Livio Toschi
 
Arte e Sport

 

Arte e Sport fino dall'antichità hanno costituito un binomio fecondo, che divenne inscindibile in Grecia tra il VII e il V secolo a.C., tanto da non poter neppure concepire l'evoluzione artistica senza l'esperienza derivante dalle gare o dagli esercizi di palestra; senza lo studio degli armoniosi corpi degli atleti, che guidò Policleto all'eleborazione del suo "canone", concretizzato nella statua del Doriforo e in un trattato purtroppo perduto. E se Mirone nel Discobolo seppe cogliere il magico attimo in cui il movimento pare arrestarsi prima di esplodere in tutta la sua energia, Lisippo conquistò lo spazio con l'ampia e ieratica gestualità dell'Apoxyomenos.

Dobbiamo nientemeno che ad Omero la più antica descrizione, dettagliata e palpitante, di giochi atletici: gli agoni funebri banditi da Achille per onorare l’amico Patroclo, ucciso da Ettore. Quei versi colpirono profondamente Schiller, che affermò: «Non ha vissuto invano chi ha potuto leggere il XXIII canto dell’Iliade». E nell’VIII canto dell’Odissea Omero descrisse anche i giochi organizzati dal re dei Feaci, Alcinoo, in onore di Ulisse. Gare sportive che s’intrecciavano con la musica, con la danza e con l’ispirazione poetica del cieco “immortal cantore” Demodoco.

L’esempio più significativo del binomio Arte e Sport nell’antichità ci è offerto dai più famosi giochi atletici di tutti i tempi: le Olimpiadi. La città sacra dell’Elide durante i Giochi non era solo il più importante centro sportivo del mondo, ma anche un centro artistico, culturale e politico di grande rilievo, capace persino di assicurare la tregua nel paese (ekecheirìa). Notava infatti de Coubertin: «Non fu certo il caso a riunire un tempo ad Olimpia intorno agli antichi sport gli scrittori e gli artisti, e da questa incomparabile unione era derivato il prestigio di cui i Giochi godettero così a lungo».

 

Olimpia

Artisti e studiosi approfittavano delle Olimpiadi, momento di pacifico raduno di tutti i Greci, per farsi conoscere da un pubblico vastissimo e raggiungere così una rapida fama: la città sacra del Peloponneso (il nome alla regione deriva proprio dal mitico fondatore dei Giochi, Pelope) costituiva infatti una straordinaria cassa di risonanza. Fu ai piedi del monte Cronio, mentre si cingevano di corone d’ulivo i campioni dello sport, che Simonide, Pindaro e Bacchilide declamarono i loro versi immortali. E fu dal vestibolo posteriore del tempio di Zeus che Erodoto lesse le sue Storie, riscuotendo entusiastici consensi. Il successo aveva talora risvolti curiosi, come testimonia la vicenda del pittore Aezione, autore di un quadro su Alessandro Magno: l’opera venne tanto apprezzata che uno degli Ellanodici, i potenti giudici delle gare, gli offrì la figlia in moglie.

Nel periodo aureo ai Giochi panellenici assistevano i massimi esponenti della cultura greca, a sottolineare il loro stretto legame con lo sport, e molti non disdegnavano di parteciparvi attivamente. Bastino due soli, ma eloquenti esempi: Platone (“dalle larghe spalle”) gareggiò nella lotta e nel pugilato a Delfi e Corinto; Euripide vinse nel pugilato ai giochi di Atene e nella lotta ai giochi di Eleusi. Una vittoria, soprattutto se olimpica, accresceva enormemente il prestigio sociale, favorendo inoltre l’ingresso in politica. Non pochi uomini di potere, infatti, si servirono dei successi nelle corse equestri (disciplina riservata ai più abbienti) per consolidare la propria posizione: uno di questi fu Alcibiade, celebrato da Euripide con un celebre epinicio dopo la grande vittoria del 416 a.C. E diversi tiranni (come Gerone di Siracusa, Terone di Agrigento e Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno) fecero coniare delle monete per esaltare le loro vittorie nella corsa dei cocchi.

Fra i tanti personaggi famosi presenti ad Olimpia vanno segnalati Aristotele, lo storico Tucidide, l’oratore Demostene, il sofista Ippia, cui si deve il primo elenco degli olimpionici, il pittore Zeuxis di Eraclea, celebre competitore di Parrasio e Timante. Il noto matematico e astronomo Oinopides di Chio durante i Giochi espose una tavola di bronzo su cui era inciso un calendario astronomico di 59 anni, da lui chiamato «l’anno grande». All’esterno del temenos (il recinto sacro), alle spalle dello stupendo tempio dorico di Zeus dai celebri frontoni, l’eccelso Fidia eresse il suo laboratorio, dove realizzò la gigantesca statua crisoelefantina del più importante tra gli dei greci, opera reputata una delle sette meraviglie del mondo.

Alle Olimpiadi del 476 a.C. presenziò Temistocle, il vincitore di Salamina, al quale (narra Plutarco) gli spettatori tributarono ovazioni per un giorno intero, trascurando gare e atleti. Sulle rive dell’Alfeo famosi oratori quali Gorgia, Lisia e Isocrate infiammarono l’animo dei Greci alla concordia interna e alla guerra contro i barbari. Tale fu la fama di Gorgia, che venne onorato ad Olimpia con una statua in bronzo e a Delfi, unico tra i Greci, con una statua tutta d’oro. Nell’altis, secondo Pausania, sorsero anche le statue di Omero e di Esiodo, che la tradizione vuole avversari in un famoso confronto poetico.

Ogni vincitore di Olimpia aveva il diritto di farsi erigere una statua con iscrizione (le più antiche erano in legno) e al ritorno nella città natale la polis gli decretava il trionfo, arrivando persino ad abbattere tratti di mura per agevolare il passaggio del corteo. Molti atleti, come il lottatore Promaco di Pellene, ottennero una statua ad Olimpia e una nella propria città. Plinio avverte che essere effigiati con una statua costituiva un grande privilegio riservato «a coloro che avevano meritato l’immortalità per qualche importante ragione, in primo luogo per la vittoria nelle sacre gare, soprattutto di Olimpia». Ma le statue, ci dice Luciano di Samosata, non dovevano superare la grandezza naturale per non rivaleggiare con quelle dedicate alle divinità, commettendo così un grave peccato di orgoglio.

Gli artisti più prestigiosi lavorarono per gli olimpionici, costituendo il più grande museo all’aperto dell’antichità: pare che il numero delle statue arrivasse a 500 nel periodo di massimo splendore dei Giochi, e Pausania nel II secolo d.C. ne contò circa 200. Milone di Crotone, grandissimo lottatore e uomo dalla forza straordinaria, volle sistemare personalmente nell’altis la statua dedicatagli dal concittadino Dameas. Il pancraziaste Sostrato di Sicione, tre volte vincitore olimpico, venne addirittura effigiato sulle monete della sua città.

Tante erano le festose cerimonie (i Giochi, per esempio, si chiudevano con un pantagruelico banchetto), ma a volte Olimpia si vestì a lutto: per il filosofo e matematico Talete, uno dei Sette Sapienti, che nel 548 a.C. vi morì d’insolazione; per il filosofo Chilone, colto da collasso mentre abbracciava il figlio, primo nella gara di pugilato; per il famoso pugile Diagora di Rodi (esaltato da Pindaro nell’Olimpica VII), deceduto tra le braccia dei figli per la gioia di averli visti conquistare il successo nel pancrazio e nel pugilato.

Al contrario dei Giochi Olimpici, di cui le manifestazioni artistiche e culturali divennero col tempo un’appendice (non un agòn, ma una epìdeixis, ossia una dimostrazione), nei Giochi Pitici disputati a Delfi, città sacra ad Apollo, la situazione era opposta: essi traevano origine essenzialmente dagli agoni musicali, ai quali si aggiunsero col tempo le gare sportive. A Delfi e Corinto, secondo Plinio, si disputarono anche le prime competizioni di pittura. Vanno ricordate le gare di musica a Corinto, Messene, Nemea, Sicione e Sparta; quelle di poesia a Corinto; quelle di musica, danza, recitazione e persino di bellezza (euandrìa) alle Panatenee di Atene. Sappiamo inoltre che in epoca più tarda Afrodisia, in Asia Minore, ospitò gare di scultura.

Ha scritto lo studioso polacco Bronislaw Bilinski: «Nel periodo di apogeo atletico, tra i secoli VI e V a.C., parola, musica, pittura e scultura furono tutte al servizio delle gare atletiche, che proprio in quell’epoca assumevano il vero carattere di feste panelleniche. Negli stadi di Olimpia, Nemea, Delfi e Istmo, l’abilità fisica s’incontrava con l’ispirazione artistica e la vittoria dell’atleta evocava, allo stesso tempo, la musa del poeta o l’ispirazione dello scultore». I giochi sportivi costituivano quindi l’espressione più alta della civiltà ellenica, il cui ideale di vita s’incarnava nella perfezione fisica unita al valore morale (kalokagathìa). E Jacob Burckhardt, pensando all’uomo greco, non ha avuto dubbi a definirlo “uomo agonale”.

Dal IV secolo a.C. si attenuò il carattere sacrale che in passato aveva caratterizzato la vittoria ai Giochi e l’atleta perse quei mitici connotati di cui soprattutto la poesia di Pindaro lo aveva circonfuso. Ma Olimpia ebbe sempre un fascino particolare, non solo per i Greci ed anche in epoca di decadenza. Nell’altis, per esempio, Alessandro Magno (che nel 335 a.C. aveva raso al suolo Tebe, risparmiando tuttavia la casa di Pindaro) fece annunciare le sue vittorie in Asia. E Nerone spostò di due anni i Giochi per potervi partecipare e, naturalmente, vincere a mani basse le gare da lui stesso istituite, ossia quelle per aurighi con tiro da dieci cavalli, per tragedi e per citaredi. E’ inevitabile citare i magnifici versi di Pindaro: «Come l’acqua è il più prezioso di tutti gli elementi, come l’oro ha più valore di ogni altro bene, come il sole splende più brillante di ogni altra stella, così splende Olimpia, mettendo in ombra tutti gli altri Giochi».

Le Olimpiadi si disputarono dal 776 a.C. (23 anni prima della fondazione di Roma) al 393 d.C., quando vennero sospese dall’imperatore Teodosio dietro le pressioni del vescovo di Milano, Ambrogio. Per gli storici dello sport il Medioevo ha inizio proprio con la soppressione dei Giochi.

 

Nascono le Olimpiadi dell’Arte

Il connubio inscindibile tra l’arte e lo sport in Grecia produsse capolavori quali l’Auriga di Delfi (V sec. a.C.), il Discobolo di Mirone (V sec. a.C.), l’Apoxyomenos di Lisippo (IV sec. a.C.), i Pancraziasti alla Galleria degli Uffizi (III sec. a.C.), il Pugile in riposo al Museo Nazionale Romano (I sec. a.C.) e le stupende figurazioni della pittura vascolare a figure nere e rosse; in Etruria gli affreschi tombali di Chiusi e Tarquinia; nell’Italia romana alcuni rilievi e i mosaici delle Terme di Caracalla, di Tuscolo e di Piazza Armerina, in Sicilia. Poi la fiamma si fece sempre più fioca, fino a spegnersi con l’affermazione del cristianesimo, che vedeva nei giochi atletici pericolose sopravvivenze dei riti pagani. Ha commentato Bilinski: «Le ombre del misticismo religioso offuscarono come nubi lo splendore del sole delle Olimpiadi e le oscure catacombe subentrarono ai gioiosi ginnasi ellenici».

Vennero secoli bui per l’arte e per lo sport, fino a quando il Rinascimento riscoprì la bellezza del corpo umano e la valorizzò utilizzando soprattutto citazioni mitologiche (ricorrente, per esempio, quella della lotta tra Ercole e Anteo). Dal Pollaiolo a Michelangelo, e più tardi per il Canova, l’arte classica fu un fecondo serbatoio d’ispirazione.

Sul finire dell’Ottocento, mentre tornavano in auge vecchi sport e ne nascevano di nuovi, maturò un avvenimento di eccezionale portata: la resurrezione delle Olimpiadi dopo 15 secoli, dovuta a Pierre de Coubertin. I primi Giochi dell’epoca moderna si disputarono ad Atene nel 1896, ma il barone mirava ancora più in alto, perseguendo l’unione dello sport e dell’arte, ovvero «le mariage des muscles et de l’ésprit».

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