Intervista con Davide Van de Sfroos, dal n. 27, ottobre 2002
L’UOMO
DELLA TEMPESTA
di
Alessia Cassani
Accostarsi al mondo di Davide Van de Sfroos significa essere assaliti da una
tempesta. Un turbine di racconti, idee, suggestioni, progetti, creatività. Come
certi suoi personaggi, anche Davide possiede quell’urgenza che spinge a
viaggiare ed esplorare senza sosta. Nessun viaggio epico, però. Il suo
microcosmo è popolato da quella ordinaria “gente meccanica” che forse vive
ai margini della Storia, ma che quasi due secoli fa, sulle sponde sorgenti dallo
stesso lago, aveva acquistato voce grazie ad un altro vate lariano…
L’ultima
volta che sei stato intervistato dall’Isola era appena uscito “Brèva &
Tivàn”, qualcosa nel frattempo è successo…
“Brèva
& Tivàn” riguardava l’uomo del lago e il modo in cui vive nel suo
ambiente. Poi c’è stata la parentesi del mini-disco “Per
un poma”, di ballate
ironico-religiose con influsso celtico, eseguite con suonatori di baghet (una
sorta di cornamusa bergamasca) e un flautista molto virtuoso, Gerardo
Cardinali. “…
e semm partii” segna un altro momento: il muoversi dal porto-lago di Como verso il
mondo. Cosa farà questa gente lariana una volta scaraventata nel mondo, che non
è più la cornice del lago, con la sua ironia, la sua comicità? Da qui parte
il nuovo disco: inquietudine, movimento, gente che è obbligata a muoversi e
magari vorrebbe stare a casa, gente che vorrebbe andare e non può, ma si muove
su e giù dalla scala di un Grand
Hotel con una valigia di altri. Uomini costretti dall’indole a un
peregrinare perpetuo, come L’omm
de la tempesta, un dannato alla Chatwin, che deve continuare a andare. Se si ferma è finito, come Ulisse,
che vorrebbe tornare a Itaca ma è il viaggio stesso a tenerlo in vita. Tutte le
immagini della canzone …e
semm partii sono
riconducibili a un sogno che ho fatto: ho visto la scena di questi emigranti che
partivano. Erano tanti: genitori, nonni di gente che conoscevo, e in sottofondo
il tormentone “… e semm partii”. Il
giorno dopo l’ho scritta perché non sfuggisse.
Non
parti solo, però, usi il plurale…
Il titolo è al plurale perché io, chi canto e
chi mi segue, siamo diventati una pluralità disposta a scommettere che esiste
una curiosità al di là delle mode, dei confini e delle differenze
linguistiche. Mi sembra ridicolo pensare che a uno del Gennargentu non interessi
qualcosa di tipico valdostano. Accade coi vini, coi cibi, col cinema… perché
non anche con le lingue? Certo, ci vorrà un po’ di sforzo all’inizio, ma si
fa volentieri per capire. A me piacciono i Nidi
D’Arac, Parto delle nuvole pesanti, Tazenda, Muvrini,
Fratelli Mancuso…
Non
proporre qualcosa alla moda però può essere un limite al successo.
Le mode sono caleidoscopiche, a seconda del
momento si fa qualcosa che possa venire accettato. Negli anni '70 le canzoni
duravano 15 minuti, piene di assoli, di tecnica. Negli anni '80 musica derivata
dal punk o dalla new wave, semplice, immediata. Poi arriva il rap, l’hip-hop,
poi l’ambient… Però c’è sempre stato qualcuno che è andato avanti su
strade di campagna secondarie, percorse non da tutti ma in modo costante: Bob
Dylan, Springsteen, Tom Waits, Leonard Cohen, Neil Young, De André e molti cantautori italiani. Per tutti
si può prendere come emblema Woody
Guthrie, cioè uno a cui basta prendere in mano una chitarra per fare
sentire qualcosa. Ben vengano l’elettronica, i movimenti di ricerca, gli
arrangiamenti adatti ai tempi. Ma questi artisti, filtrati, rimangono sempre
loro stessi.
E
del periodo attuale cosa dici?
Credo che stia tornando il folk. Non il folk
patinato e lucido, ma quello che spesso le riviste con la F maiuscola non
vogliono riconoscere. Il mio folk è un bifolk, un folk di serie B,
scarno, non tecnico, ma che mi dà la libertà di inserire influenze dei Pogues, Ramones, Dylan, Waits,
Cohen… Non posso scimmiottare un folk aulico che nella mia zona non c’è:
non sono irlandese, né del Salento. Nelle mie canzoni c’è rock, folk e tutto
lo sporco che si raccoglie quando si percorre una strada. Mi sforzo di far sì
che la musica arrivi con quell’aspetto grezzo che a volte ti fa registrare con
un microfono quasi da concerto live, che dia l’impressione che stia cantando
in camera tua, come Ventanas o L’omm
de la tempesta.
In
alcune canzoni c’è un’atmosfera oltre che grezza anche “maledetta”,
come in S.Macacu e S.Nissoen, La Nocc, Treni Trenu… Ti ci identifichi o
ti piace come vena creativa?
Non sarò stato il peggiore di questi
personaggi, ma li ho visti e mi sono appassionato a farne il cronista, come John
Fante o Bukowski lo facevano nella
proprie zone. Ad ogni modo se guardi bene le mie sono sempre cose naïf, a volte
felliniane, o da libri di Testori, o Grazia
Deledda, spostandosi in realtà famigliari. Ci si ritrova anche qualcosa
di vagamente pulp, come le sequenze veloci di Sügamara: lui ha un
matrimonio fallito, è stato in molti luoghi, in prigione, forse in legione
straniera… Torna per avere l’ultima parola, ma il destino gli mette di
fronte suo figlio, che lavora nella banca che lui vuole rapinare. Non è un
cattivo né un assassino. È uno che le ha provate tutte e prova anche questa,
come quei balordi di paese che sono convinti che prima o poi arrivi la giocata
giusta. Il finale “non si può fermare un dado mentre gira” è aperto
come nel film Butch
Cassidy. Cambio i
nomi, ma parlo di persone che ho visto. Del resto tutti hanno conosciuto gente
simile a Genesio,
Sügamara, o ai personaggi di El
mustru o Grand
Hotel. Qualcuno avrà avuto uno zio cuoco esaurito,
o un nonno giardiniere come il mio, che pur essendo morigeratissimo magari sarà
stato innamorato platonicamente di una signora (Me
canzun d’amur en scrivi mai).
La gente che lavora non voglio vederla per
forza con la bandiera dei sindacati in mano, ma rispettare i loro sogni, le loro
proiezioni, le disperazioni, il loro lato umano. Non mi interessa la loro
condizione sociale né innalzare proteste. C’è chi può farlo sicuramente
meglio e che ha voglia di farlo. Io invece voglio vedere nell’operaio cosa
succede quando decide di fare una rapina, o nel pescatore quando vede il mostro
del lago di Como, il Lariosauro. Mio zio, quello de Il
ladro dello Zodiaco, era un eroe di guerra fascista
pluridecorato. Io ho provato a pensare a come poteva vedere da sopra le nuvole,
e non mi interessano i motivi politici della guerra o chi avesse ragione, perché
questo è un momento isolato, un diamante. Dentro ognuno di noi c’è un
bagliore che per me è sacro, ed è quello che voglio captare in una canzone. “…
e semm partii” parla degli italiani emigranti verso l’America, ma può fare
capire molte cose anche su quelli che arrivano oggi in Italia. Questo passaggio,
però, lo deve fare chi ascolta, io parlo solo delle loro emozioni. È questa la
chiave delle mie canzoni.
In
10 anni di musica c’è stata un’evoluzione nel tuo modo di raccontare questi
personaggi. Zia Luisa o Nonu
Aspis erano più caricaturali. Poi hai iniziato a trattarli con più
delicatezza (come Genesio) e in “…e semm partii” addirittura in
modo poetico.
In quel tempo cantavo delle cose immediate per
fare ballare la gente, come anche La
curiera, la furmiga…
…canzoni
che, a differenza di altre, sono rimaste nel tuo repertorio live.
Sono rimaste quelle che hanno un certo
colore… ma poi alla fine tornato quasi tutte. Ultimamente ho fatto un concerto
nel gigantesco ex-manicomio di Como. La città è entrata in manicomio, posto
che le si addice, e ho recuperato lì la canzone Manicomi. Comunque il mio interesse è sempre stato osservare senza
giudicare. Ad esempio mi piacerebbe scrivere una canzone sull’ultima notte di Mussolini, visto che l’ha
passata a 100 meri da casa mia ed è stato ucciso a 50. Vorrei riuscire a
scrivere la scena vista dall’uomo che lo ha ospitato per l’ultima volta.
Prenderò un matto, il classico scemo del villaggio. Dirà: “e me che sun
scemu… questa guerra non l’ho fatta”, “e io che sono scemo...
quest’uomo l’ho già visto... una
volta tutti gli gridavano di volere morire per lui, io che sono scemo non l’ho
fatto, forse ho sbagliato. Adesso che è morto tutti gli sputano addosso e lo
calpestano, io che sono scemo non lo faccio”. Alla fine, insomma, dirà
quello che ha visto dalla sua angolatura libera da bandiere e preconcetti. Non
so se questa canzone ci sarà mai, è solo un’anticipazione che faccio
all’Isola per farvi capire cosa mi piacerebbe arrivare a fare. Altrimenti ci
saranno sempre tabù, categorie di cui non si può parlare male.
Non
puoi negare che l’uso del dialetto per qualcuno significa schierarsi.
L’unico modo per togliersi
tutte le etichette era prendersele tutte, rendersi assurdo, e a volte l’ho
fatto, pur sapendo di innescare polemiche da una parte o dall’altra. Però il
giorno in cui arriverà gente ai miei concerti con delle bandiere, le farò
togliere e magari non canterò. Gli ultrà del Como hanno scelto una mia canzone
come inno (Pulènta e galèna frègia, n.d.r.) e mi fa piacere, ma non mi sento la
persona adatta a scrivere inni o slogan. Troppo spesso trovo cose positive e
spaventose da tutte le parti. Io esprimo quello che mi indigna: la guerra, il
massacro di Wounded Knee, il razzismo, che per me non è un fattore ideologico,
ma patologico. Canto il mio mondo e ciò che mi emoziona. Se questo piace, vuol
dire che anche chi ascolta si emoziona. Di tutto il resto mi importa poco.
Quest’estate, per esempio, ho fatto concerti in Puglia e in Calabria (dove tra
l’altro ho avuto l’opportunità di ascoltare Matteo Salvatore, straordinario cantautore ultrasettantenne) e
ho trovato persone che avevano visto il mio concerto in TV, si erano interessati
e avevano cercato il disco. Mi hanno detto di essere contenti che qualcuno
cantasse di persone di paese, contrabbandieri, persone che erano partite. Si
sono ritrovati in quelle storie di acqua e di osteria, e non importava di che
paese e dialetto fossero.
Come
facevano a capire quello che raccontavi?
Erano attentissimi e io
spiegavo ogni canzone. Nonostante la concentrazione, grazie all’immediatezza
della musica hanno ballato, hanno voluto il bis e il tris! Questo soggiorno a
sud mi ha dato molto, un giorno vorrei starci dei mesi, vivendo da meridionale:
mi sento un isolano mancato. E poi le altre lingue sono tesori, mi entusiasmano.
Tra
l’altro, così come l’inglese è adatto alla musica rock, il dialetto ha la
musicalità giusta per le tue ballate. Non trovi?
E credo che sia perfetto il
napoletano per le canzoni classiche, il siciliano per alcune ballate, e il sardo
anche in canzoni improbabili, come fanno i Sa Razza col loro rap sardo. Mi piacerebbe avere in Kapitan Kurlash un sardo che rappa. Però canto nel mio
dialetto perché rappresenta il mio mondo.
In
effetti persino Kapitan Kurlash, un supereroe che deve venire a salvarci,
ha il nome di un attrezzo agricolo, quindi qualcosa di profondamente legato alla
tua terra, così come la storia che racconti in Televisiòn.
Infatti. Il ritornello di Kapitan Kurlasch
ha una musica scanzonata, da cartone animato, ma il rappato dice cose
terrificanti. Ho messo in fila tutte le mie paure. “Tirano fuori un
falcetto che è un punto di domanda” , non sanno più neanche
accoltellare, “profeti che comprano la Bibbia alla Standa”, come
quando compriamo libri e pensiamo di avere capito il mondo. “Butta in aria
la tua vita come una moneta” : l’incertezza in cui viviamo, un mondo
veloce, informato in tempo reale.
Televisiòn
però non è una critica alla TV, ma un modo per ripercorrere
un’epoca, con le voci originali. Mentre succedeva la tragedia delle Twin
Towers ero in studio di registrazione e il brano non era ancora mixato. Qualcuno
ha suggerito di inserire la voce dei TG che commentavano i fatti, ma io ho
preferito finire con Papa Giovanni
che dice “date una carezza ai vostri bambini”, perché è una
speranza.
Anche
tu hai fatto e fai televisione…
Certo, non bisogna
demonizzare. Salire su un palco è mettersi in mostra Se questo palco diventa più grande e copre l’Italia, mi fa
piacere. Rai 2 ha filmato un mio concerto, sul mio lago, con la possibilità di
spiegare chi sono e di dove. Faccio musica perché si conosca, e mi piacerebbe
che chiunque sia interessato sappia che esiste, così come ringrazio le
trasmissioni o i giornali che mi permettono di conoscere gruppi che altrimenti
non conoscerei. L’importante è non piegarsi a fare cose a me estranee pur di
apparire. Chi guarda deve vedere me, col mio cappellino, la mi chitarra e le mie
canzoni. Lo stesso vale per Sanremo. Andare al Tenco, al Ciampi o a Recanati ti dà senso di
appartenenza e sicurezza. Invece il mondo di Sanremo mi fa paura, non mi ci
riconosco. Però non lo demonizzo. Ci è andato anche Jannacci, che tra l’altro
alla festa dell’Isola mi ha lasciato paralizzato per l’affetto con cui mi ha
trattato, e ci sono andati artisti che sono rimasti loro stessi: i Pitura Freska,
Elio e le storie tese, Vasco Rossi… e non credo che gli abbia fatto male.
Quindi
ti vedresti anche 'in mano' a una major?
Se si ha la possibilità di
mantenere il controllo sulle proprie scelte artistiche e contemporaneamente
usufruire di una buona distribuzione, se ne può parlare. Ad esempio mi dicono
tutti che dovrei cantare in italiano per vendere di più, ma questa condizione
non mi interessa. Se un giorno mi andasse di fare un disco in bosniaco o in
swaili, non mi limiterei per paura di non vendere.
Hai
citato alcuni scrittori, tu stesso sei uno scrittore, e nell’introduzione del
tuo libro “Capitan Slàff” c’è un pensiero a Paolo Elia Sala. Cosa ti
piace leggere?
Sala era un Omero del Lago di Como. Aveva tradotto delle parti della Divina Commedia
in dialetto, opere poetiche e teatrali. Poi mi piacciono gli autori nordici
della casa editrice Iperborea. Leggo i libri di Vázquez Montalbán e di Camilleri,
mi piace la sua
scrittura “dialettizzata”, che all’inizio è un po’ ostica, ma poi alla
fine ti fa parlare in siciliano. Mi piacciono moltissimo Deledda,
Silone, Verga, Pavese… quelli che
riescono a farti vivere la loro terra. È toccante Sepúlveda quando parla della
nostalgia per il suo paese, o Émile
Zola che descrive in modo quasi sanguinante il ventre di Parigi.
Importanti per me sono stati 'Viaggio al termine della notte' di Céline, 'Il profumo' di Süskind e la scrittrice Janet Frame.
Chiudiamo
tornando alla musica. Oggi cosa deve fare un giovane artista per essere
interessante?
Scrollarsi di dosso l’idea
di dovere assomigliare a qualcuno per funzionare. Comunque mi vedo male a
dispensare consigli, perché io ho sempre puntato tutto sull’istintività. La
musica come la faccio io non deve essere dimostrare di essere bravo, ma la
colonna sonora di un film che muovo attraverso le parole, alle quali deve essere
adeguata. Se il momento è crudo, che sia cruda. Non bisogna avere paura del
suono anche a “bassa fedeltà”, dove senti scricchiolare la sedia o il
microfono, perché a volte per toccare veramente ti devi avvicinare.
L’importante è che chi ti ascolta senta che ciò che canti è sincero e non
costruito. Bisogna vedere se uno fa musica perché ha dentro qualcosa che
scalpita o per mettersi in mostra. Il mondo delle emozioni non è Saranno Famosi. Una cosa è essere
bello, famoso, “funzionare”, un’altra essere emozionante. Come emoziona Ricky Martin è diverso da come
emozionava Maria Carta.
Sono due mondi differenti. C’è la Coca-Cola e c’è il Brunello di
Montalcino!