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Intervista con Enrico Ruggeri, dal n. 26, luglio 2002

 

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ENRICO RUGGERI: UN UOMO CHE VOLA

 

di Andrea Romeo e Roberta Genovesi

 

Trent’anni di viaggio nel mondo della musica italiana non hanno fatto di lui un artista che ritiene di “non aver più nulla da dimostrare”, anzi: nella sua ultima e fortunata tournée, che proseguirà per tutta l’estate, ha rivisto i suoi brani, anche quelli storici, con arrangiamenti differenti che hanno dato loro una nuova vita e la capacità di trasmettere nuove sensazioni. È un Enrico Ruggeri soddisfatto di questo nuovo corso quello che abbiamo incontrato negli studi della Merak durante una pausa del tour, sempre curioso, ironico, aperto alle novità, ma come sempre realista e concreto quando si parla di musica e di tutto ciò che le ruota intorno. Senza supponenza o acrimonia, ma con le  idee chiare, molto chiare.

 

Parliamo del tuo presente: sei in tour da più di un anno, quali sono le tue impressioni, sei soddisfatto di come stanno andando le cose?

Beh, l’anno scorso non ci siamo massacrati, quest’anno sì! Sono soddisfatto perché questo nuovo corso si è ulteriormente modificato, nel senso che siamo partiti con una tournée strettamente teatrale, molto rigorosa, poi pian piano abbiamo capito che questo approccio con la musica ci dava anche la possibilità di fare delle cose divertenti, ritmate. Da questo processo a livello compositivo sono nate Primavera a Sarajevo e I naviganti, mentre dal vivo facciamo spettacoli nei quali la gente può saltare, ballare, divertirsi, sfuggendo alla ritualità dei miei concerti estivi di qualche anno fa, dove in ogni pezzo c’era l’assolo di chitarra, con Schiavone che veniva avanti ed io col piede sulla spia… Proviamo a fare delle cose che facciano divertire la gente facendola ballare, magari con la fisarmonica, col mandolino o col violino…

In questo senso aver inserito dei musicisti come Guareschi e Brambilla, che provengono da esperienze musicali diverse, ha modificato l’approccio con la tua musica e con il pubblico?

Assolutamente sì. Schiavone, ad esempio, grazie soprattutto a Guareschi, ha avuto, per sua stessa ammissione, una crescita musicale enorme. Adesso si diverte a suonare gli standard di jazz, ciò nonostante è sempre in giro con i suoi amici, una cover-band degli Ac/Dc che si chiama Riff Raff. Nella vita non bisogna sostituire, ma aggiungere sempre qualcosa e quindi noi, consapevoli di “difenderci” bene con il rock, abbiamo aggiunto ed anche imparato delle cose nuove. Nello scrivere e nell’arrangiare, per esempio, ma anche in questo caso devo dire che il primo a caldeggiare la scelta è stato Luigi, anche se a volte arrivano delle e-mail dei fan del tipo: “…adesso suoni l’acustica, il mandolino…”, qualche protesta dei più rockettari; pensano che sia stato io a ridimensionare il suo ruolo, invece è stato lui ad accrescerlo, ma in un'altra maniera, per cui questi ingressi nella band sono stati come una linfa nuova.

C’è stato, da “Oggetti Smarriti” a “L’uomo che vola”, un progressivo avvicendamento dei musicisti, l’hai vissuto come un fatto traumatico?

No, per nulla. Premetto che per molti anni i dischi che ho realizzato erano più raffinati dei concerti; “Fango e Stelle” era un album, oserei dire, progressivo per certi aspetti, mentre i concerti del tour erano abbastanza “ruggeriani”. Noi siamo cambiati perché siamo dei curiosi; io e Luigi suoniamo insieme da vent’anni e se non ti diverti a guardarti intorno, vedere che aria tira e cercare all’interno delle tue potenzialità, rischi di diventare ripetitivo.

A proposito del “guardarsi intorno”: all’inizio della tua carriera sei stato oggetto di valutazioni e giudizi, anche per il look; ora da artista con trent’anni di carriera sulle spalle come vedi il mondo musicale attorno a te?

Sono impreparato, anche perché non ascolto molta musica. Ogni tanto mi capita di sentire la radio e mi sembra che questo sia un periodo molto omologato, governato dalla paura, vuoi per la crisi del disco, vuoi perché i discografici non brillano per acume e voglia di rischiare. Una volta gli album d’esordio erano comunque qualcosa di particolare ed io, che di fatto ne ho realizzati due - perché lo è stato “Punk” ma lo è stato anche “Vivo da Re” - ricordo di aver pubblicato due dischi assolutamente diversi da ciò che si sentiva in giro. Probabilmente c’era la possibilità di farlo perché le case discografiche ti davano più fiducia; quindi la colpa non è di questi ragazzi, anche se mi sento di consigliargli di non inseguire a tutti i costi il brano da “passaggio radiofonico”.

Dal punto di vista compositivo ti puoi considerare una specie di “sopravvissuto”, una persona che non si è piegata a questa logica…

Magari un sopravvissuto no, ma è una delle cose di cui vado più orgoglioso, come il fatto di non aver mai fatto ascoltare ad un discografico canzoni che io non stimassi; mi sarà capitato due volte di far ascoltare un pezzo prima di pubblicarlo, ma solo per amicizia. Devo dire che il fatto di essere sempre stato per le mie case discografiche una “voce all’attivo”, ma non il salvatore della patria, è stato un grandissimo vantaggio dal punto di vista creativo, perché, di fatto, se Ruggeri va in studio, sanno che non ci rimetteranno. Non sarò certo io a salvare l’azienda,  perché difficilmente realizzerò un disco da due milioni di copie, come altrettanto difficilmente farò un album che causerà delle perdite; questo mi ha sempre posto in una situazione di tranquillità, perché non hanno motivi per farmi troppe pressioni.

Tu sei uno dei pochi che non si è fatto omologare con una “definizione”: hai partecipato e vinto a Sanremo, prima ancora sguazzavi nel punk, hai cantato con Morandi e Tozzi, artisti considerati più (nazional)popolari e nello stesso tempo hai scritto canzoni d’autore memorabili…

Ho scritto e suonato cose diverse, ho cantato anche con Locasciulli, con Elio, la Mannoia, ed anche dal punto di vista strategico i Festival di Sanremo che ho fatto me li sono giocati bene; Contessa fu una cosa, Nuovo Swing un’altra, Rien ne va plus un’altra ancora, ma comunque erano pezzi dell’area “ultimi posti/premio della critica”. Nell’87 ci fu una perfetta concomitanza di circostanze, perché in quegli anni si diceva di me che fossi più bravo a scrivere che a cantare ed io andai a cantare Si può dare di più, una canzone da fare a squarciagola, difficile, non scritta da me, confrontandomi con Morandi che è “la voce” dell’Italia, in un pezzo indubbiamente “nazional-popolare”. Nella stessa edizione, però, come autore portai Quello che le donne non dicono…di fatto una situazione irripetibile. Con Mistero, nel 1993, si creò una situazione ancora differente.

A nostro giudizio tu rappresenti il trait d’union tra il cantautorato e la musica rock; ti senti veramente così, pensi che possa esistere una terza via, oppure il tuo può rappresentare un caso unico? Di fatto, anche se la tua attività dura da molti anni, non molti hanno seguito la tua strada…

Purtroppo questi sono anni di specializzazione e, se ci fate caso, anche a livello mondiale quelli che fanno un certo tipo di musica non si spostano da quel genere. Ognuno, Cèline Dion, piuttosto che Michael Jackson, fa “quel disco”, suonato “in quel modo”, ed anche in Italia, soprattutto i grandi venditori di dischi, sono bravissimi a fare una cosa sola, 'quella'; la politica è questa, perché i dettami, a livello di marketing (non solo a livello nazionale, ma soprattutto internazionale), vanno in questa direzione. Come produttore ho avuto dei problemi con Andrea Mirò, perché molti discografici mi hanno detto: “…sa fare troppe cose…” e un disco, “Lucidamente”, dove trovi Opinioni di un clown ed anche Romanzo popolare è difficile da promuovere. Per cui quello che per me è un pregio - e a me piacciono i musicisti come David Bowie o Elvis Costello, che ha fatto un disco con Burt Bacharach, poi un disco di rock e dopo un lavoro con un quartetto d’archi - dal punto di vista del marketing è un errore.

Non hai completato la risposta… questa terza via, in Italia, esiste o ti ritieni una parentesi…

Noi viviamo un po’ questa spaccatura per cui, provando a semplificare, da una parte c’è la musica d’autore, che però dev’essere ghettizzata, settoriale, quella che: “…però che palle…”, dall’altra c’è la musica d’evasione, che però dev’essere idiota, con dei testi (!?)…, e poi c’è il rock. Io credo che la grande sfida sia quella di scrivere dei testi di contenuto, intelligenti, ma di non piangersi addosso, di creare delle musiche, degli arrangiamenti, dei concerti che denotino il gusto dello spettacolo che si concilia con l’intelligenza. Mi batterò sempre per questo ed invito soprattutto i nuovi autori a farlo, anche se è una via che richiede molto “coraggio”.

In molti tuoi brani si colgono situazioni “personali”, in altri riporti fatti od esperienze esterne in cui riesci ad essere coinvolto, ma non travolto. Come si realizza questo approccio, soprattutto quando si scrivono canzoni d’amore?

Bisogna cercare di avere molto rispetto per la parola e vestire i concetti in maniera differente; se utilizzando un termine esprimi un concetto troppo diretto, difficilmente sarà poetico. Anche la parola “ti amo”, detta così non ha grande profondità, se la esprimi in un altro modo hai fatto della poesia; devi essere meno diretto, soprattutto quando tratti argomenti difficili. Nel mio caso, in brani come Senza terra, Trans o L’altra madre, ho voluto scattare delle fotografie, comunicare delle immagini. Anche se l’intuizione può durare una frazione di secondo, ci vuole pazienza quando si scrive un testo.

Scrivere ti costa dunque un certo lavoro, che va ben al di la dell’idea uscita di getto…

Credo che aver fatto degli studi classici mi sia servito, come il fatto di aver letto molto. Questo tipo di basi ti offre la possibilità di usare molti sinonimi, di saper esprimere una frase, un concetto, in tanti modi diversi. L’uso della parolaccia, ad esempio, sintetizza, serve per fare in fretta, è il modo più veloce per esprimere che sensazione ha suscitato un fatto, oppure una persona, mentre in realtà ci sarebbero altri modi per farlo. Spesso diventa una scorciatoia: o la si dice per far capire a qualcun altro che sei arrabbiato sul serio, oppure perché il lessico delle persone è sempre più ristretto. I concetti troppo complessi vanno, purtroppo, semplificati…

Analizzando invece il lato più strettamente strumentale, molti cantautori, specie agli inizi, hanno posto la musica in subordine rispetto alle parole mentre tu, già dai primi album, hai curato questo aspetto con uguale attenzione.

Deriva dal fatto che da ragazzo, negli anni Settanta, i musicisti che ascoltavo non erano italiani, e non erano “ancora” quelli francesi, che ho scoperto più avanti; a me piacevano gli Yes, Lou Reed, amavo un tipo di musica in cui già il lato strumentale era un messaggio forte. Poi allora, come anche adesso, non è che conoscessi benissimo l’inglese, per cui quello che mi arrivava erano parole che mi piacevano come suono, concetti che intuivo, mentre le emozioni che ricevevo dai brani erano quelle trasmesse dagli strumenti. Io ho un passato, nel senso che sono nato, come “cantinaro-cantante” di una band, che ad un certo punto si è messo a scrivere delle canzoni e, per i casi della vita, ha iniziato a fare dei dischi sulle copertine dei quali c’era scritto solo il suo nome. Ma l’ho fatto quasi controvoglia, perché, quando si sciolsero i Decibel per la prima volta non pensai di fare il cantautore, ma riformai i Decibel una seconda volta. Dopo “Vivo da Re” ho chiamato Luigi Schiavone che già conoscevo, insieme ad altri musicisti; insomma ho proseguito un tipo di lavoro da cantante di una band.

Esporsi con un nome e un cognome, senza la “copertura” di un gruppo, presenta dei rischi. Ti metti maggiormente in gioco, devi avere del carisma per sostenere questo tipo di scelta, senza avere nemmeno troppo tempo per farlo. Nel tuo, come in tutti questi casi, tu sei la prima persona a credere in te stesso…

Direi di si; al di là del sodalizio con Silvio Crippa, io ero convinto e mi rendevo conto che stavo facendo cose assolutamente differenti rispetto a quanto si sentiva in Italia. Al tempo del primo album dei Decibel, mentre le band storiche erano in evidente declino, la scena non era occupata da personaggi o gruppi di primissimo piano, e quindi ho avuto la fortuna di trovarmi davanti un’autostrada deserta perché allora, nei primi anni Ottanta, c’erano solamente i cantautori e i musicisti prettamente melodici. C’era Bennato, è vero, che coniugava rock e cantautorato, ma in chiave prettamente mediterranea; io invece, anche per formazione, ero anglofilo, e per di più non amavo le espressioni musicali americane, tipo Springsteen o la West-Coast.

Una curiosità: come mai nell’album “Contatti” hai pensato di inserire una cover degli Alunni del Sole, cantata in napoletano?

Morelli era assolutamente un grande autore e quindi, per quanto mi era possibile, a parte l’ironia della cosa, ovviamente, volevo rendere giustizia ad un gruppo che era stato catalogato erroneamente così da svilirne il valore.

Riallacciandomi a quanto detto prima, oggi, come si viene fuori dal discorso della promozione; se realmente ad una piccola etichetta capita di ascoltare qualche artista valido, a chi lo dice, cosa fa, come si muove?

È un inferno; il fatto che, ad esempio, Luca Ghielmetti non sia, non dico famoso, ma uno il cui nome circola come dovrebbe, secondo me è un assurdo, al di là del fatto che è pigro di suo; lui è nato con quindici anni di ritardo, fa una musica che allora avrebbe avuto più spazio, più attenzione.

È ipotizzabile un circuito di locali, di piccoli teatri, di radio, alternativi rispetto quelli soliti, dove poter proporre questi personaggi? Se alcuni artisti di un certo peso, con un pubblico ed una credibilità consolidata, capissero questa logica sarebbe possibile uscire dalle forche caudine delle major e dall’imbuto dei passaggi radiofonici?

Questo è un ragionamento ipotizzabile nel momento in cui si venissero a creare molti mercati. Nel momento in cui il mercato è così contratto e le vendite sono il solo metro di valutazione, il loro potere è molto ridotto. Se a questo aggiungi che le scalette dei programmi televisivi vengono fatte con il sistema del radio-control, e vengono chiamati, che so, al Festivalbar, solo coloro che vengono passati di più in radio, capisci che non c’è via d’uscita.

Non vorrai dire che questa problematicità della distribuzione e della visibilità è un fenomeno solo italiano?

No, no, è un fenomeno multinazionale; dico solo che in questo momento ci sarà un bravissimo cantautore greco che sta smettendo di scrivere canzoni, uno polacco o uno venezuelano che stanno decidendo di cambiare mestiere…

Provo a insistere… ma se esistessero davvero dei luoghi, situazioni, radio, piccole Tv, festival, che promuovessero invece questi artisti, si potrebbe modificare questa deriva?

Il problema è: chi lo apre o gestisce un ambiente del genere? Devi trovare persone che abbiano quel tipo di cultura, anche imprenditoriale, che decidano di aprire uno spazio con questi obbiettivi, senza invece rivolgersi ad un P.R. che gli procura venti “figone” facendogli riempire il locale. Io apprezzo la tesi che sostieni e che, almeno nelle grandi città, sarebbe un obbiettivo importante, ma si scontra con la realtà, che so, del mobiliere che spende due milioni di champagne al tavolo per passare la serata con la stangona di turno, e che, da solo, ti fa realizzare l’incasso che ti garantirebbero tutti quelli che vengono a sentire Ghielmetti (uso sempre il suo nome, ma potrebbero essere centinaia) e si fanno portare un chinotto o un Pernod. Dimmi perché uno dovrebbe farlo… e poi, una promozione da realizzare, come sostieni tu, in piccoli ambienti, la può accettare uno come Ghielmetti, che ha di che vivere con un’altra attività, ma il ragazzino, quello che inizia, pensi veramente che preferisca quella strada piuttosto che tentare di mandare il pezzo alle radio, sperando, un giorno, di vendere 50.000 copie per comprarsi la casa e la macchina. Dalla base, non usciranno molti cantautori e in futuro la musica migliore, nel senso che saranno svincolati da altre logiche la faranno coloro che hanno già i soldi o un lavoro. Un giovane, valido, che deve scegliere tra il posto di lavoro sicuro e fare il cantautore, sicuramente non proporrà mai grandi novità, perché ha rinunciato alla sicurezza per vivere di musica, e allora avrà paura di sbagliare. Produrre un artista che non ha mezzi propri è una responsabilità troppo grande.

Torniamo al tuo percorso artistico. Di fronte ai fenomeni musicali italiani esportati “che rendono”, il cui spessore qualitativo è perlomeno opinabile, non hai mai provato un certo disappunto?

Le multinazionali lavorano in modo che ci sia un paese, o al massimo due, esportatori di musica, e di solito sono quelli della casa madre: gli Stati Uniti ed in parte l’Inghilterra. Il resto del mondo ha solo il “compito” di acquistare i dischi di questi due paesi. Forse esagero, ma tutto è strutturato in questo modo. Se aggiungi che la lingua inglese e quella spagnola sono parlate ovunque, mentre l’italiano non lo parla nessuno, hai già la risposta. Certo, ogni tanto vai all’estero e ti prendi qualche soddisfazione morale: quando siamo andati a suonare a Montreux Quincy Jones è rimasto colpito di come suonassero bene “degli italiani”, all’Hammersmith di Londra, alcuni musicisti che avevano appena terminato il tour con David Bowie ci ascoltarono e si dichiararono entusiasti. Non possiamo nascondere che nel mondo la gente pensa che gli italiani siano una certa cosa: è chiaro che se poi dall’Italia parte Renzo Arbore, e lo dico con tutto l’affetto possibile, e va in giro per il mondo a mostrare ancora l’immagine dell’italiano con il gilet dorato che canta Funiculì Funiculà… capisci…; rispetto a quanto abbiamo esportato per tanto tempo ti assicuro che Eros Ramazzotti è un balzo in avanti, ma avanti di quarant’anni. Tutti hanno diritto ad avere dello spazio… Ecco appunto, tutti…

Giusto a Londra, come dicevi prima, vi hanno detto frasi del tipo: “…non pensavamo che foste così bravi…”. Non vorresti realizzare un tour all’estero un po’ più lungo di quelli già fatti?

Eh, certo, più volte ho detto: “…morirò con il dispiacere di non essermela potuta giocare ad armi pari…”, perché vai con le cerbottane a fare la guerra contro i carri armati; questi arrivano con un palco di cento metri, le bombe, i fumi, impianti luce faraonici, e tu non puoi competere. Il mondo della musica è un po’ come lo sci: quelli più bravi scendono anche nel primo gruppo e con la pista perfetta mentre, in teoria, uno più bravo dovrebbe scendere dopo; in questo modo quelli che sono più scarsi o che, comunque, si devono affermare, sono obbligati a scendere con la neve rovinata e le buche.

Quando sei in giro, ti capita e t’interessa andare ad ascoltare musica dal vivo in qualche locale?

Quando ti muovi capita di stare in auto tre ore, devi fare il sound-check, poi attendere un’ora e mezza l’inizio dello spettacolo, magari sul camper, anzi, meno male che adesso c’è il Billa (Brambilla) che gioca a scacchi, dopo il concerto vai a mangiare e resta difficile trovare il tempo e le energie per andare ad ascoltare altri musicisti. Comunque rimango aggiornato. Tutti i miei musicisti hanno un gruppo in cui suonano e spesso mi dicono che la gente vuole sentire solo i pezzi di successo, per cui, se qualcuno presenta dei pezzi propri, il titolare del locale storce il naso e allora si suona la cover e sono tutti contenti, con buona pace dell’originalità. Del resto dobbiamo renderci conto che viviamo in un paese in cui il cachet di un Pietro Taricone che arriva da solo, stringe mani e firma autografi, sarà di venti milioni a serata… il Billa mi ha chiamato una volta scandalizzato perché ha letto fuori da una discoteca “…stasera, serata con il Signor Buonaseeera…”, questa è la realtà. Non so se avete mai visto più di un minuto di Buona Domenica o Domenica In: cantano tutto il giorno, tutti quanti, e passano la giornata in questo modo, ogni tanto si fermano, fanno un po’ di pettegolezzi e via. Questa è l’Italia in cui viviamo. O, se vuoi un altro esempio, come la sosia di Naomi Campbell, che da Costanzo, (dove io sono passato per i canonici quattro minuti…), spiega al mondo che cos’è l’amore: già è una che di mestiere fa la sosia di una che non fa un cazzo, e la pagano pure, va in televisione, fa le serate. Una sosia… Allora è chiaro che poi uno come Ghielmetti ha un pubblico ristretto, Andrea Mirò ha un pubblico ristretto, ed io stesso non posso certo avere ambizioni più elevate di tanto. Noi siamo tutti dei pazzi, io che continuo a fare questo tipo di musica, voi che fate questo tipo di giornale; siamo una frangia di resistenza, ma il paese è questo, un paese in cui metà della gente è famosa e “non si sa perché”.

Tornando alla tua esperienza umana e musicale, come sei riuscito a far durare così a lungo il tuo “matrimonio” con Luigi Schiavone, tu cantante, lui chitarrista, due ruoli da leader.

Non è stato facile, forse c’era una predisposizione perché io sono figlio unico e lui ha solo sorelle; c’è un grande senso dell’amicizia ma una diversità totale dato che, a parte l’Inter, per il resto siamo in disaccordo quasi su tutto, siamo, per chi ci crede, di due segni zodiacali opposti, lui Vergine, io Gemelli, ma assolutamente complementari. Anche in studio Luigi è un superpreciso; insieme abbiamo fatto una ventina di dischi; se li avessi fatti da solo sarebbero stati quaranta, lui, da solo, ne avrebbe fatti cinque, e anche troppo bene; io, invece, sono uno che in studio dopo un po’ si annoia e vuole fare altro, sono un impaziente, mentre lui lavora finché il risultato non lo soddisfa, insomma, da due posizioni estreme ne è uscito un risultato che ha funzionato.

Cosa ha cambiato, invece, nel tuo modo di essere artista e che peso ha avuto nella svolta stilistica che stai compiendo il tuo incontro con Andrea Roberta Mirò?

Diciamo che la svolta jazz la dobbiamo fondamentalmente a Guareschi, Roberta, invece, ci ha dato dei codici; per anni siamo andati avanti a produrre dischi senza scrivere nulla, provando melodie e passaggi a voce, canticchiando i motivi. Lei ha aggiunto, per esempio, la scrittura dell’orchestra, che avevamo sempre delegato ad altri, suggerendo le parti ad elementi esterni al gruppo che cercavano di interpretare le nostre indicazioni, e spesso il risultato non era quello che ci attendevamo. In più ci ha offerto la possibilità di utilizzare altri strumenti, non avendo problemi a passare dal violino alla chitarra al piano. È una che scrive la musica senza avere lo strumento davanti: tu le accenni un motivo e lei scrive la partitura. Primavera a Sarajevo, l’ho raccontato più volte, è nata così: una sera stavamo “cazzegiando” e a un certo punto ha detto: “…ehi, questa melodia è bella…”, e l’ha scritta sul bordo della Settimana Enigmistica, dormicchiando, con la luce bassa, senza quasi guardare quello che scriveva.

Questa formazione, in prospettiva, andrà in studio per un album, è già proiettata verso il futuro?

Sì, certo, mi sembra che questa sia la strada ed in più, essendo io refrattario alle sequenze campionate, ai concerti in semi-playback, non volendo utilizzare questi sistemi ho bisogno di una band corposa, di musicisti che suonino più strumenti, capaci di cambiare anche stile. Soprattutto per Luigi questa situazione è stata molto stimolante.

Viste le esperienze già avute con un’orchestra ritieni che potrete ripeterla dal vivo?

Dal vivo è difficile, per un discorso economico ed anche logistico, mentre in studio non utilizzerò certo gli archi campionati, ma dei musicisti che si occuperanno di queste parti. Quella dell’orchestra è un’esperienza molto affascinante, per chi ascolta ma anche per chi suona.

 

Ci salutiamo, in attesa che i suoi amici lo passino a prendere per la consueta partita di calcio. Del resto, giocando da tempo nella Nazionale Cantanti, Enrico deve tenersi in forma!

 

 

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