Incontro sull'Isola n. 6
di Alessia Cassani
L’idea iniziale di Francesco Messina era di fare
dei concerti in cui il valore della parola fosse essenziale. Quindi cantare
canzoni nate da testi poetici, brani letterari o cantautorato, che abbracciasse
diversi paesi, tra cui anche l’Italia. Poi durante questo percorso di ricerca
ci siamo imbattuti nel nostro patrimonio culturale, musicale e poetico, e il
progetto è stato deviato e centrato fondamentalmente sulla canzone d’autore
italiana. I brani scelti in questo disco, secondo noi, esprimono una grande
poeticità. Oltre tutto, Un blasfemo è ispirato all’“Antologia
di Spoon River” di Edgar Lee Master e ci sono due poesie di Pier
Paolo Pasolini musicate da Mino Di Martino, cosa non nuova per me,
perché aveva già musicato La recessione, contenuta in un mio
album di diversi anni fa. Queste, e anche Rose e limoni, che canto
spesso dal vivo, sono tratte da un suo progetto. Mino Di Martino è riuscito
benissimo, con un lavoro straordinario, a penetrare la poetica di Pasolini
esprimendola in musica, mettendo la sua musica al servizio della compiutezza che
già la poesia evidentemente ha. È molto difficile musicare delle poesie.
Anch’io ci ho provato ma non ci sono mai riuscita, perché secondo me deve
esserci una coesione totale con l’essenza, la musicalità della poesia stessa.
Per quanto riguarda le altre canzoni, a Ivano Fossati
avevo chiesto di scrivere il testo in italiano di due brani in inglese, e lui mi
rispose che gli sarebbe piaciuto scrivere una canzone apposta per il progetto.
Io non avrei osato chiedere tanto, e ne sono stata felice.
Per il resto, a parte Auschwitz, che tutti
conoscono, abbiamo avuto il piacere di andare a riscoprire delle pagine che
hanno avuto meno risonanza, ma non per questo meno ricche.
Essere interprete significa essere un mezzo. Io mi sono
sempre sentita interprete. Sono diventata compositrice nell’arco del tempo un
po’ per necessità, perché non riuscivo a trovare canzoni inedite con le
quali identificarmi, e poi perché la mia vita è stata molto intensa, e quindi
sentivo di avere qualcosa da dire. Così ho cominciato a scrivere. Ma io sono
fondamentalmente un’interprete, e soprattutto in questo progetto mi sento al
servizio di pagine estremamente importanti della nostra cultura musicale. Ho
cercato di coglierne l’essenza e di esprimerle secondo la mia sensibilità, il
mio gusto musicale.
Sono due eccezioni, che fanno parte del progetto iniziale e
alle quali non ho voluto rinunciare. Ogni canzone di questo disco è frutto di
una scelta, di una selezione molto rigorosa. C’era talmente tanto materiale,
che molto ne è rimasto fuori. In parte lo recupero dal vivo, come Col
tempo sai.
Mi fa piacere che tu lo dica, perché sono stati i più
ostici. Riuscire a penetrare l’essenza del mondo Battisti-Panella non è stato
facile perché utilizzano dei linguaggi fuori dagli schemi, ancora attualissimi.
Ero abituata, come tutti, ad amare il Battisti del binomio con Mogol; con
Panella sembra un altro Battisti, apparentemente razionale, mentale, dove non
c’è spazio per nessun sentimentalismo. Ho dovuto liberarmi da tutto quello
che era il mio modo di affrontare una canzone, per arrivare a capire che in
questi brani il sentimento è insito nella scrittura, e non nell’espressione
vocale. È un’operazione che Battisti ha compiuto lucidamente, dando
un’interpretazione pura. Se cerco di mettere un sentimento laddove non è
richiesto, sporco la composizione.
È vero, Battisti canta in modo distaccato perché solo così
può far passare il significato della canzone. È necessario ascoltare questi
brani senza nessun tipo di idea, di aspettativa, ponendosi in stato attivo, non
passivo. È richiesto uno sforzo, ed è per questo, credo, che non ha avuto il
successo che aveva avuto prima. Per tanti anni Battisti ha nutrito delle parti
di noi, e nel momento in cui ci ha tolto questo nutrimento siamo rimasti
spiazzati e c’è stato un rifiuto, nella maggior parte dei casi.
Io canto questi due pezzi in modo totalmente diverso dal
resto del disco, cercando di dare uno stato di distacco indispensabile per poter
far passare la composizione in toto. Mi auguro di esserci riuscita.
No. Io adoro il binomio Mogol-Battisti: mi ha accompagnato
dall’adolescenza in avanti per tanti anni. Canto dall’età di 8 anni e già
da ragazzina ho tentato di cantare Battisti, ma forse solo in un caso ci sono
riuscita. Lo trovo sempre così irraggiungibile, talmente alto che qualsiasi
altra interpretazione è sempre penalizzante. Quindi per me è stata un po’
una scommessa affrontarlo.
Atlantide me l’ha proposta Francesco
Messina, io non la ricordavo bene. Ho ripescato il disco e l’ho trovata
straordinaria e adatta al progetto.
In Auschwitz c’è una piccola variazione
rispetto al testo originale
Lo stesso Guccini ne modifica spesso il testo dal
vivo. Io gli ho chiesto di poterla incidere con la doppia
negazione (“No, io non credo/ che l'uomo “non” potrà imparare/ a
vivere senza ammazzare”) e lui ha accettato. Preferisco dare una speranza,
nonostante la storia sembri negarla. La speranza attiva è indispensabile perché
significa contribuire a un cambiamento, anche se magari noi non lo vedremo. Noi
guardiamo tutto in relazione al nostro periodo di esistenza, per questo non
vediamo la speranza. Ma bisogna avere uno sguardo più alto e più ampio perché
la vita va oltre la nostra esistenza terrena, che è un passaggio di qualcosa di
più grande.
Sì. È partito schierato in una posizione e pian piano è
arrivato al di sopra delle parti. Negli ultimi tempi ho avuto l’impressione
che lui avesse una visione assolutamente libera da ogni condizionamento, per
questo poteva scrivere canzoni come Non insegnate ai bambini.
Assolutamente sì. Mi interessa di più un discorso
esistenziale, ma questo non significa che io sia disinteressata al sociale,
tutt’altro.
La scelta di questi brani rispecchia il mio modo di
sentire, di vivere e di credere nella vita. Io sono contro la violenza a
qualsiasi livello. Violenza chiama violenza, in una spirale senza fine. Auschwitz
è legata ad un periodo storico e si riferisce alla tragedia degli Ebrei in
Germania, ma drammi simili sono successi anche nell’Unione Sovietica, in Cina,
in Irak, in Serbia, in Cambogia… In Oriente, poi, avvengono cose che da noi
non arrivano o non ci toccano, ma è un’Auschwitz continua. Un brano così non
è legato solo alla tragedia degli Ebrei, ma alla tragedia dell’essere umano,
che purtroppo non cambia, nonostante ci sia la speranza che lo faccia. Mi
interessa essere interprete per essere un mezzo per mantenere viva la coscienza
di queste cose.
In questo mondo è inevitabile essere influenzati. La
nostra arma però è decidere sotto quale influenza stare e a quale sottrarci.
Abbiamo il pensiero e il sentimento: cerchiamo di mantenerli integri, di
mantenere il pensiero attivo, la capacità di discernimento. Conquistare una
libertà non è facile, perché il sistema alimenta attraverso il benessere un
sonno globale.
Cerco di sentirmi viva, di essere in relazione con gli
altri, di vivere il momento presente come unico momento importante, e di non
lasciarlo sfuggire, possibilmente. Attraverso questo tipo di contatto, di
presenza del momento, c’è qualche cosa che rimane e che alimenta la vita
stessa. Quando non riesco a farlo mi rendo conto di avere dormito con gli occhi
aperti, la vita mi passa sopra e non mi attraversa.
A dire la verità preferisco non pensarci! Sono delle
pagine della mia vita professionale grazie alle quali io ho smesso di cantare, e
questo dice tutto! Avevo poco più di 18 anni e la mia casa discografica mi
mandava a casa gli spartiti di canzoni nuove. Insieme a mia sorella, diplomata
in pianoforte, imparavo i pezzi e poi comunicavo loro la tonalità e la
preferenza. Sceglievo il pezzo meno peggio, ma non era facile. I miei miti erano
i cantautori, era il 1972, anni ricchi dal punto di vista musicale, e loro mi
proponevano Il mio cuore se ne va…! Ho deciso di lasciare
perdere, non potevo cantare qualcosa che non mi apparteneva. Così dopo il
diploma magistrale ho iniziato a lavorare in uno studio di architetti e ho fatto
la disegnatrice per 3 anni. Ho sempre avuto un grande amore per l’arte e la
pittura, che mi è rimasto anche adesso.
Però in occasione della mia vittoria della Gondola
d’Argento a Venezia ero stata notata da Giancarlo Lucariello,
produttore dei Pooh, che allora andavano fortissimo. Dopo un paio
d’anni mi chiamò e mi propose di ricominciare a cantare, ma a condizione che
cambiassi nome. Per me è stato un travaglio perché la cosa non mi piaceva. Poi
però ho pensato che in fondo un nome è solo un nome, ed ho accettato, anche
perché mi sembrava che mi stesse offrendo un tipo di lavoro vicino a quello che
io desideravo... Invece mi sbagliavo, ma è stato comunque un passo estremamente
importante.
Dici che i cantautori italiani erano i tuoi miti… Io
invece ti ho sempre vista più legata ad un certo tipo di musica anglosassone
Questo è successo dopo. È un mondo a cui mi sono
avvicinata quando ho cominciato a lavorare con Francesco Messina nel 1986 con “Park
Hotel”, che segna per me l’inizio di un nuovo periodo musicale. Dopo
aver avuto una grande popolarità in Italia e in Europa, ho avuto una crisi di
rigetto fortissima: sentivo che c’era qualcosa che mi allontanava da me
stessa. Così ho fatto marcia indietro e ho intrapreso una strada un po’
controcorrente. Ma per me è più importante la vita del successo.
Mi piacerebbe, non lo escludo. Ma dovrebbe esserci un
progetto concreto che adesso non ho.
Rispetto al suo ultimo disco confesso di avere dovuto fare
uno sforzo per aprirmi al suo tipo di comunicazione assolutamente diverso. Mi fa
pensare in qualche modo alla rivoluzione Battisti-Panella, il meccanismo è lo
stesso. Sylvian sta facendo un lavoro meraviglioso, con grande profondità, che
però all’ascoltatore richiede uno sforzo. Io spesso ho fatto fatica a trovare
una chiave di apertura, ma nel momento in cui l’ho trovata mi ha introdotto in
un universo che tocca le corde dell’anima e ti lascia qualche cosa di
prezioso, anche se non è comprensibile razionalmente. Ma c’è qualcos’altro
in noi che va oltre la mente e che è in grado di comprenderlo. Questo tipo di
comunicazione è prerogativa solo di pochi artisti. Tra l’altro in concerto ha
realizzato quello che io da tre anni sto cercando di fare! Cioè l’unione sul
palco di immagine, musica e parola.
10 ottobre 2003
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