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Intervista con Sandro Luporini, dal n. 32 de L'Isola che non c'era, febbraio 2004

 

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SANDRO LUPORINI

LIBERTA’ OBBLIGATORIA

 

di Paolo Jachia e Paolo Micheli

Raggiungere Sandro Luporini, personaggio tra i più schivi e riservati, è stata un’impresa necessaria, ma non semplice. Nei pochi racconti vissuti e dispiegati, il Maestro ha già rivelato alcuni suoi ricordi, gli incontri milanesi, le scelte e le difficoltà. Ma anche la bellezza, l’amicizia, la lotta per l’ingiustizia, lo humor e la speranza che hanno caratterizzato il suo irripetibile percorso umano e artistico. Ci auguriamo così che questa intervista, inedita e completamente autorizzata, possa servire non solo a illuminare qualche altro tratto di una delle menti più libere del nostro tempo, ma anche possa spingere a un modo più nuovo e fresco di vedere e comprendere il mondo. Luporini infatti - sia come pittore sia come autore con Giorgio Gaber del Teatro Canzone - ci ha sempre insegnato a guardare con più curiosità e generosità intorno a noi e oltre di noi.

Caro Maestro, possiamo iniziare col dire, per chi non lo conoscesse bene, chi è Sandro Luporini, e parlare magari delle linee guida del suo mestiere…

Non è facile parlare di sé stessi. Manca sempre la misura. Si rischia di scivolare in una stupida modestia o in una sorta di autocelebrazione. Meglio che ne parlino gli altri.

Proviamo a farlo insieme, partendo dalla pittura. Nei suoi quadri abbiamo avvertito da un lato una traccia per così dire realistica e dall’altra una forte inquietudine esistenzialistica. È un’intuizione corretta?

È correttissima. Tra l’altro io sono appartenuto a un gruppo che si chiamava ‘Realismo esistenziale’.

Questi tratti li ritroviamo ci pare anche nel Luporini scrittore e drammaturgo con più una carica comica e anche sarcastica. Condivide questa riflessione e dunque questi sono più in generale tratti della sua persona e del suo modo di pensare?

È proprio quel “con più” di cui voi parlate che differenzia i due specifici. Secondo me nella pittura non è possibile esprimere idee di tipo politico-sociali (anche se qualcuno l’ha fatto). Dunque la mia essenza, se c’è, si trova assai di più nella pittura, mentre il mio modo di pensare ha più spazio nello specifico del Teatro.

Prima di scrivere con Gaber lei aveva già provato a scrivere o aveva avuto altre esperienze e collaborazioni?

Per dirla con Croce, a vent’anni tutti scrivono stupende poesie. Dopo i vent’anni soltanto gli imbecilli lo fanno.

Una domanda un po’ rituale che però apre una finestra su cose forse meno note. Come ha conosciuto Giorgio e come si inserisce nelle sue frequentazioni dell’epoca?

Ho conosciuto Gaber nel 1959 per caso. Abitavamo nella stessa zona e ci siamo incontrati in un bar. Poi una sera sono andato a sentirlo quando lui cantava il rock e altri pezzi in americano e sono rimasto colpito dalla sua prepotente energia. Siamo diventati subito amici. Lui frequentava i nostri studi di pittori e a un certo punto, quasi per gioco, abbiamo tentato di fare qualche canzone insieme. Al momento rimanevano nel cassetto e ancora non so se chiamarle stravaganti o presuntuose.

Può dirci qualcosa di quegli anni Cinquanta a Milano che per molti vostri estimatori sono lontani e dunque carichi di un fascino particolare? Frequentava anche Lei il Santa Tecla?

La Milano di quegli anni (per me dal ‘55 al ‘70) era meravigliosa. Direi la capitale dell’accoglienza e della cultura. Ho frequentato il Santa Tecla e ancor di più, successivamente, il Derby che rappresentava tutto il meglio del cabaret in Italia.

Lei frequentava anche Brera e il circolo dei pittori?

Più che Brera come Accademia direi l’aria che c’era intorno. I due famosi baretti (il Giamaica e la Titta) dove mi incontravo coi miei amici pittori.

A Brera studiava anche Dario Fo, come lo ha conosciuto?

Ci siamo incontrati dopo un suo spettacolo e abbiamo parlato molto. O meglio, l’ho ascoltato molto.

E Jannacci?

Jannacci, che io stimo molto, era amico intimo di Gaber dunque l’ho conosciuto subito, diciamo verso il 1960, e abbiamo anche fatto qualche tentativo di collaborazione. Dopo è arrivato Dario Fo ed è stato più bravo.

Walter Valdi, un grande milanese da poco mancato e che ha collaborato anche con Gaber. Cosa ricorda di lui?

L’ho frequentato poco, ma so che era una figura di primo piano nell’ambito di quel vivace sottobosco milanese.

A proposito di milanesi, voi non avete mai scritto in dialetto. È una scelta precisa sulla quale avete riflettuto o solo casuale?

Credo sia una scelta. Il dialetto può anche essere più colorito ma limita la possibilità di un’espansione più vasta.

Tra le figure artistiche di quegli anni c’è Herbert Pagani che ha aiutato Gaber a tradurre Brel e che ha giocato un ruolo in un suo disco di svolta, “L’asse di equilibrio”. Ci può dare un suo ricordo e un suo giudizio su Pagani?

Non ho conosciuto Herbert Pagani, anche perché credo abitasse in Svizzera, ma so che era una persona intelligente. Inoltre aveva una conoscenza profonda di tutta la poetica d’oltralpe.

Brel era un grande amore di Gaber e uno dei punti di riferimento nella sua “svolta” teatrale. E per lei?

Un genio assoluto!

Come sono nate la svolta teatrale di Gaber e il suo coinvolgimento sempre più forte nel lavoro di Giorgio? E perché all’inizio non firmava e poi sì?

Come forse voi sapete io sono una persona un po’ schiva. C’era già la pittura e mi bastava. Per quanto riguarda il Teatro quei nostri tentativi di cui parlavo, quelli che rimanevano nel cassetto, cominciarono piano piano a venir buoni quando Gaber, stufo dei circuiti tradizionali, si avvicinò sempre di più al palcoscenico.

Come componevate? E, se è possibile dirlo, che rapporto c’è tra le vostre vite e il vostro modo di scrivere e di fare arte?

Prima di affrontare uno spettacolo nuovo parlavamo per diversi giorni, direi fino allo sfinimento. Ci raccontavamo i nostri problemi, le nostre sensazioni nel tentativo di individuare a che punto, secondo noi, stava il mondo. Soprattutto elencavamo le scelte dei soggetti che avremmo potuto trattare. A quel punto io, che sono un po’ più grafonomo, buttavo giù qualche frase, anche un po’ scorretta dal punto di vista metrico, che poteva diventare una canzone. Poi insieme rielaboravamo il tutto seguendo magari una linea melodica che lui aveva trovato. Raramente, si partiva da una sua musica già ben strutturata. È il caso, se ricordo bene, del brano intitolato Si può. Il fatto di partire quasi sempre dal testo costituiva per Gaber (anche se lui era capace di musicare persino l’elenco telefonico) una certa fatica, però favoriva l’esattezza di quello che volevamo dire.

Dalla canzone torniamo ora alla sua Arte. Pensa che il suo impegno teatrale abbia modificato il suo modo di fare pittura o viceversa che il suo essere pittore abbia influenzato la sua scrittura?

Non credo. Sono due specifici molto diversi anche se un certo senso onirico o di sospensione si può trovare nell’uno e nell’altro.

A proposito di scambi tra arti diverse, so che avete conosciuto un grande poeta e letterato quale Franco Fortini, che apprezzava davvero le vostre canzoni. In un vostro spettacolo c’è il ricordo di un suo aneddoto: “Mah…! / È la cacca dei contadini. Tutto lì. / La cacca dei contadini. / Me l’ha spiegato Franco Fortini. A lui piacciono queste storie e anche a me eh … / In Russia, durante la rivoluzione, i contadini entravano nei palazzi dello Zar e …defecavano nei suoi preziosissimi vasi! / Un gesto di disprezzo, di distruzione… bello… stupendo. / Sì ma… perché bello? / Perché la distruzione, la cacca dei contadini, è importante… se ha un senso storico, se c’è qualcuno che la raccoglie… e in quel momento c’era un Lenin che la raccoglieva! / Non la merda, il suo significato voglio dire. / Adesso io non dico che uno deve vedere se c’è un Lenin prima di… ma… / Intanto noi non siamo contadini. Non c’è la rivoluzione e… non si sa dove cagare”. Ci racconta come vi siete conosciuti? E come siete arrivati a questa singolare collaborazione con Fortini, un personaggio certo difficile?

Non è che ci frequentassimo quotidianamente, purtroppo. Siamo stati insieme assai a lungo una sera che Giorgio stava provando in un teatrino. Al ristorante abbiamo parlato molto. Personalmente io rimasi colpito come non mi capita spesso. Mi ricordo che indossava una giacca alla cacciatora simile a quella di mio nonno, ma questo particolare non ha importanza perché non credo che l’intervista sia indirizzata agli stilisti. Ma, a parte quell’aspetto imponente da signore di campagna, a me, che avevo letto solo alcune poesie, impressionò la sua ricchezza di idee unita a una lucidità straordinaria. È un peccato perdersi per strada!

Questa parabola su Fortini faceva parte di “Libertà obbligatoria” un disco centrale negli anni Settanta, anni che nascono dallo slancio del Sessantotto italiano e internazionale, un momento esaltante e drammatico… che ricordi ha?

È stato per me il periodo più bello e più fertile della mia vita. Mi riferisco soprattutto allo “stato nascente”, quando il movimento rimandava più che altro un senso antiautoritaristico totale (scuola, famiglia, potere ecc.) Era uno slancio finalmente indirizzato verso l’idea di poter cambiare la vita. Mi piacevano le loro facce, la loro energia e, in qualche modo, anche la loro allegria. Quando il movimento si è un po’ troppo politicizzato, Giorgio ed io abbiamo cominciato ad avere qualche riserva che regolarmente sottolineavamo anche negli spettacoli. Per quanto mi riguarda l’importante è: “essere politici” e non “fare politica”.

In questo contesto c’era il fenomeno del terrorismo e delle Brigate Rosse. Le leggerò alcune dichiarazioni pubbliche sue e di Gaber: vuole precisarle, vista l’importanza? E ricollegarle alla bellissima Io se fossi Dio, uno dei pezzi più alti e drammatici della vostra produzione? Partiamo da un documento ufficiale. Nella nota introduttiva a un CD degli anni di Settanta ma pubblicata nel 2003 a firma Gaber-Luporini si dice: “Dopo la stagione teatrale 1978/1979 con ‘Polli d’allevamento’ Gaber interruppe per due anni l’attività teatrale”. E poi questa dichiarazione di Gaber: “Gli anni di piombo furono un momento di totale smarrimento. Mi fermai per quasi tre anni perché c’era fra me e il mio amico di infanzia e coautore Sandro Luporini una divergenza più emotiva che razionale sulle Brigate Rosse. Forse a lui erano un po’ più simpatiche che a me” (Corriere della Sera, 25 gennaio 1999).

Come per il movimento del ‘68, anche per le Brigate Rosse io ebbi una certa curiosità, ma solo all’inizio, cioè quando i loro gesti erano puramente dimostrativi. Anziché scrivere fiumi di parole che non avrebbero inciso affatto, preferivano fare alcune azioni spettacolari, ma non ancora lesive, allo scopo di quello che chiamavano ‘controinformazione’. Ovviamente quando prevalse la linea di fare la guerra allora il mio distacco fu immediato.

Dagli anni Ottanta e più ancora dai Novanta è stata ricorrente contro Gaber e lei, per uno dei tanti assurdi di questa Italietta, l’accusa di qualunquismo. Un’accusa ingiusta che personalmente riteniamo solo una calunnia ma che chiede di avere una risposta perché disgraziatamente diffusa. E magari ricollegandola ad un altro dei vostri capolavori Qualcuno era comunista.

L’accusa di qualunquismo ce la portiamo dietro da assai prima.  Ho già detto altre volte che sarebbe stato più giusto chiamarci “anarcoidi”. La nostra critica, spesso esasperata, non aveva niente a che vedere col sarcasmo passivo di chi sta alla finestra. La rabbia contro tutto e tutti derivava da un desiderio di verità e di cambiamento. (Cfr. Hortus Musicus Aprile - Giugno 2003)

Gli anni Ottanta hanno però aperto il discorso del teatro di prosa di Gaber e Luporini che voi avete spesso definito come Teatro d’evocazione. Come è cresciuta questa esperienza e perché poi si è interrotta? Vuole anche precisare che cosa intendete con Teatro di Evocazione? Non crede più in generale che la tecnica d’evocazione sia presente anche nel vostro Teatro Canzone e sia cioè più in generale una caratteristica della vostra scrittura sia nel Teatro Canzone che nel teatro di prosa?

Gli anni Ottanta si presentavano, dal punto di vista politico-sociale, come una specie di calma piatta. Mancando un po’ di stimoli esterni ci siamo occupati più dell’individuo. Ci premeva indagare sulla sua reattività, se ancora c’era, e soprattutto capire a che punto erano ridotti i nostri sentimenti. Ecco come nasce la prosa di Parlami d’amore Mariù e di altri testi. Il “Teatro di evocazione” è la conseguenza logica del fatto che lavoravamo con un solo attore: Gaber. Ecco che lui doveva evocare altri personaggi e farli vivere come se fossero lì e in quel momento. Avete ragione quando dite che questa caratteristica era già esistente nel Teatro-Canzone.

Dario Fo ha dichiarato che Gaber (e Luporini) erano il nostro prossimo Premio Nobel: solo una provocazione o come noi crediamo il riconoscimento dell’importanza di un’esperienza?

La frase di Dario Fo è certamente ironica, ciò non esclude che tra noi e lui ci sia stata sempre una stima reciproca.

Tornando alla canzone, cos’è per lei una canzone? E un grande cantante?

Una canzone può essere tante cose e non è detto che io prediliga le nostre canzoni-fiume dove si pretende ci sia dentro il mondo intero. Una canzone può anche scaturire da un’immagine minima purché abbia dentro una certa emozione.

Un grande cantante è Gaber! Non tanto per la bellissima voce, per l’intonazione perfetta, per l’uso magistrale del microfono e altre doti tecniche, ma soprattutto perché lui non canta solo le note (come fanno molti). Lui pensa talmente a quello che dice da non far perdere una sola parola neanche all’ascoltatore più distratto.

Il titolo di una recensione al vostro CD “La mia generazione ha perso” era “Gaber hai torto”. Noi crediamo, al contrario, che sia il titolo di questo disco sia condivisibile e che lo sarà sempre di più nel passare del tempo. Vogliamo ribadirne il senso?

Giorgio ed io abbiamo quasi sempre avuto il gusto del paradosso. Può darsi quindi che l’affermazione del titolo sia esagerata. Resta il fatto che, secondo noi, la generazione del ‘68, con cui abbiamo condiviso slanci e delusioni, non sembra aver figliato molto.

Nel vostro lavoro c’è una forte inquietudine esistenziale al limite dell’interrogazione religiosa...

Più che interrogazione religiosa la chiamerei interrogazione del mistero. In un nostro recente brano auspichiamo: “...una forte religiosità senza religioni”.

Pur cercando con attenzione parrebbe ci siano solo cinque interviste a Sandro Luporini in trent’anni di presenza pubblica (una in un volume di Serra del 1982, poi un’intervista del 03/06/1993 contenuta nel sito Internet Io se fossi Gaber, poi una sul Venerdì del 12/10/2001, poi due su Hortus Musicus del 12/2002 e del 12/2003). Come mai questa scelta di non rilasciare interviste? Troviamo sia per lo meno una scelta forte. La vuole motivare e magari darci altri riferimenti che ci siano sfuggiti?

Non vorrei che questo mio atteggiamento fosse interpretato come snobismo. Ho la scusante della mia timidezza oltre alla paura di un esagerato presenzialismo. Quasi sempre cerco di evitare le interviste telefoniche perché spesso mi son trovato poi a leggere cose che non avevo assolutamente detto.

Giorgio per un attimo ancora qui: un suo pensiero se non è indiscreto chiederglielo e diversamente e se non è altrettanto indiscreto, che parole usa e userà per raccontare Gaber a sua figlia?

A questa domanda preferirei rispondere tra un certo numero di anni. Non abbiamo perso solo un grande cantante e attore. Io ho perso un amico. Per quanto riguarda Dalia non credo abbia bisogno che io le racconti suo padre. Un abbraccio è molto di più di tante parole.

 

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