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Intervista con Sergio Cammariere, dal n. 25, marzo 2002

 

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... E CHE LA STORIA COMINCI

 

di Alessia Pistolini

 

Alto e sottile, abiti semplici e modi eleganti, Sergio Cammariere ci invita ad entrare nella sua accogliente casa, alle porte di Roma. Lui, musicista da sempre e cantautore da dieci anni, stretto tra la consapevolezza del suo talento e la paziente attesa di un successo che tanto ha tardato, vive ora l’urgenza di raccontarsi: sigarette e posacenere a portata di mano, seduto al pianoforte, suo luogo naturale dove la riservatezza si scioglie e l’emotività si trasforma in creatività. Cominciamo un viaggio a ritroso fatto di parole e suoni, scoprendo un sorprendente e affascinante percorso interiore e artistico.

 

Questo è un momento chiave della tua carriera, di cui il riconoscimento al Premio Tenco del 1997 è stato il preludio, poi definitivamente consacrato dall’ovazione che un pubblico entusiasta ti ha riservato nell’ultima edizione dello stesso Festival. Come senti questa cosa ora, guardando in prospettiva la tua storia?

Sono stati dieci anni di lavoro e di attesa, per arrivare al momento attuale. Gli avvenimenti recenti del Tenco riguardano l’attuale Sergio Cammariere, ma la mia storia parte da molto lontano.

 

Allora, cerchiamo di capire chi è Sergio Cammariere. Poco fa ci hai mostrato un piccolo strumento a fiato, cui sei particolarmente legato: vuoi cominciare da lì?

Quello è una melodica soprano, il mio primo strumento musicale. Ho mostrato un grande senso musicale fin da piccolissimo: a tre anni ero il disk-jockey di casa, trovavo il titolo di una canzone tra centinaia di 45 giri tutti uguali. Così ebbi in dono questo strumento, due ottave sulle quali ho cominciato a capire tutta l’essenza della musica. Cercavo di riprodurre le melodie suonate da un giocattolo musicale, un trenino che girando percuoteva delle assicine di legno ordinate secondo un criterio fatto di colori. Ho capito un po’ la musica attraverso quei colori.

 

Vuoi dire che non hai studiato musica?

Io non ho mai letto la musica, sono un vero autodidatta. Tanto orecchio e tanto ascolto: è attraverso questa strada che ho capito il segreto della musica, cioè l’ordine, la misura, l’armonia...

 

Quali luoghi importanti ricordi della città dove sei nato e cresciuto, al di fuori della tua casa?

Il teatro Apollo di Crotone è stato fondamentale. Durante le convention annuali delle scuole elementari, mi esibivo come solista sul palco. È stato allora, su quel palco, che ho capito che il teatro sarebbe stata la mia famiglia, la mia vita. A quattordici anni cominciai a curare le musiche per le rappresentazioni di una compagnia teatrale: a volte sceglievo i brani dai repertori classici, ma in genere componevo musiche originali. La cosa si è protratta fino a quando ho lasciato definitivamente Crotone. Anche oggi, ogni volta che sono su un palcoscenico importante mi sembra di ritrovare il teatro Apollo della fine degli anni Sessanta, quando ero un bambino e sognavo che quella sarebbe stata la mia casa.

 

Nel frattempo che tipo studi seguivi?

Devo dire con rammarico di non aver fatto studi classici, mi sarebbe tanto piaciuto. Leggevo Steiner, Adorno, Rousseau, Schopenauer… Però andavo sempre dove andavano gli amici: ed è così che io mi sono diplomato geometra!

 

E, subito dopo, la prima grande svolta della tua vita…

Sì. Il diploma ha segnato la fine di un rapporto con la mia Crotone, con il suo mare, il suo cielo, la sua terra. Da allora ci sono tornato pochissime volte. Ho abbandonato quasi completamente la mia terra per seguire la mia stella, la musica, che era anche il mio lavoro già dal ’74: d’estate suonavo in un villaggio turistico, e con i soldi guadagnati mi sono comprato il primo pianoforte, sostituendolo all’organo che mi aveva comprato mio padre.

Come è cominciata la tua nuova vita?

Ho vissuto quattro anni a Firenze, dove per dare una buona impressione a mio padre, che è coltivatore diretto, mi sono iscritto a Scienze agrarie. In seguito cambiai facoltà, mi iscrissi a Giurisprudenza, feci un esame. Ma soprattutto la mia attività musicale fu intensissima: inizialmente suonavo in una pizzeria e provavo con un’orchestra di Livorno, che aveva in progetto una tournée in Medio Oriente. Erano tutti più grandi di me, con dietro esperienze importanti. Sfumato il progetto, aprii un bar con un amico, il Bar Bogart: c’erano foto di Humphrey Bogart ovunque, e naturalmente un pianoforte. La sera chiudevamo il bar e accoglievamo gli amici. Diventava una festa ogni volta. Poco dopo, in un locale, fui reclutato da un tale per suonare in Costa Smeralda: per me cominciò una vera attività, guadagnavo moltissimo, suonavo nei grandi alberghi… Avevo conquistato la libertà che sognavo, e che ho difeso anche quando mi chiamarono per il servizio militare: tornai a Crotone e tanto feci che... insomma, sono riuscito a dire di no a un qualcosa che limitava la mia libertà. Per me è fondamentale.

 

Anche la scelta di allontanarti presto da casa fa parte del tuo anelito alla libertà?

Senza dubbio. Io mi sono sentito libero per la prima volta quando, un giorno, mia madre pensò di mettermi su una barca di pescatori, che ci avrebbero venduto il pesce pescato con le loro reti. E io, il bambino Sergino, vidi la mia visuale capovolta: l’orizzonte non era più l’orizzonte, ma era la mia casa che si allontanava, le montagne dietro si allontanavano… ho provato un senso di distacco, era come tagliare un cordone ombelicale. Finché non mi sono sentito veramente in mezzo al mare: non c’era più niente là davanti, non c’era la mia casa, non c’era la mia terra, ero solo con questi due vecchi. Avevo tanta paura, ma nello stesso tempo provavo quel desiderio di libertà, che spesso significa anche distacco, allontanamento. Ho lasciato Crotone per la musica, sì, ma in fondo per la libertà, per la mia libertà.

 

Nella tua formazione musicale, che peso ha avuto l’esperienza di suonare con musicisti più grandi ed esperti di te?

Soprattutto mi ha fatto avvicinare al jazz, perché io fino ad allora ascoltavo solo il rock - Genesis, Pink Floyd - e musica classica; cominciai invece ad ascoltare Keith Jarrett, Stevie Wonder, e poi tutta la musica brasiliana, che esisteva solo in una ristrettissima cerchia di appassionati. Non si trovava questa musica a quei tempi, e io avevo voglia di mangiare musica, di imparare cose nuove.

 

Per te dunque l’ascolto della musica e la tua crescita come musicista sono sempre andati di pari passo...

Soprattutto la musica classica, la musica da camera. Ascoltandola, ho capito come si muoveva l’armonia, gli archetipi della musica che è venuta dopo. Il mio grande amore per Beethoven - perché io sono beethoveniano e non mozartiano, Beethoven è rock - è partito con la Patetica [ne suona un lungo estratto]. Questo che hai appena ascoltato non è ripreso da uno spartito: ascoltando Beethoven, ho “ripreso” Beethoven. A orecchio.

 

E, sempre a orecchio, costruivi il tuo repertorio…

Esatto. Per esempio un pezzo fondamentale della mai vita è questo [suona], che è Firth of fifth dei Genesis. Era il 1974 e c’era “Selling England by the pound”, che è stato letteralmente folgorante per me! A orecchio presi questo inizio pianistico [suona e canta], questa suite bachiana, quasi, e ovunque andassi a suonare partiva questa Fifth of fifth dei Genesis. Un altro pezzo molto in voga allora era Honky tonk train blues, suonato da Keith Emerson. Con questi due brani suscitavo grande scalpore, sorprendevo. Erano i miei cavalli di battaglia!

 

Quali sono stati i tuoi modelli nell’ambito del jazz?

Keith Jarrett, ma soprattutto Bill Evans, che della dinamica mi ha insegnato molto. È stato quello che ha messo per la prima volta nel jazz le tre “p”, che significa pianissimo, superpiano. Bill Evans mi ha aperto il cuore per la sua sensibilità. l’ascolto di Oscar Peterson [suona un pezzo virtuosistico], o di Art Tatum, mi ha fatto capire più la tecnica, il virtuosismo. E poi Chick Corea, Herbie Hancock...

 

Direi che siamo arrivati a un momento importante: come porti tutto questo nel mondo della canzone italiana?

A metà degli anni Ottanta decisi di non fare più il “mestiere” di suonare nei locali. Mi sono posto la domanda: che vuoi fare da grande? Mi sono detto: be’, ho già fatto delle composizioni originali, andiamo avanti. Così scrissi le prime canzoni, sia testi che musiche. Nell’85 Gegè Telesforo cantò in un suo album la mia Così solare. Nello stesso periodo componevo quelli che poi sono stati gli embrioni dei pezzi che sto pubblicando oggi: nell’’86-87 scrissi una canzone che si chiamava I movimenti del mondo, diventata l’attuale I cambiamenti del mondo. Poi incontrai Stefano Reali e Pino Quartullo, e fui invitato a comporre le musiche per il film “Quando eravamo repressi”. Da allora ho composto otto colonne sonore. L’ultimo locale dove il passaggio da esecutore ad autore si è definitivamente compiuto è stato l’Horus Club qui a Roma, all’inizio degli anni Novanta. Già nel ’92 cantavo solo il mio repertorio.

 

Che rapporto hai con l’ambiente musicale romano?

Quando cominciai a suonare al Locale, ho conosciuto  Max Gazzè, Daniele Silvestri e Alex Britti, che chiamai perché suonasse la chitarra nella colonna sonora di “Uomini senza donne”. Con Alex avevamo un gruppo: U.S.D., Uomini Senza Donne, appunto. Portavamo in giro le mie canzoni, tratte dalla colonna sonora del film. È così che cominciai a cantare anche cose mie.

 

Raccontami della tua collaborazione con Roberto Kunstler, l’autore dei testi del tuo album.

Il rapporto che ho con lui è magnifico. Roberto è un cantautore: era stato a Sanremo nel’’85, insieme abbiamo scritto per Paola Turci e per Francesca Schiavo. Nel ’93 abbiamo fatto un album in cui c’era già Dalla pace del mare lontano: il titolo del mio album è un pezzo di dieci anni fa! I cambiamenti del mondo ha quindici anni, Tempo perduto e Sorella mia le ho composte nel ’95… insomma, i pezzi di questo nuovo album hanno già una loro storia. Con Roberto è nata questa grande passione: lui mette la sua sintesi letteraria, da poeta, e io la mia armonica e melodica.

 

Non preferiresti scrivere tu i testi delle canzoni? Non sarebbe per te la prima volta…

Sì, però di fronte alla poesia mi trovo disarmato. La bellezza del linguaggio in versi è profondamente superiore.

 

Sembri però essere in sintonia con le parole che canti: seppure non sono tue, sembra che tu le acquisisca completamente.

È proprio così. Il mondo che c’è in questo nuovo disco è esattamente il mondo che voglio esprimere: evocativo, epico, ma anche leggero, e leggiadro. Ciò che io dico nelle canzoni è quello che con Roberto ci siamo detti in questi anni. Lui cerca di darmi voce, di tradurre il mio pensiero.

 

La forma canzone, nell’ambito della musica che fai tu, porta alla solita assimilazione, per fare un esempio ricorrente, Conte/Capossela, che ora spesso include anche te. Credo che tutto sia riconducibile al fatto che la musica classica o il jazz sono generi fondamentalmente strumentali; nel jazz, poi, persino la voce è usata in tale senso, e i testi raramente sono poetici o profondi. Vorrei conoscere il tuo parere.

Credo che tu abbia ragione. L’accostamento con Conte e Capossela è vero, perché loro fanno canzone d’autore mettendo anche della qualità nella loro musica. Ma a un livello più profondo il paragone non esiste, siamo tutti diversi, completamente diversi. Conte io lo definisco il Monk dei cantautori [suona Monk]… è Round midnight per me, Paolo Conte. Invece Capossela come pianista non saprei definirlo; però l’ho visto dal vivo, e mi piace molto. Per quanto mi riguarda, pianisticamente i miei riferimenti sono Jarrett e Evans. Ma la mia scuola è quella genovese di Paoli, di Tenco; quella dei francesi Brel, Ferré e Brassens; quella dei sudamericani Cico Buarque e Vinicius de Moraes. Questo è il mio background. A partire da questo nascono poi le canzoni: spesso con Roberto si parte dal testo; oppure esiste un bel passaggio musicale e su quello si costruisce una frase. Se poi intorno si mette un’armonia più jazz diventano jazz; se uno mette più maggiori diventano più pop.

 

Parliamo della tua voce: è una voce decisa, presente, una tua caratteristica importante. Da dove viene il tuo modo di cantare?

La lezione l’ho appresa dai grandi chansonniers. Potrei raccontare di tanti anziani, che nei pianobar con un bicchiere in mano suonavano il piano e ti cantavano un repertorio che non esisteva nei dischi, quella canzone sussurrata di Moustaki, o di Brel, con quell’appoggio, quel portamento… quella è la scuola dove ho imparato a catturare l’attenzione del pubblico, a creare un silenzio intorno… Questo mondo è finito completamente nell’’85-’86, con il Karaoke e via dicendo, quando suonavano tutti con i dischetti giapponesi le canzoni ascoltate anche per radio. Io sono uno dei figli di questi grandi vecchi chansonniers che suonavano nei locali. Ecco, se dovessi mai avere successo, vorrei essere la voce di tutti quei grandi che sono rimasti nel buio, che non sono mai stati conosciuti.

Il tuo disco ha una caratteristica assolutamente eccezionale: è registrato in presa diretta. L’esecuzione dal vivo ti è particolarmente congeniale, sembri dare il massimo…

Sì, questo è un punto importantissimo. C’è chi scrive le canzoni per cercare di fare il massimo in sala d’incisione, vi si chiude per mesi fin quando viene fuori quel suono così perfetto e quel canto così studiato, per cui è sempre uguale, e anche dal vivo. Quello che invece capita nella mia musica è esattamente il contrario. La canzone si evolve continuamente nell’assemblea, nell’adunanza, cioè quando c’è il teatro.

 

Che è anche dove tu sei nato artisticamente! Il fascino per il teatro è sapere di essere lì di fronte a delle persone vive e presenti…

Per me il legame è sempre il teatro Apollo di Crotone. Dal vivo, le mie canzoni crescono sempre di più. Spesso canto persino altri testi: ho tanti versi “panchina”, cioè versi di scorta, che posso decidere di utilizzare; oppure metto le parole in un modo diverso. Cerco di “far rotolare” bene le parole in un tempo.  Nelle strutture delle mie canzoni, nel mio modo di suonarle, c’è sempre questa sfida con il Sergio pianista. Come in Tempo perduto, per esempio…

 

Tempo perduto è un gioco letterario-musicale: al “tempo” del testo corrisponde un particolare “tempo” musicale, un irregolare 5/4. Però il tuo modo di cantare ammorbidisce molto l’irregolarità del tempo…

Esattamente: è una voicing pianoforte e voce che si incastra insieme a tutto il resto. E sono incastri che avvengono solo lì, nel momento in cui tu suoni dal vivo. Posso cantarti  Tempo perduto così: [ne suona una parte]; ma se io ti rifaccio questo pezzo tra due minuti, sarà diverso. L’improvvisazione pianistica spesso viene addosso al cantante, è come se io mi sdoppiassi. Già esiste uno sdoppiamento pianistico, che è quello tra la sinistra e la destra; poi c’è lo sdoppiamento del cantante! È una sfida continua. Dal vivo io oso sempre un po’ di più, è questa la mia libertà. La vittoria della canzone è quando il pubblico se ne impossessa e la fa sua, se la canta come vuole. Ma io voglio avere la libertà di interpretarla sempre in modo diverso. Quello che ho in più è questo: ciò che faccio dal vivo viene sempre meglio, perché è il presente.

 

C’è anche chi ha paragonato i tuoi concerti ad una galleria d’arte, in cui tutto attorno, al posto dei quadri, scorrono le canzoni: secondo me rende l’idea, si addice al tuo modo di suonare. È come se tu mandassi continuamente a chi ti ascolta delle immagini, anche se fatte di sensazioni. Che ne dici?

Penso che dici bene. E mi fai venire in mente una teoria, credo di Steiner, che diceva che perché la pittura possa essere simile alla musica, bisognerebbe che l’osservatore si trovasse in una stanza circolare, e tutto intorno i quadri dovrebbero essere fluidi, e muoversi, e girare. È un concetto analogo a quello della camminata nella galleria piena di quadri. In fondo questo è ciò che voglio esprimere. Il mio mare, e il pensiero di un altro mare. Dalla pace del mare lontano mi porta ad esprimere sia il mio mare, quello che conosco, sia un altro mare, quello che non riesco a raggiungere ma so che c’è. Ritornando alla tua prima domanda, su come mi sento adesso, direi che adesso mi sento come se fossi in mezzo al mare, ma non più su una barchetta con due pescatori, piuttosto su… non so…  un traghetto: vengo traghettato, chissà dove. La musica mi porta via, e spero possa raggiungere più cuori possibile. Spero di suonare tanto quest’anno, di fare tanti concerti, e poter dare il mio mondo.

 

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