicembre 2001 (n.24)
Primo
numero del 2004 e copertina doverosa ad uno dei massimi riferimenti culturali
che il mondo dello “spettacolo” abbia avuto. Ora che è passato un anno
dalla sua scomparsa, la nostra rivista ha voluto raccogliere testimonianze e
ricordi dalla viva voce di tre personaggi che lo hanno conosciuto con angolature
diverse (Luporini, Battiato e Quirici), unendole al ricco lavoro di analisi che
i nostri collaboratori hanno preparato per riassumere la sua lunga carriera
umana e artistica. Quello che ne esce è un quadro lucido, per certi versi
impietoso, di un uomo che ha saputo raccontare come nessun altro debolezze e
confusioni di una società che attanaglia gli individui e che progressivamente
tende ad uniformare cose, usi, costumi e anche i sentimenti. Gaber (insieme a
Luporini, non scordiamolo mai) ha denunciato con forza questi rischi (realtà?),
a volte indicando esattamente il problema, altre volte chiudendosi in se stesso,
in una riflessione intimista che chiedeva perlomeno partecipazione e confronto.
Gaber è stato un grande e ora lascia un vuoto. Non è retorica o facile
enunciazione di un principio. Provatevi a guardare intorno e chiedetevi chi
riesce a portare su di un palcoscenico (che non sia teatro puro, visto che noi
ci occupiamo di musica) concetti e diatribe personali/sociali così forti come
faceva lui. Mai uno slogan di troppo, mai una volgarità per cercare
l’applauso o il consenso facile. In questo senso è grande il vuoto di Gaber.
Ma, visto, che state leggendo il primo numero del 2004 vorrei darvi qualche
novità che ci riguarderà da vicino nei prossimi mesi. Il concorso lanciato nel
numero scorso, per esempio, approderà ad una finale che già si preannuncia
davvero interessante, visto l’alto numero dei partecipanti, di cui molti già
conosciuti agli addetti ai lavori. Una fiducia e una stima che derivano anche
dalla prestigiosa Giuria che dovrà “giudicarli”, anche se per questo
capitolo vi rimandiamo a pagina 69. Avremo poi la nostra festa, a Maggio, in cui
verranno premiati i vincitori del Referendum 2003. E poi ancora il Mantova Music
Festival, che sebbene non sia ancora ben delineato nei suoi aspetti logistici e
nei suoi obiettivi (solo musicali?) ci ha visti pubblicizarlo con entusiasmo,
visto che le premesse per valorizzare un’altro tipo di musica che non sia
quella sanremese c’erano e ci sono tutte. Al momento di andare in stampa non
sappiamo ancora chi saranno gli ospiti e quali i giovani invitati, ma confidiamo
che gli organizzatori e le varie giurie sapranno muoversi con esperienza.
Speriamo di non assistere ad una duplicazione, in piccolo, della kermesse
ligure, con “figli”, “nipoti” e “amici degli amici” che si dividono
visibilità e palcoscenico.
Avremo
tempo di parlarne, anche se un piccolo appunto all’organizzazione vorrei farlo
ora. Quando si è cominciato a parlare dell’idea di un festival dedicato alla
musica italiana, logica voleva che l’unica rivista di musica italiana,
appunto, fosse invitata al tavolo. Se non subito, almeno “poco dopo”, come
direbbe Albanese. Lo dico senza presunzione, anzi, l’occasione mi aiuta a
ricordare quanta strada deve ancora fare una realtà come la nostra. Aggiungo
però che L’Isola che non c’era può contare ormai su una sessantina di
collaboratori sparsi in tutta Italia, che ascoltano almeno uno o due concerti a
settimana, che siamo l’unica rivista ad avere una redazione fatta di dieci
persone (e non da due o tre) che pur confrontandosi, a volte anche aspramente,
riesce a dare un giudizio “democratico” e non oligarchico nella linea sua
editoriale. E poi, seguiamo da vicino i più importanti festival/premi che ci
sono intorno alla musica d’autore, sulle nostre pagine scrivono tra le più
lucide e sagaci firme del giornalismo ‘nostrano’ che si occupa di musica ‘nostrana’,
abbiamo un catalogo di CD che permette di rendere visibili (e acquistabili)
realtà straordinarie che altrimenti rimarrebbero in ambito locale, organizziamo
da ormai due anni nostre manifestazioni con una certa regolarità e successo di
pubblico e critica, gestiamo un sito che raccoglie informazioni quasi
introvabili nella rete. Tutto
questo per dire che non vogliamo sostituirci a nessuno, che non ci aspettiamo
niente da nessuno, ma solo che in questi anni abbiamo cercato di aiutare la
nostra musica in maniera concreta. Ecco perché l’idea di un nuovo - e
importante - festival sulla musica italiana come quello di Mantova ci pareva una
buona occasione per mettere a frutto e condividere un po’ di esperienza
maturata in questi otto anni. Nel gruppo di persone che volevano rappresentare
la “nuova” musica italiana L’Isola aveva le sue carte (o, se volete, le
sue pagine) in regola per chiedere una sedia.
EDITORIALE DI OTTOBRE 2003 (N. 31)
Nuovi cantautori crescono
Dopo una copertina
“storica”, quella scorsa data a Luigi Tenco, ecco che sulla prima pagina di
questo numero troneggia l’urlo di uno “semisconosciuto”: Pinomarino.
Come ormai sapete, sta diventando una nostra abitudine quella di dedicare di
tanto in tanto una copertina a personaggi da scoprire, da valorizzare, o più
semplicemente da far conoscere ad un pubblico più vasto possibile. Non vorrei
dilungarmi a ripetere perché è giusto che una rivista come la nostra debba
alternare grossi personaggi in copertina con altri meno conosciuti, abbiamo già
spiegato altre volte che lo riteniamo insito nel nostro dna di collaboratori
dell’unica rivista di musica italiana. Difatti, il nostro andare per concerti,
l’ascoltare centinaia e centinaia di dischi ci pone in una situazione
privilegiata nell’ambito della produzione di casa nostra e la scelta di dare
forte visibilità a Pinomarino, per esempio, raccoglie la sintesi di tutto
questo. Creativo nella stesura musicale, finissimo nell’uso della metafora,
nelle pagine che seguono questo cantautore romano ci racconterà del suo nuovo
(e secondo) lavoro e delle persone con cui ha camminato a fianco in questi anni.
In un titolo interno accenniamo al “talento e alla pazienza”, la sua, così
come quella di molti altri, che vedono allargarsi enormemente la forbice tra una
bella produzione e il riconoscimento della stessa. Ora Pinomarino un disco nuovo
fiammante ce l’ha e, come dicevamo, è scritto con talento, ma in merito alla
pazienza invece... ci sembra che lui ne abbia avuta molta. Ora è il momento -
per la produzione, distribuzione, management vari - di unire le proprie forze (e
gli investimenti) e crederci fino in fondo. Oramai è risaputo e bisogna
prenderne atto: scrivere belle canzoni non è semplice, ma anche quando ci
riesci non basta ancora. Forse una volta bastava, ora no. Noi crediamo che in un
clima di sfiducia generale e di ossessiva ricerca di un album che possa vendere
milioni di copie, investire su progetti validi come questo possa pagare in
termini di vendita in rapporto al capitale investito. Bisogna, però, crederci.
Ognuno per la propria parte e senza lasciarsi influenzare dalle mode del
momento, magari sperando nella clonazione di un prodotto (groove o artista che
sia) che funzioni e che possa dare risultati una seconda, una terza volta e così
via. Quando si hanno tra le mani progetti come quello di Pinomarino bisogna
avere il coraggio di portarlo avanti con forza, ripeto, ognuno con le proprie
responsabilità. A tutti i livelli.
Chiudo questo mio spazio invitandovi con piacere a leggere le pagine di
Immersioni, una rubrica lanciata qualche numero fa e che sta riscuotendo un
forte consenso tra i lettori. Questa volta abbiamo approfondito due album
straordinari di De André e sono pronto a scommettere che alla fine
dell’articolo la prima cosa che farete sarà quella di andarveli a
riascoltare.
L’ultima annotazione vorrei spenderla per la grossa novità che L’Isola che
non c’era lancia da questo numero: il concorso “L’artista che non
c’era”. L’idea è quella di organizzare un Premio diverso dal solito, che
sappia valorizzare chi suona da anni piuttosto che il ragazzino ventenne che
voglia far conoscere la sua prima canzone. Non potendo offrire grandi premi in
denaro la nostra contropartita, e garanzia, sarà quella di mettere in relazione
una giuria fortemente qualificata (produttori, management, giornalisti, artisti
affermati, operatori culturali, ecc.) direttamente con gli artisti che
arriveranno alle fasi finali. L’obiettivo dichiarato è proprio quello di dare
un’opportunità vera di “mercato” a chi ha le credenziali per chiederlo.
Noi non siamo, ed io per primo, tra quelli che dicono “in Italia ci sono
moltissimi artisti, bravi ma sconosciuti, che non hanno possibilità di farsi
conoscere...”, mi sembra piuttosto che il problema vero sia che di artisti
veramente validi e meritevoli (degni di avere un contratto discografico serio,
una distribuzione seria ed una promozione adeguata) siano pochi. Ma il punto è
che chi dovrebbe saperlo, e agire di conseguenza, non sempre lo sa. Ecco, il
nostro concorso vuole avvicinare questi due mondi, tornare a farli parlare e
incontrare, selezionando una dozzina di progetti che possano essere ascoltati e
aiutati a crescere.
Francesco Paracchini
Alle radici della musica d’autore italiana
Sfogliando le prime pagine di questo numero e leggendo tra le righe di Paolo
Jachia o di Alberto Bazzurro mi convinco ancora di più che la scelta di dare
uno spazio così ampio e visibile ad un personaggio come Luigi Tenco sia per noi
una tappa davvero importante. Sotto certi aspetti, parlare di Luigi Tenco è
come parlare della pietra miliare della canzone d’autore italiana, un uomo che
suo malgrado e senza accorgersene direttamente ha gettato i semi di un nuovo
modo di scrittura e di analisi introspettiva vomitata addosso all’ignaro
ascoltatore di inizio anni Sessanta. Nelle pagine a lui dedicate non troverete
scoop sensazionali o novità clamorose (anche se l’intervista al fratello
Valentino è da leggere tutta in un fiato), ma di certo saranno l’occasione
per capire o ricordare l’influenza che la sua seppur breve vita artistica - e
non - ha lasciato. Una copertina che giunge dopo 30 numeri (a questo proposito,
ci autoauguriamo un bel buon compleanno!), e che ci dà quindi l’occasione per
ripartire in età adulta con i piedi ben saldi nelle radici della musica
d’autore del nostro paese.
Ma nel numero troverete altri articoli interessanti che vorrei segnalarvi, tra
cui uno dedicato a Mauro Pagani, ritornato a produrre dischi, suoi intendo, e
che in una lunga intervista ci racconta di come il concetto di musica di qualità
sia un percorso in evoluzione e di come la sua, anzi le sue, lunghe esperienze
in generi diversi lo hanno portato ad avere le idee più chiare su quali siano i
binari in cui far confluire le emozioni. Altra segnalazione la spendo per il
lungo articolo dedicato alla canzone ‘jazzata’ in Italia. Quattro pagine
dense di nomi e di aneddoti che ripercorrono almeno sei decenni di un modo di
fare musica che nasce come fenomeno di “importazione” ma che poi negli anni
ha visto modificarsi e prendere una fisionomia tipicamente italiana.
Visto che parlavamo di compleanni, la nostra Festa l’abbiamo già celebrata il
15 maggio a Segrate, in occasione della consegna delle targhe del Referendum
2002. L’articolo che troverete a pagina 64 vi descriverà il clima, di festa
appunto, che si è vissuto per tre ore e con un finale che ha coinvolto sul
palco ben ventidue artisti cantare con Claudio Lolli (premiato come Artista
dell’Isola 2003) il brano simbolo del ritrovato artista bolognese: Ho visto
anche degli zingari felici.
Ma quella stessa sera, in una megacena finita a notte fonda, è stata anche
l’occasione per parlare e discutere di nuovi e diversi modi di intendere la
musica d’autore, visto che gli artisti che si sono avvicendati erano portatori
di approcci diversi, sia da un punto di vista strettamente musicale che di
sonorità, nonché di sensibilità descrittiva nei testi. Si ragionava, si
rideva, si cantava e più si cercava di dare un senso a queste “diversità”
più ci si ritrovava a fare i conti con il binomio Parto-Lolli, un’accoppiata
su cui nessuno avrebbe scommesso mai stando seduti intorno ad un tavolo a ‘ragionare’...
Ed ecco che alla fine tutto si riconduce al valore di un testo scritto bene e di
una musica giusta che possa sostenerlo. Il fatto vero è che a volte manca una o
manca l’altro. Quando l’osmosi riesce anche i generi lasciano il tempo che
trovano. Sarà pure una frase finale degna del miglior Catalano di ‘Indietro
Tutta’, quindi un ovvietà, ma l’essenza della musica che emoziona sta tutta
qui.
Francesco Paracchini
Eppur (qualcosa) si muove
In un mare di sfiducia generale verso il “settore” musica, la nostra Isola
continua il suo percorso. Sempre più spesso, parlando con operatori del settore
quali discografici, negozianti, gestori di sale prove, manager, ecc, i discorsi
cadono sempre sulla difficoltà di vendita di un prodotto, di quanto sia
difficile dare visibilità ad un artista e di come la gente non “compri più
come una volta”.
Ed allora giù con le solite accuse arcinote: pirateria e prezzo dei CD troppo
alti. Concordiamo certo, motivi che hanno delle fondamenta solidissime, ma ogni
volta che ne abbiamo la possibilità cerchiamo anche di instillare una sorta di
esame di coscienza reciproca tra gli interlocutori, una riflessione che evidenzi
la soluzione - o perlomeno la ricerca - del problema.
Una delle domande più classiche che (ci) facciamo è quanta importanza venga
data alla creazione di un circuito serio di locali, di radio, di televisioni, di
giornali, di siti che abbiamo a cuore la musica italiana di qualità. Mentre il
business discografico classico gestito dalle major sa bene quali siano le regole
per “imporre” un singolo o ben che vada un album (leggasi grandi
investimenti pubblicitari, passaggi televisivi e rotazione continua sui network
radiofonici), c’è un sottobosco impressionante di etichette e produttori, di
artisti e di operatori che pur nella direzione giusta si muovono in maniera
troppo isolata.
E mentre per i ‘grandi’ investimenti sui ‘grandi’ artisti si
preannunciano tempi ancor più bui di quelli attuali, la sensazione che qualcosa
si possa fare per tutto il resto è netta. Non che sia facile, ovvio, ma che si
possa tentare di serrare le fila intorno a progetti importanti questo sì.
C’è bisogno di trovare dei punti di riferimento che facciamo da cassa di
risonanza, che riescano a diffondere una notizia nel più breve tempo possibile
e far sì che raggiunga il più alto numero di persone potenzialmente
interessate a quel determinato album o concerto che sia. Lo abbiamo detto già
altre volte, è vero, ma se siamo qui ancora a parlarne è perché la strada da
fare è ancora molta. Nel nostro piccolo cerchiamo di essere vigili su quel che
succede nel mondo della musica, ponendo attenzione a chi vuole raccontare delle
storie perché ha qualcosa da dire, a chi ricerca nella musica un mezzo per
comunicare in maniera nuova sensazioni vecchie come il mondo. Prodotti che
abbiano un “consumo” lento, che non vengano studiati a tavolino per essere
utilizzati in estate o solo perché si è indovinato un riff. Artisti validi ne
conosciamo, ma ancora di più potrebbero essere quelli che a noi sfuggono. Ecco
perché l’appello a far confluire notizie, date di concerti, nuove uscite, in
un unico canale renderebbe più semplice la valorizzazione di un disco o
porterebbe molta più gente in un locale, solo per il fatto che qualcuno ha
comunicato qualcosa, scusate il gioco di parole, a qualcuno. In questo senso il
nostro impegno futuro sarà quello di essere sempre più attenti a proseguire
questo discorso, a cercare di convincere distributori e negozianti, conduttori
radiofonici e promoter che si può creare un canale comunicativo snello e
mirato.
Bisogna far cadere l’idea che un disco sia valido solo perché è passato
parecchio in network o perché viene esposto in maniera visibile in una vetrina.
Non troverete a fondo pagina la ricetta del problema, ma già porsi il problema
di condividerne la ricerca ci sembra importante. Però, per esempio, si potrebbe
tornare al passaparola di un tempo, quando un amico ne convinceva un altro
facendogli ascoltare direttamente l’Lp.
I tempi sono cambiati, ma lo spirito deve tornare ad essere quello.
Meno sudditanza quindi verso prodotti imposti e più coraggio e voglia di
trovare alternative. In questo saremo vicino alla buona musica, cercando di
migliorare sempre di più le nostre ottanta pagine, di incrementare in maniera
organica e con nuove rubriche il nostro sito (anzi, da questo numero parte un
Forum sulla musica d’autore italiana www.lisolachenoncera.it/forum.htm/ a cui
vi invitiamo a partecipare) e a diventare sempre più un “luogo” dove ci si
possa incontrare e trovare informazioni utili alla valorizzazione o alla
conoscenza di vecchi/nuovi artisti. Noi ci crediamo e per questo vi chiediamo di
farlo anche voi. Magari iniziando proprio con il passaparola, dicendo che
esistiamo, che un abbonamento alla nostra rivista va oltre i venticinque Euro.
È un modo concreto per aiutare chi sta camminando a fianco della buona musica.
Francesco Paracchini
EDITORIALE DI FEBBRAIO 2003 (N. 28)
Sono ormai più di sette anni che dirigo questa rivista e
ogni qualvolta devo scrivere un editoriale sono portato a raccontare quello che
più mi ha colpito, in positivo o in negativo, del mondo musicale. Ma in questo
inizio d’anno, la mente non riesce a mettere a fuoco i pensieri, non riesce a
ricordare e a trasformare in concetti chiari quelle tremende difficoltà che
pure attanagliano il nostro settore. Questa volta il mio pensiero viene
catturato e schiacciato contro la parete della realtà, una realtà che sta
muovendosi sotto i nostri piedi o, se volete, sulle nostre teste. Mi riferisco
alla situazione internazionale e allo sciagurato vento di guerra che aleggia
sulla zona mediorientale. Vorrei essere capace di non fare il moralista e di non
aggiungere inchiostro a parole abusate come 'pacifismo' e 'disarmo globale', no,
vorrei solo dare un piccolo contributo ad una riflessione che deve essere
personale. Una coscienza critica che deve muoversi dal nostro interno e
chiedersi fino in fondo se davvero ha senso scatenare una forza militare di
quella portata giustificandola in maniera così grossolana. Ho provato a
rispondere, senza peraltro riuscirci, alla candida domanda di mia figlia che ha
dieci anni e che mi chiedeva perché l’America vuole fare la guerra a Saddam.
Ci ho provato, giuro, ci ho provato, ma è difficile, dannatamente difficile
dare una risposta plausibile. Sento il peso di essere occidentale e di essere
“alleato” involontario di una coalizione (ma quale poi?) che deve bombardare
la terra irakena in nome di una giustizia che certamente non mi appartiene. E
vorrei che non appartenesse a molti altri italiani ed europei. Non posso pensare
che ancora oggi, dopo 5.000 anni, l’uomo non riesca a dirimere le controversie
se non con le armi. Arrivo fin a dire che in questo momento non mi importa
proprio di convincere il popolo americano sull’ineguatezza di questa (di
tutte, comunque) guerra. Vorrei solo che l’Europa, unita, dicesse un NO
scritto a caratteri cubitali agli “amici” d’oltreoceano. Vorrei che il
nostro Presidente del Consiglio si unisse a quanto hanno già fatto Germania e
Francia e cioè una bella presa di distanza dall’arroganza e dalla fretta di
Bush. Quando nel ’91 l’Irak occupò il Kuwait non sono sceso in piazza per
fermare la guerra e probabilmente non ci andrò neanche adesso, ma ora ritengo
che le condizioni siano diverse e sono anche certo di non essere il solo a
pensarla così. Certo, mi consenta Cavaliere, preparare un sondaggio ad hoc su
una questione così delicata sarebbe davvero troppo. Credo che il 98% delle
persone rifiuterebbe una strategia così miope e priva di qualsiasi prospettiva.
L’altro dato amaro che emergerebbe sarebbe quello dell’omogeneità del
“rifiuto”. Qui non si tratta di quattro scalmanati che scendono in piazza e
urlano Viva la Pace, c’è un senso comune del pudore che sta per essere
superato. È un diniego trasversale che prende operai e imprenditori, leghisti e
leoncavallini, atei e ciellini, padri e figli. Appoggiare una guerra non
condivisa dall’Onu sarebbe un insulto alla nostra intelligenza e a due
millenni di democrazia e di cultura italiana, un errore che macchierebbe in
maniera indelebile l’Italia agli occhi dei nostri figli e nipoti. Chiudo
ripetendo quello che dicevo prima: nessuno chiede il nostro parere, ma aggiungo
anche che forse è arrivato il momento di farlo sapere lo stesso a chi ci sta
intorno. Ognuno usi i canali che vuole e che ha a disposizione. Con gli amici,
al lavoro, in famiglia, in vacanza, non possiamo permettere che i media ci
ripetano che la guerra è inevitabile. Non è così. E anche se non ho saputo
rispondere alla mia piccola intervistatrice ho cercato di scriverlo.
EDITORIALE
DI OTTOBRE 2002 (N. 27)
Torniamo a farvi leggere ottanta pagine di
musica italiana e lo facciamo con una copertina marchiata a rosso fuoco, con un
nome che ai più potrà dire poco, ma che incarna fedelmente lo spirito che da
sempre muove la nostra rivista. È quella voglia di essere vicino a chi ama la
musica (da dieci anni, con centinaia di concerti all’anno, lui, con 27 numeri
sudatissimi, noi) che ci accomuna e che ci spinge ancora di più a credere in
qualcosa di diverso dall’ufficialità imperante. In un mercato discografico
stantio e patinato per quel poco (o troppo) che basta, e che continua a puntare
sui soliti nomi, foraggiando così sempre le solite manifestazioni o i soliti
media, ecco che tra la “base” qualcosa si muove. La tenacia qualche volta
paga. Non diciamo nulla di nuovo se ricordiamo che in Italia ci sono molti
gruppi e singoli, che pur avendo un grosso seguito di pubblico (che compra
regolarmente i loro dischi ai concerti), non riesce ad avere una distribuzione
capillare e continuativa, così come esistono realtà editoriali che (pur avendo
abbonati fedeli) non riescono ad arrivare a migliaia di potenziali lettori
sparsi sul territorio. Nel mare della musica di casa nostra non è rimasto molto
tempo e chi vuole portare ben alta la bandiera di una musica d’arte, di qualità,
deve necessariamente fare quadrato. Noi siamo pronti a fare il primo lato. Più
volte lo abbiamo ripetuto, è solo unendo le forze che credono in questo tipo di
musica che si potrà diventare alternativa credibile al mercato delle major e
dei media.
Quanti sforzi inutili e quanto narcisismo
abbiamo conosciuto in questi anni.
Siamo tutti troppo “piccoli” per
presentarci da soli su questo tipo di mercato. Riteniamo – e confidiamo di non
essere i soli – che il momento sia maturo per far nascere una distribuzione
seria e alternativa ai canali tradizionali. O che comunque li possa sfruttare,
ma che sappia anche “inventarsi” nuovi strumenti che avvicinino fruitori ed
artisti, prodotto e acquirente. La ricetta non ce l’ha nessuno, sia chiaro, ma
la difficoltà del momento dovrebbe indurre molti soggetti a chiuderlo, quel
benedetto quadrato. Auspichiamo quindi una sorta di “costituente”, che
riesca a mettere intorno ad un tavolo distributori, produttori indipendenti,
piccoli editori, tour manager, piccoli circuiti radio-televisivi, organizzatori
di festival, e qualsiasi altro soggetto abbia voglia di unire le idee e far
parte di un “mercato” parallelo. Tralascio i lati negativi del discorso,
quelli li troveranno velocemente i detrattori, ma sottolineo solo quelli più
interessanti. Essendo molto più vicino a chi fa musica e a chi l’ascolta,
sapremmo prima e meglio quali sono gli artisti che “funzionano”, quelli su
cui investire tempo e fiumi di inchiostro. Il nostro riscontro sarebbe
immediatamente percepibile. Locali, riviste, radio, siti internet, punti
vendita, festival, potrebbero così scambiarsi informazioni in tempi
rapidissimi, senza gelosie e senza primogeniture. La “filiera” del prodotto
musicale di qualità avrebbe un percorso chiaro e veloce, un passaparola
invidiabile capace di parlare un linguaggio comprensibile ad un pubblico
ricettivo.
A quel punto non ci sarebbe più
“quell’umiliazione” perenne che si viene a creare con le grandi catene
distributive, dove il disco di un giovane artista viene lasciato negli scaffali
per qualche mese e poi reso introvabile. Migliaia di prodotti, tutti uguali,
nascondono anche materiale valido, ma appunto, bisogna cercarlo con il
lanternino. Ormai le regole sono ben chiare e chi non le ha capite ci sbatterà
la testa ancora. Quello che invece serve è una svolta, una nuova vitalità e
un’iniezione di fiducia negli artisti che hanno qualcosa da dire e nel
pubblico che ha voglia di ascoltarli. E, in ultimo, una fiducia anche nei
soggetti che potrebbero fare da collante. Noi ci crediamo, ma soli non faremo
molto. Giusto solo un lato.
Francesco Paracchini
EDITORIALE DI
LUGLIO 2002 (n. 26)
EDITORIALE DI MARZO 2002 (n. 25)
In un mercato discografico sempre più aggrappato alle labbra (e alle vendite) di una ventina di artisti, mi ritornano in mente le parole di alcuni “operatori” che qualche anno fa infarcivano il sottoscritto e la redazione di consigli su come orientare le scelte editoriali di una rivista come L’Isola che non c’era. Certo, le pacche sulla spalla si sprecavano, “ottima l’idea, …è importante che una rivista parli solo di musica italiana, che abbia un suo spazio…” I più ‘delicati’ dicevano però che saremmo stati, inevitabilmente, fagocitati da logiche che ben poco avevo a che spartire con la “qualità” artistica, con la valorizzazione di un sommerso (qui sì, caro Silvio, che un aiuto ci vorrebbe…) che chiedeva voce e che invece si vedeva chiudere tutti i microfoni. Ci dicevano che continuavamo a dare troppo spazio ad artisti che vendevano si e no tremila o cinquemila copie o a gente ormai fuori mercato, certamente validi in passato, ma che adesso erano poco spendibili. Ed invece ecco che certe piccole soddisfazioni cominciano ad arrivare.
Oggi, anche quelle cinquemila copie cominciano a far gola a molti direttori artistici e responsabili marketing. In questo precipitare vertiginoso di copie vendute, poter contare su artisti che abbiano un pubblico fidato, fidelizzato, può rivelarsi quella “goccia” che non fa traboccare il loro vaso. Anche se pur sempre di gocce si tratta. Ma il punto non è questo. La riprova è che bisogna tornare a puntare sulla qualità dei prodotti, su artisti che abbiano voglia di (e qualcosa da) comunicare. È importante poter lasciar crescere l’artista, dargli fiducia, investire a medio e lungo termine su un personaggio. Scelta non sempre facile per carità, nulla da eccepire, ma la “facilità” con cui oggi si promuovono prodotti usa e getta e la ricerca di un ritorno immediato è sotto gli occhi di tutti. Milioni e milioni gettati alle ortiche su ritornelli che ti entrano nella testa ma che non ti entrano nelle tasche.
La musica è cambiata, la sua fruizione è cambiata, il modo di viverla, di consumarla. Ormai siamo invasi da canzoni, o meglio da jingle, che ci bombardano il cervello mentre facciamo la spesa, prendiamo il metrò o guardiamo la televisione. Ma quella stessa musica che “subiamo”, spesso anche volentieri, non crea quel circuito che porta all’acquisto, al riascolto personale. In questo caso stiamo parlando di un modo di utilizzare la musica che ha delle logiche e dei meccanismi ben precisi, utilissima sotto certi punti di vista, ma che deve essere considerata una “parte” della musica, non “la” musica. Capisco perfettamente che il discorso diventa lungo, tortuoso anche, impervio e ricco di contraddizioni, ma il messaggio nuovo che sta passando, o se volete che sta ritornando, è quello di crearsi spazi alternativi ai canali usati normalmente. La radio, soprattutto, può e deve diventare il motore di questo nuovo cambiamento. Vorremmo qualche palinsesto mirato a far conoscere e a far parlare artisti che mettano al centro della loro “professione” la passione per la musica, la voglia di raccontare storie in maniera poco ovvia e più personale. E non c’è bisogno che a dare il “la” siano i grandi network nazionali, no certo. È sufficiente capire che il meccanismo innesterebbe un effetto a cascata, con realtà tipo la nostra che potrebbero pubblicizzare e amplificare il lavoro di venti piccole radio di provincia. Lo stesso identico discorso lo si può applicare ai locali o alle singole manifestazioni. C’è bisogno di mettere insieme le energie e creare un circuito che possa comunicare ed interagire in tempo reale. Se un artista nato in Piemonte suona e vende dischi ad ogni suo concerto (per esempio, cinquanta o cento copie sono tante o poche?) perché non deve avere la possibilità di suonare a Milano, Bologna, Roma e Bari, di veder trasmessa una sua canzone anche a Padova o a Catania e magari di poter leggere un articoletto su un giornale locale?
Oggi la risposta non è così ovvia. Ci sono difficoltà enormi nel preparare e gestire gli spostamenti, i passaggi radiofonici e gli spazi su carta stampata. O un artista ha un budget importante, oppure la promozione è lasciata al buon cuore di singoli. Così non ne usciamo più. La musica che piace a noi sta rischiando di rimanere soffocata, relegata al passa-parola. L’Isola il suo contributo a questo cambiamento lo sta portando avanti da tempo. Con la scelta delle copertine, per esempio, o più in generale con le interviste e gli approfondimenti. La copertina data a Sergio Cammariere va in questa direzione: un segnale di stima e di incoraggiamento a quel pubblico e a quegli artisti che da anni si spendono per “la causa” e un pugno nello stomaco per chi non lo conosce e che continuerà a batterci la mano sulla spalla.
Francesco Paracchini
EDITORIALE DI DICEMBRE 2001 (n. 24)
Non è leggenda
quella del Tenco come luogo unico in Italia per ascoltare buona musica e testi
degni, per vedere trattata la canzone (o certa canzone) come cultura. E anche
per passare tre giorni belli e intensi, con gradazioni alcoliche a scelta. È
un’altra dimensione, l’abbiamo detto e ridetto più volte su queste pagine.
E continueremo a farlo.
Certo i tempi cambiano. Non si può negare che a distanza
di qualche anno dalla morte di Rambaldi, il creatore della rassegna, si
avverte qualche comprensibile problema non tanto nel continuare, quanto sul
come. Lui risolveva le cose tirando o un pugno sul tavolo o fuori il
portafoglio. In generale usando il carisma che tutti quelli che l’hanno
conosciuto ricordano. Quest’anno l’impasse è stata risolta con la grande
intuizione di dedicare la rassegna a Sergio Endrigo, di far
cantare sue canzoni a tutti quelli che c’erano. Speriamo e crediamo che nella
prossima edizione ci siano altre idee di tal livello. Anche magari riprendendo
buone abitudini del passato. Ad esempio fino a pochi anni fa ad affiancare la
rassegna c’era un convegno. Ora non più. Si può obbiettare che ultimamente
l’affluenza di pubblico non era da stadio, che c’era forse la tendenza a
guardarsi l’ombelico, e così via. Ma crediamo che quel momento avesse
un’importanza pari e parallela a quella della rassegna stessa. Teoria e
pratica stavano sotto lo stesso tetto. In questo contesto ha colpito (i pochi
che l’han saputa) la notizia delle dimissioni dal direttivo del Tenco (che è
fatto di cinque serie e appassionate persone) del responsabile culturale, che
fra l’altro era proprio l’organizzatore di quei convegni. Scricchiolio quasi
impercettibile all’esterno, ma che non vorremmo annunciasse crepe più o meno
profonde. Non crediamo però che sia una crepa l’assenza dei Guccini e
dei De Gregori. Animo! Vent’anni fa i De Gregori, i Guccini, ecc. erano
più o meno gli attuali Cristiano De André, Sergio Cammariere, Capossela,
Parto delle Nuvole Pesanti... Sospetto: non è che in fondo bisogna avere
il coraggio di svecchiare un po’ il parco invitati senza rinunciare a presenze
artistiche di spessore? Il problema è che bisogna rimettersi “in cammino”
per l’Italia, andare ad ascoltare musica nei locali, verificare i finalisti di
altri festival, rimettersi ad ascoltare decine, centinaia di demo, di opere
prime. Questa è la vera scommessa dell’organizzazione, non certo quella di
riuscire a portare sempre e comunque i “soliti noti”. La linfa vitale del
Tenco sta anche nella capacità di essere “sulla” novità, prima degli
altri. Lo è stato per anni e questa deve continuare ad essere la sua missione.
Altro punto critico. Molti si lamentano per non essere
invitati al Tenco. Dovrebbero però tener presente che i posti a disposizione
non sono sterminati, anzi. Sono 18 o 19 gli artisti che si esibiscono nelle tre
sere. Conti alla mano, tolti i vincitori (6 o 7), gli ospiti o i premiati
stranieri (3 o 4) e un sacrosanto posto fisso a un esponente del folk italiano
(2), restano ben poche caselle libere. Che, per intenderci, solitamente non
vengono riempite con i Lunapop (i quali peraltro sono stati votati per la
miglior opera prima lo scorso anno da qualche giornalista birichino). A
proposito. Come ogni anno in quest’edizione sono arrivate critiche
sull’assegnazione delle Targhe Tenco. Molte a sproposito, perché fatte senza
conoscere il regolamento, che è di una precisione millimetrica. Magari senza
neanche sapere che le targhe Tenco vengono assegnate da una giuria di una
settantina di giornalisti musicali e non dal Club Tenco, che ha solo cinque voti
a disposizione. Oppure che i dischi che possono essere votati sono quelli usciti
tra il 1° settembre dell’anno precedente e il 31 agosto dell’anno in corso.
Però. Però quando abbiamo visto i risultati di quest’anno ci hanno colpito
non tanto i vincitori, ma piuttosto un signore siciliano, Carlo Muratori,
che ha avuto pochissimi voti nella categoria “miglior album in dialetto” per
il suo “Plica polonica”. Visto che il voto è segreto a meno che non
sia il votante a dirlo…. noi lo diciamo. Due di quei voti sono quelli del
direttore e del vicedirettore di questa rivista. Tutto è soggettivo ma ci pare
che il disco di Muratori (e il suo percorso artistico complessivo) meritasse di
più. L’abbiamo anche scritto nell’intervista che gli abbiamo fatto qualche
mese fa. Un album del genere (fra l’altro di impronta fortemente cantautorale,
da Tenco insomma) aveva tutti i requisiti per vincere la Targa. Il punto è che
probabilmente quei settanta votanti forse non hanno più il polso della
situazione. Si son persi questo disco, forse anche solo perché è uscito per
una piccola etichetta e non è stato presentato in laute conferenze stampa a
Roma o a Milano. Non sappiamo dire.
Fatto sta che un album bello, forte e importante non è
stato praticamente considerato. Ma il discorso potrebbe essere più ampio.
Quello di Muratori è solo un esempio, una spia rossa che si è accesa sul
cruscotto. Qualcosa non quadra. Meglio controllare il motore. Ad esempio forse
è il caso perlomeno di allungare la lista dei giurati con una ventina di nomi
che si guardino attorno un po’ di più. Ne ha bisogno il Tenco, ma ancor di più
ne ha bisogno il sempre più disorientato ascoltatore italiano.
Francesco
Paracchini & Enrico Deregibus