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Intervista con Claudio Lolli, dal n. 29, maggio 2003

 

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CONSAPEVOLEZZA DI VITA


di Rosario Pantaleo

 

Intervistare Claudio Lolli è un po’ come scandagliare una parte di noi stessi, perché in quasi tutte le sue canzoni vi è la presenza archetipa di ciascuno di noi che siamo stati “anche” adolescenti, pieni di dubbi, di contraddizioni, di grandi slanci ed imponenti regressioni. Noi, che avremmo voluto conquistare il mondo ma rimanevamo incapaci di non litigare durante le sfide su un campo di calcio. Noi, che a sentire i Rolling Stones ci si scopriva pieni di vitalità e nell’ascoltare Lolli ci si ritrovava a ragionare sul come lui, che non ci conosceva, sapeva, di noi, quelle emozioni ed aspettative, paure ed esaltazioni, che non avremmo rivelato a nessuno. Ma lui, lo capimmo molto tempo dopo, è un poeta che vede con gli occhi del cuore, ha lo sguardo piantato nell’anima e “conosce cose” che a noi è dato solamente di immaginare...

Da cantore dell’angoscia esistenziale sei, in seguito, diventato autore politico a tutto tondo. “Ho visto anche degli zingari felici” è stato un momento di apertura civile nei confronti del mondo sociale degli anni ’70: oggi lo riproponi e lo rileggi in una luce diversa, ma è un disco che avverti attuale oppure scolorito nei suoi contorni?


La scommessa che abbiamo fatto, a distanza di tanti anni dall’uscita di quell’album, è che non si trattava di attualizzare un vecchio lavoro, bensì di valorizzarne alcuni aspetti rimasti in secondo piano. Un piccolo esempio è la riscoperta della sonorità percussiva ora focalizzata come una luce che, sul palco, si sofferma su una specifica figura, delineandone al meglio i contorni. Devo affermare che le canzoni di quell’album erano interessanti; alcune sono tra le migliori che io abbia scritto. Ed oggi, trasformate, mantengono una forte carica comunicativa, forse oppressa nella versione originale. “Ho visto anche degli zingari felici” può essere considerato un lavoro difficile ma, paradossalmente, anche sdrammatizzante, perché ha portato la drammaticità dei testi e dell’atmosfera complessiva ad un livello di attenzione molto profondo.

L’unione di intenti con Il parto delle nuvole pesanti ti ha portato, quindi, ad avvicinarti ad una dimensione nuova dove sono inseriti momenti teatrali, cabarettistici, di musica popolare. Come ti ritrovi, tu che sei definito come schivo e riservato, con quest’anima musicale e teatrale così esplosiva e appariscente?

Intanto devo dire che, col tempo, sono cambiato e questo è importante quando incontri artisti differenti da te, sia come approccio musicale che per generazione. La nostra collaborazione si è basata sulla trasformazione di quell’album la cui differenza con l’originale è ben definita nello spettacolo dal vivo. Infatti, mentre io sono sul palco e nella finzione scenica leggo un libro, i ragazzi del gruppo suonano, si scatenano, si travestono in funzione del momento, saltano, ballano. L’idea di fondo era il proporre il corpo nella piazza usando il palco come una piazza sulla quale fare confluire le intuizioni politiche che erano nell’album, non più mediate solo dal pensiero bensì anche dal corpo. La presenza e la collaborazione del Parto è dovuta anche alla considerazione che i tempi fossero maturi per proporre l’album in questa dimensione artistica. I ragazzi del gruppo sono contenti di questa idea e devo confermare che con il loro apporto, con la loro azione artistica, è stata sottratta molta sovrastruttura ideologica, innestando fisicità in un lavoro che, pur possedendola già in origine, non era riuscito a mostrare. Questa interpretazione della realtà è un tentativo per superare la distanza dalle parole che oggi esiste tra i giovani che sento restii a porre l’attenzione su tematiche originali ed importanti ed allora, trovandoli incapaci di gestire l’attenzione nella sua accezione più profonda. Abbiamo aggirato l’ostacolo utilizzando il corpo come medium, sperando di ricevere una risposta positiva.

Quanto il tuo modo di proporti dal vivo ha maturato la capacità di mantenere attuale la tua scrittura? L’incontro con le nuove generazioni ti ha stimolato verso nuove tematiche?

Fondamentalmente scrivo in merito a quello che mi interessa comunicare, prescindendo dal concetto romantico di ispirazione; quindi ciò che ho scritto è sempre stato frutto di tanto lavoro, di dedizione al progetto interessato, di grande passione interiore. Ho sempre cercato di pubblicare solo quello che mi sembrava degno d’attenzione, indipendentemente dalle condizioni produttive, che sono state a volte buone altre pessime. Sulla qualità della scrittura, ovviamente, non sono io che devo giudicare mentre so d’essere migliorato negli spettacoli dal vivo dove, chiaramente, molto dipende dalla maturità e dall’età. In questo credo che il mio lavoro abbia contribuito in quanto, da insegnante di scuola superiore, il parlare per ore davanti a tanti ragazzi ti mette di fronte ad un “campione” importante, davanti al quale devi essere sempre attento a misurare il tuo modo di porti nei loro confronti; di capirli e farti capire. Nei miei lavori ho sempre cercato di raccontare storie di vita, momenti della realtà che ciascuno di noi, prima o poi, incontra, il tutto condensato in canzoni che possiedono una dinamica che, forse, solo ora ho compreso fino in fondo.


L’uomo, la maschera, l’apparenza: sono temi che hai trattato ed attraversato soprattutto nei tuoi primi album. Oggi, alla luce della tua esperienza di insegnante ed alla luce di eventi drammatici che hanno coinvolto giovani che sono diventati assassini, come interpreti il disagio esistenziale dei ragazzi?


Ahimè, qui mi vorresti costringere a fare il sociologo ed il politico allo stesso tempo…però devi considerare che l’artista legge la realtà in maniera differente da chi artista non è; quindi la prima cosa che mi viene in mente sono brandelli di uno scritto di Paul Nizan, che recita “…Non permetterò a nessuno di dire che i vent’anni sono l’età più bella…”. Discendendo da questa citazione ricordo che il mio primo lavoro, “Aspettando Godot” manifestava la volontà di affermare che il re era nudo, gridava che l’adolescenza, sempre sbandierata come l’età dell’oro, era (ed è), un periodo terrificante e bellissimo al contempo. Un periodo nel quale si attraversano momenti di grandi conflitti e contraddizioni, dolori e passioni. Con quel disco cercavo di raccontare questo passaggio esistenziale, questo dramma interiore, e nel farlo avvertivo che ne elaboravo il tormento e, quindi, ne superavo il dramma esistenziale. In tutto il pensiero negativo dell’adolescente c’è una forte tendenza all’elaborazione e quindi al superamento del dramma, che non deve essere rimosso ma affrontato e superato. Ciò a cui invece tendono oggi i ragazzi è la rimozione del dramma e la parola d’ordine è quella d’essere felici, non importa come, stare bene a tutti i costi, non importa a discapito di chi.

Quindi, a tuo avviso, le nuove generazioni soffrono nel non potere esprimere liberamente ciò che sentono dal profondo, essendo costrette a recitare una parte?

Direi di sì, e questa situazione di ‘nascondimento’ delle emozioni, questa rimozione totale e continua dei problemi interiori viene compressa al punto che l’implosione diventa esplosione, con tutte le conseguenze di aggressività e violenza che poi ci arriva come cronaca nera. Oggi i ragazzi non tollerano l’idea di non essere felici e tutto ciò che va contro questa idea li rende inquieti e l’ansia che ne deriva è difficile da gestire. Poi la misura valutativa delle situazioni dettate dall’adolescenza mutano nel tempo e me ne sono accorto da un piccolo segnale. Infatti, nel mio modo di vedere la realtà giovanile, il libro “Il giovane Holden”, di Salinger, ha rappresentato la descrizione di un preciso ambito di conflittualità adolescenziale e quando lo proponevo ai miei alunni, essi cercavano di capire le ragioni ed i desideri del protagonista. L’ultima volta che l’ho proposto la risposta è stata deprimente, tanto che quasi tutti ritenevano che il personaggio fosse malato e la sua difficoltà esistenziale dovesse essere curata con psicoterapia e psicofarmaci.
Il messaggio che oggi passa nella società è quello di medicalizzare il disagio non, invece, comprendere la realtà ed i bisogni dei giovani aiutandoli nella loro crescita.

In una tua canzone del 1975, Compagni a venire, ci sono varie invettive contro persone a te vicine. Hai perdonato?

Si, ho perdonato tutti e, comunque, bisogna considerare che l’invettiva, come genere narrativo, ha implicita la dimensione del perdono. Quando attacchi qualcuno, nel momento in cui elabori questo sentimento, ti poni in una situazione di pacificazione interiore. Compagni a venire è l’ultima canzone che ho scritto prima di “Ho visto anche zingari felici” ed ha rappresentato la chiusura dei conti con le difficoltà e le sofferenze dell’adolescenza...


I giornali di Marzo del 1977 rappresenta un ritratto limpido di un particolare momento storico: cosa hai pensato dopo Genova: che la storia si ripeteva oppure che si trattava di tragiche coincidenze slegate tra loro?


Devo dire due cose: la prima è che quando l’universo giovanile vuole scalare il cielo e comunica questo suo desiderio, si mette subito in moto una repressione che lo intimidisce e lo ferisce. La seconda è che in quei giorni ho pensato che la storia si ripeteva e questa riflessione ha rappresentato uno dei motivi che mi ha spinto a riproporre “Ho visto anche degli zingari felici”. Mi ha colpito, ad esempio, un documentario sui fatti di Genova in cui si vede la polizia mentre chiude una radio libera: è esattamente quello che avvenne a Bologna nel marzo del 1977 con Radio Alice. Il fatto che questo evento si riproducesse a Genova ha prodotto in me sensazioni di rabbia, sdegno, indignazione, emozione straordinaria. Questo episodio deve farci riflettere sul fatto che la comunicazione è l’evento più rivoluzionario che esista, ancor di più delle armi, ed infatti la prima cosa che si colpisce in caso di guerra è la comunicazione. Da ciò, allora, potrebbe discendere la considerazione che se la comunicazione è davvero così importante, una carriera di aspirante poeta come la mia, assume una sua ben precisa dignità.

Pensi che sia sempre giusto essere Dalla parte del torto?


Certamente sì, anche perché ci sei costretto in quanto le regole del potere non cambiano ed in un mondo governato dalla lucida violenza, mi sentirò sempre obbligato a restare dalla parte del torto.

I musicisti, i poeti, gli artisti in genere, sono falsari della realtà oppure costruttori di sogni?

Io credo che, con molta umiltà, da parte dei produttori di musica e degli ascoltatori, dobbiamo prendere coscienza che stiamo parlando di prodotti che non nascono nel taylorismo e nel fordismo e, pertanto, questa forma di arte, nell’industria culturale dei nostri tempi, deve avere la possibilità ed il compito di stimolare la riflessione, di generare dubbi, d’essere profeta. L’artista deve esprimere una visione non consolatoria del mondo, smascherando le illusioni del quotidiano: non, quindi, costruttore di sogni (o di incubi) ma rivelatore di entrambi.
La parola, poi, possiede qualcosa di magico e dal momento in cui ne metti insieme tante e scrivi perché hai intuito qualcosa di importante, se grazie ad essa hai avuto la percezione di luccicanze, alla maniera di Stephen King, accorgendoti di qualcosa che gli altri non notano, allora trovi che il tutto può essere meraviglioso, disastroso, oppure allucinatorio, ed allora finisci in manicomio, certamente mai banale.

Abbiamo fatto un salto, dal passato al presente, percorrendo strade nelle quali si impara che nelle parole di una canzone può esserci la scoperta della poesia nel quotidiano e la consapevolezza che qualcuno sta parlando con te e di te.


Sì, tutto questo si può anche chiamare elaborazione ed aiuta a stare al mondo, in questo grande caos che è la vita.
Le mie storie mi hanno aiutato a trovare un senso nella vita: io non so chi mi ha dato la forza di scrivere le mie canzoni, ma certamente ho detto semplicemente la verità, senza intenti consolatori. Ho messo in bella copia le sofferenze e le ho fatte diventare consapevolezza di vita.
Se poi queste storie sono state utili anche per altri, non posso che esserne contento.

 

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