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Intervista con Pinomarino, dal n. 31, ottobre 2003

 

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IL TALENTO E LA PAZIENZA

di Francesco Paracchini

L’uscita del nuovo album è anche l’occasione per parlare con Pinomarino di musica e di quello che gli gira “intorno“.
A lui e alla musica.
Con i fidi Fratepietro e Pecorelli, il cantautore romano confeziona un album decisamente sopra la media che lo pone tra i migliori usciti negli ultimi tempi in Italia.

Una delle cose che colpisce di più del tuo ultimo lavoro è la grande delicatezza degli arrangiamenti, che a differenza di “Dispari”, il tuo lavoro d’esordio, erano più marcati, aggressivi, fortemente “innovativi”. Qui l’atmosfera viene dettata soprattutto dalle chitarre acustiche, dal piano, dal contrabbasso e da una batteria suonata senza invadere mai troppo. Ti senti più a tuo agio in questa situazione o semplicemente era il vestito migliore su questi brani nuovi?


L’agio è quasi sempre il frutto di una postura confortevole o più generalmente lo stato emotivo di una diffusa ‘familiarità’… e la familiarità che devo al pianoforte e alle custodie delle due chitarre che incontro tutti i giorni prima ancora di infilarmi nei pantaloni, non è certo la stessa che posso attribuire a campionatori e macchine elettroniche. Quindi la risposta sembrerebbe esaurita ed il caso risolto, ma il Tenente Colombo, tornando a ‘rintuzzare’ quando sembrava ormai già fuori la porta, ci ha insegnato che il caso è chiuso quando arbitro fischia - giusto?-.
Credo che la familiarità incorpori anche un’accezione pericolosa, la ciabatta, che non amo al punto da portare spesso le scarpe anche in casa quando l’inverno non permette i piedi nudi. “Dispari” è nato così, con i miei piedi nudi e le scarpe di più persone, in una parola la chiamano ‘contaminazione’.
Una “contaminazione” molto personale, che trasudava intuizioni riuscitissime e che dava al disco un fascino e un’aurea di novità non indifferente per la giovane musica italiana...
“Dispari” è un disco che amo e rispetto molto e al quale riconosco lo spirito di frontiera, ma del quale conservo anche i difetti, che non consistono certo nella scelta elettronica, elettrica o acustica che dir si voglia. Mi spiego.
Sul primo disco facilmente scattano tre trappole: 1) la profusa tentazione di dimostrare oltremodo che si merita quell’occasione... e vale per tutti i ruoli; 2) la propensione a rivedere il lavoro concepito in virtù delle possibilità tecnologiche occasionali che un tipo di studio improvvisamente offre...; 3) e il poco tempo che si lascia disponibile alla voce quando, dopo aver lavorato maniacalmente su tutto il resto, in fondo e di corsa resta da cantare, sulle basi. Ahh! Questo grossomodo accade, che lo si ammetta o meno, e il compito che spetta a chi si occuperà del disco successivo è fare attenzione perlomeno a queste tre trappole. Per alcune circostanze, sia volute che impreviste, mi sono assunto la responsabilità di guidare il secondo disco non solo per quanto riguarda la parte di scrittura, con tre piccoli punti di partenza: 1) nessuna problematica e arrovellata dimostrazione di alcunché; 2) privilegiare e rispettare tutto il lavoro svolto durante i concerti e durante il periodo di arrangiamento fatto in cantina se, come nel nostro caso, è il posto che ha permesso la creazione del profilo di tutto il disco; 3) la voce subito in prima linea e dal primo minuto in presa diretta con gli altri strumenti. Ecco, così è nato “Non bastano i fiori”.
Il resto sono undici canzoni che abbiamo poco alla volta inserito nei live del disco precedente e arrangiato in modo essenziale, non per questo approssimativo, al fine di lasciare tempo e aria al racconto di ogni canzone. Abbiamo montato un palco all’interno di uno studio e abbiamo fatto più e più volte quello che già facevamo in concerto.
Tutto è stato realizzato grazie al lasciapassare della casa discografica e alla collaborazione in fase di arrangiamento e produzione di Pino Pecorelli e Fabrizio Fratepietro, i musicisti che mi accompagnano indefessamente dal 1998.

Hai ormai più di trent’anni ma spesso vieni considerato ancora un “emergente”. Nel tuo passato, invece, ci sono collaborazioni importanti ed esperienze musicali che oggi ti sono tornate utili. Ti pesa questa etichetta forzata?


Le etichette hanno lo scopo mercantile di permettere la catalogazione, organizzare la scaffalatura e indirizzare la scelta d’acquisto. Questo nell’epoca che viviamo è il giuoco che tocca le cose con destinazione pubblica e che vanno tipicamente ordinate, capite e riposte nella scatola di pertinenza. È il gioco provocante di chi crede che un acquirente non possa trovarsi sprovvisto di indicazioni per l’acquisto, e il rito è ormai consolidato. Il lato positivo è che la faccenda delle etichette crea posti di lavoro, si può quindi tollerare senza dubbio un’etichetta se le si attribuisce una virtù antidisoccupazionale. Emergere poi prevede un sotto e un sopra e spesso all’emersione si da il valore supplementare di galleggiamento e traversata nel grande mare catodico che ci eleva dall’anonimato, stronzata pazzesca, ma vallo a spiegare a mia zia che ormai mi chiede solamente quando mi potrà vedere in tv come se quello che la va a trovare non fossi io, chi glielo spiega a lei e a tutte le sue amiche che saranno occhio e croce ventimilioni. Se un giorno qualcuno di voi mi vedrà passare con una barca a remi sul portabagagli, saprà che avrò deciso di andarla a trovare nel modo che ormai si aspetta. Avvisàti.


Spesso ci chiediamo se sia ancora attuale il termine “cantautore” e più in generale “genere cantautorale”. Fai parte della nuova generazione di autori italiani, come la pensi a questo proposito e, soprattutto, qual è il tuo punto di vista sulla musica d’autore, su come si è evoluta negli anni e come la intendi tu oggi?


Sulla canzone d’autore abbiamo avuto modo di parlare più volte, in privato ed in situazioni piuttosto pubbliche, ma non mi risparmio di insistere facendo soprattutto attenzione a non essere frainteso, perché il gioco sottile a travisarci reciprocamente è uno sport nazionale. Che io abbia ascoltato più Guccini, De André, De Gregori e Gaetano che Morandi, Pupo e Ramazzotti è abbastanza chiaro e partiamo da qui, ma è anche chiaro che la canzone d’autore si è relegata in un angolo propizio, in parte costretta e in parte guidata da un prolungato risentimento con il pop. La canzone d’autore o quello che si intende per lei (anche perché in fondo ogni canzone ha un autore), non può, non deve rannicchiarsi e rivolgersi già in partenza a qualcuno piuttosto che a qualcun altro e invece lo fa, spesso raggomitolandosi e contorcendosi oltre misura per raggiungere lo scopo.
Preferisco sentir parlare di canzoni belle e canzoni brutte, non ultimo Domenico Modugno padre per antonomasia del nuovo stile autorale italiano, ha scritto canzoni splendide e canzoni terrificanti. Questo, secondo me, rimane il punto nevralgico.
Il fatto che esistano degli incroci e dei ‘punti di raccolta’ particolarmente attenti come la vostra ‘Isola’, non credo debba far sentire automatica l’autorizzazione ad un naufragio.
Spiegaci meglio cosa intendi per “incroci”...
Provo a farlo con un ultimo e piccolo esempio personale, di cui ognuno può fare l’equivalenza. Ho iniziato realmente a cantare le mie canzoni fra l’89 ed il ’93 al Folkstudio di Giancarlo Cesaroni, ho vissuto la coda della sua attività non certo il momento focale e mi sono reso conto che chiuso il suo prezioso e irripetibile locale, molti di noi non si sono più visti in giro quasi come se in fondo si cantasse lì perché c’era un posto privilegiato. Dopo avermi ospitato per tanto tempo, da solo e con il trio Pistedapi, Cesaroni un giorno mi disse che avendo cominciato a suonare e a guadagnare qualche soldo fuori dal suo posto, lì non ci sarei più tornato, fine. E fu una delusione assurda lo potete immaginare, mi sembrava una cacciata senza senso … solo molto tempo dopo mi sono reso conto che non era stata una cacciata anzi, esattamente l’opposto. Capite? Per mia fortuna ci siamo incontrati e parlati a lungo pochi giorni prima che morisse, io ebbi modo di dirgli che avevo capito e lui di dirmi che mi aveva tenuto d’occhio da lontano. Ma questa è un’altra storia.

Oggi è fuori moda fare un album concept, così com’era pensato e suonato negli anni ’70, ma nel tuo ultimo lavoro “Non bastano i fiori” ritieni che ci sia un filo rosso che unisce i pezzi oppure ogni brano ha una storia a sé lasciando che sia il tuo timbro musicale a fare da collante?


Ritengo che il collante sia nel titolo... si può chiaramente non essere d’accordo senza perdere punti sulla patente... A volte un titolo detta delle condizioni e rappresenta il capoverso creativo di un intero lavoro, altre volte ne è la conclusione umorale e la sintesi legante. Questo credo sia proprio il caso di “Non bastano i fiori”, mentre “Dispari” dimostra il caso opposto, era già il titolo di una canzone del disco e da lì è partito il filo conduttore che ha portato a parlare di certe solitudini sbucciate e raccolte in una parola: dispari. Quindi forse c’è un filo rosso più evidente nel primo disco che nel secondo, nel primo però la sensazione è mitigata dall’ecletticità degli arrangiamenti, nel secondo invece il corpo sonoro è più omogeneo e sembra tutto più legato. Attenzione, questo è quello che credo io, non di più.


Speso si parla di quanto sia importante avere all’interno di album almeno un pezzo “radiofonico”, un singolo che possa arrivare direttamente alla gente, magari mentre guida nel traffico. In quest’ultimo album ci sono almeno due o tre brani che rispondono a questa “esigenza”(?) e mi riferisco a Menomale, Canzone n.8 e di certo a Ciao, ciao buonafortuna. Ascoltando la tua produzione quello che emerge con forza è proprio questa tua capacità di creare riff orecchiabili, costruiti con arguzia e ritmati da testi mai banali che subito dopo lasciano il posto a brani di assoluto spessore, coinvolgenti per altri motivi e non certo per la loro immediatezza “radiofonica”. Ci riferiamo per esempio a I fiori o a L’acqua e la pazienza...


Di quello che dici prendo atto e me lo tengo stretto, con orgoglio buono. C’è un orgoglio buono e uno cattivo, come il colesterolo. Se posso aggiungere una cosa, la aggiungo e riguarda anche un po’ la tua domanda di prima. Forse i concept album sono fuori moda e questo ci sta, ma appaiono troppi album pieni di una sola canzone. Forse c’è la tendenza a tornare verso il 45 giri, forse, ma un disco è un disco se è un disco.

Visitando il tuo sito colpisce il fatto che è hai deciso di pubblicare tutti i tuoi testi. Molti autori sono spesso schivi e restii a divulgare in maniera così “facile” il contenuto delle canzoni. Mi vengono in mente almeno un paio di esempi riferiti ad artisti importanti che nel libretto dei crediti non avevano inserito neanche i testi! La tua è stata una scelta ragionata o lo ritenevi ovvio?


No, no, non ho mai pensato di fare diversamente. Parlando di musica in genere, le parole spesso non contano e aggiungo ‘per fortuna’, ma quando si parla di canzone le parole tornano ad esserci. Boh, forse si può anche evitare di divulgarle in maniera evidente, perché no? Forse invece farlo è un dosaggio, non certo mortale, di vanita? Non so, però è come dici tu, mi è sembrato ovvio.

Domanda d’obbligo per un neo-padre, visto che durante le fasi di registrazione dell’album è nata tua figlia, Nina. Senza retorica o semplici frasi di circostanza tipo “sono molto contento”, cosa ti ha dato in termini umani e creativi un evento così importante proprio mentre stavi realizzando un album?


Devo dirti una cosa sinceramente... Sono molto contento. Facevo spola triangolare in bicicletta quei giorni casa - studio - clinica e Nina è effettivamente nata durante la registrazione del disco, ma è nata nell’unico giorno di riposo che avevamo prefissato … e lì ho cominciato a sospettare che in vecchiaia avrei potuto contare su di lei.


Raccontaci com’è nata la tua amicizia con l’attore (e cantante) Fabrizio Bentivoglio, visto che troviamo una bonus track in fondo al disco che poi è Meglio che niente, brano inserito nel primo album.

Fabrizio - che sta secondo me nella manciata di cinemattori più forti che abbiamo in questi anni fra cui infilo anche Rubini e Lo Cascio - l’ho visto più volte militare fra le prime file di qualche nostro concerto, paziente e osservatore nel suo stile più noto. L’amicizia è venuta man mano, accompagnata da altre amicizie in comune, quella di Mario Tronco (il piccolo Maradona degli Avion Travel) e quella di Peppe Servillo (il centravanti in giacchetta). Visto che siamo in argomento, confesso che di Fabrizio apprezzo anche lo stile rassegnato e nobile della sua indefessa fede calcistica per una squadra che vince poco rispetto a quanto spende, questo va detto.
Qual è la squadra immaginatelo che è facile.
E se ci capiterà un giorno di prenderci a cazzotti, sappiate che è colpa del Back Gammon.

Rimanendo in tema di cinema e musica, è ormai sicuro che un tuo brano sarà inserito nel nuovo film di Paolo Virzì, talentuoso regista, -“emergente” anche lui, ma fino a quando uno è emergente? - e che uscirà per Natale. È un brano del nuovo album?

Sì, certo. Si tratta di Ciao ciao, buonafortuna.
Paolo Virzì, anche lui fra il pubblico di qualche nostro concerto, ha voluto questa canzone per una scena di chiusura del film. Non si tratterà di una collocazione trionfale, come lui stesso ci tiene a sottolineare, ma sicuramente è una dimostrazione della stima anche in questo caso dichiarata e reciproca.


A proposito di pubblico e di concerti, è vera questa notizia che in qualche modo ci è arrivata su Sergio Cofferati?

Se ti riferisci alla sua presenza a dei nostri concerti, sì. La prima volta è apparso nel 2000 al Teatro Quirino a Roma e neanche me ne accorsi, poi invece l’anno successivo mi avvisarono che era presente in sala al concerto del Teatro Valle ed era la presentazione ufficiale a Roma di “Dispari”. Beh, sicuramente è un uomo attento, curioso e fra l’altro appassionato di musica, quindi il fatto che stia in giro a viversi in prima persona quello che succede è a suo grande merito e certo non a mio esclusivo onore. Ma una cosa la so, in un incontro, l’unico, che ci siamo procurati durante un suo intervento per ‘Emergency’ con Gino Strada, mi ha raccontato la sua visione dei fatti citandomi frasi e strofe da tutto il disco ed è chiaro che mi abbia colpito. Ci siamo lasciati cosi: Ciao ciao, Buonafortuna Pino, stai attento alla televisione. - Va bene, anche tu.

Sei romano e vivi a Roma. Parlaci della scena romana, anche perché negli ultimi anni molte manifestazioni e parecchi nomi si sono fatti conoscere non poco...

Riferendoti a Roma non hai usato la parola ‘scuola’ ma ‘scena’. Forse sapevi che sarebbe partito un pistolotto infernale e ti ringrazio per averlo sapientemente evitato, anche a nome di chi legge. La scena romana si conosce e si saluta, a volte capita che lo faccia anche volentieri e succede addirittura che qualcuno diventi amico.
Pinomarino “utente” della musica quanto è esigente? O meglio, quando ascolti tuoi colleghi, italiani o stranieri che siano, quali sono le cose che più ti colpiscono? Quando riesci a dire “questo brano o quest’artista è proprio interessante”?
Una cosa che riesce a muovermi sempre, ascoltando gli altri, è la mancanza di un certo tipo di pudore. E intendo riferirmi alla libertà assoluta e svincolata di proporre integralmente ogni sfaccettatura non pudica della propria proposta, andare avanti totalmente, che quando la strada non è battuta si usa la ruspa, ognuno la sua. Anche un’autostrada in fondo si fa così. Solo in questo caso non importa più nemmeno il genere, conta altro.

Oggi si usa molto inserire cover di altri artisti nel proprio nuovo lavoro o in concerto. Hai questa tentazione e se sì di chi ti piacerebbe farne qualcuna?


Il coverismo di questi ultimi tempi mi pare un po’ esagerato a dire il vero, questo non toglie che suonare le canzoni altrui è il gesto privilegiato per dimostrarne l’amore considerato (come in altre parole spiega Fabrizio Bentivoglio nel libretto del disco parlando di Meglio che niente). Io personalmente ho cantato tantissime canzoni altrui e per diversi anni, fino al momento che ho cominciato a scriverne di mie e lì più o meno s’è chiusa un’epoca, salvo rarissime eccezioni che ultimamente hanno riguardato Fabrizio De André e Rino Gaetano, del quale peraltro abbiamo pubblicato una versione in particolare, un anno?, forse due anni fa. A volte capita, soprattutto in prova, di lanciare un testo altrui su una musica che si sta improvvisando in quel momento e a volte è accaduto anche in concerto.


Lasciando da parte per un attimo l’innata creatività che un’artista deve avere dentro sé, nella tua scrittura quanto c’è di lavoro duro sui testi e nella ricerca di un giro armonico non usuale?


Premesso che il lavoro duro credo sia altrove, credo anche che proprio la pratica sia l’elemento che rende comune questa attività, nel senso che la accomuna a tutte le altre, sia fisiche che celebrali. Mi piace pensare ad una forma artigianale quando si parla di questo lavoro, sospetto molto dei facili accostamenti alla poesia e detesto implacabilmente le forme di starismo da vedette della minchia. Per tornare un po’ più dentro alla tua domanda, posso dire che mi pare di buttare oggi meno carta di ieri, questo sì.


È già prevista una tournée teatrale per questo inverno oppure no?


Una tournée con qualche decina di teatri la comincerei volentieri da domani mattina, ma occorre una pazienza atomica di questi tempi e bisogna attendere, concordare e mettere in fila una serie di cose per poter fare quella che sembrerebbe la più ovvia di questo mestiere: suonare. Comunque ci stiamo lavorando già da qualche settimana e speriamo di poter continuare almeno quanto e più di quanto è stato fatto finora. Le persone che sento vicine e attente, sparse nelle città, nelle province e nei paesi, spesso le ho incontrate suonando e credo che continuerà ad essere così. Le ringrazio e le saluto ogni volta che posso, compresa questa, e con loro ringrazio sempre chi con il proprio lavoro incrocia il mio, compresi voi.

 

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