Giulio Marcon, il manifesto 1.3.2002

A mano armata

Come ricordato nei giorni scorsi, tra i vari provvedimenti che il governo Berlusconi sta cercando di portare all'incasso in questa prima fase della legislatura c'è quello dello stravolgimento della legge 185 del 1990 che - con un sistema di controlli e meccanismi di trasparenza - regola il commercio delle armi. A farne richiesta l'armiere Previti e la lobby militar-industriale, con il consenso di una parte del centro-sinistra. La questione è nota: con la motivazione della ratifica dell'accordo di Farnborough tra l'Italia e altri paesi dell'Unione Europea (disegno di legge n.1927), accordo volto a "facilitare la ristrutturazione e le attività dell'industria europea di difesa", si vuole cancellare il sistema di controlli (in realtà non sempre efficaci) della legge 185 che vieta l'esportazione delle armi ai paesi in guerra, sotto embargo Onu per le forniture di armi e a paesi retti da governi responsabili di accertate violazioni dei diritti umani.

Il capolavoro della legge di ratifica in discussione sta nell'aggettivo "grave". Infatti in base al nuovo testo non si potrà vendere armi a chi è responsabile di gravi (aggettivo che non c'era nella legge 185) violazioni dei diritti umani. Così invece, chi è responsabile di violazioni di diritti umani, e basta, potrà godere degli effetti benefici - armi a gogò - dell'accordo di Farnborough. Cioè, diritti umani "a geometria variabile": a seconda degli interessi dei produttori di armi.

Su 14 articoli della legge di ratifica oggi in discussione, ben 10 sono dedicati allo stravolgimento della legge 185. Quei divieti appena ricordati potranno essere facilmente evitati. Chiave dell'operazione la cosiddetta "licenza globale di progetto" per le co-produzioni dei paesi firmatari dell'accordo o della Nato, cioè anche la Turchia che di violazioni di diritti umani ne sa qualcosa. Nel caso in cui venga concessa "licenza globale di progetto" i controlli sui destinatari finali delle armi sono di fatto resi impossibili. L'accordo di Farnborough - nato sulla speranza di fare concorrenza al polo armiero statunitense - è oggettivamente un incentivo alla produzione e all'esportazione urbi et orbi di armi di ogni tipo. E senza tanti scrupoli. Mentre si vuole smontare il sistema di controlli della legge 185, non vi è alcun contrappeso sul piano comunitario: infatti il "codice di condotta" stabilito a livello europeo per evitare la vendita di armi a governi, bande, gruppi terroristici responsabili di guerre e violazioni dei diritti umani è solo una bella e cerimoniosa dichiarazione quanto inutile, inefficace e inservibile per controllare e vietare alcunché. Perciò insieme alla difesa della legge 185 va richiamato un impegno preciso ai parlamentari italiani: nessuna ratifica di alcun accordo di cooperazione per lo sviluppo di "un'industria europea di difesa" finchè non ci saranno veri ed efficaci strumenti di controllo a livello comunitario (regolamento?, direttiva?) che evitino quello che adesso pare assai certo: la vendita delle armi a chiunque. Magari anche a quelli che domani saranno i "nemici dell'occidente".

L'accordo di Farnborough - oggi oggetto di ratifica - è stato portato a termine nel luglio del 2000, in epoca di governi di centro-sinistra (Marco Minniti ne ha rivendicato il merito), e l'attacco alla legge 185 non è cosa nuova: era già cominciato nella scorsa legislatura con un'iniziativa bipartisan di modifica (fortunatamente non andata avanti) della legge. Inoltre è da ricordare - come ha fatto la campagna Sbilanciamoci - che bipartisan è anche stato in questi anni il sostegno all'aumento vertiginoso (+ 10%) delle spese militari in Italia, con un bel po' di regali e di commesse all'industria militare, da sempre largamente assistita e spesso salvata (dai soldi pubblici) dai suoi disastri finanziari. Uno degli ultimi regali l'inizio (con varo a Genova, un giorno prima dell'inizio del G8) della costruzione di una seconda portaerei (la Andrea Doria) per la modica cifra di 3.500 miliardi. Dovrebbe essere un insegnamento anche per la sinistra che - invece di ricercare in modo subalterno e incessante continue legittimazioni presso i vertici militari - dovrebbe riscoprire una parola che i suoi leader europei di un tempo - da Berlinguer a Palme fino a Brandt - pronunciavano assai spesso: disarmo. Dando l'esempio dall'Italia. Ce lo chiedono - inascoltati - i documenti dei vertici delle Nazioni Unite di questi anni.

Dopo l'11 settembre - ma anche dopo 111 conflitti, quasti tutti nazionali ed interni, che si sono succeduti dal 1989 ad oggi - l'industria bellica ha ripreso a "tirare" con la riscoperta di una sorta di "keynesismo militare (con il silenzio-assenso di una buona parte dei sindacati) per rilanciare - senza grande successo, in questo caso - un'economia mondiale in affanno da qualche tempo. La guerra, le guerre - principale fonte delle violazioni dei diritti umani - cadono naturalmente a fagiolo per armieri e militari. Anche in Italia, con una miscela nazionale aggiuntiva fatta di consorterie corporative, inefficienze burocratiche, autoreferenzialità pachidermica. E' il caso delle nostre Forze Armate con migliaia di milardi spesi male e sprecati (come ha denunciato a suo tempo la Corte dei Conti) e offerti a man bassa in futuro anche alle forze armate di professionisti, un progetto che non promette nulla di buono. La stima dei (loro) esperti è preoccupante: 9.000 miliardi l'anno per "l'ammodernamento", cioè per nuove e più sofisticate armi. Per le armi e per il "militare" l'Italia non spende mai troppo poco, anche con la scusa della "guerra umanitaria". Esemplare il caso dei Balcani citato da un dossier dell'Ics: dal 1999 ben 2.500 miliardi stanziati per gli interventi militari e solo 700 per gli interventi civili. E gran parte di questi ultimi sono rimasti solo sulla carta.

L'"economia a mano armata" - che anche il nuovo scenario internazionale promette di foraggiare - trova dunque in Italia il suo cavallo di battaglia nei tentativi di stravolgimento della legge 185. Ecco perché già in molti si stanno muovendo. Pax Christi e l'Associazione Obiettori Nonviolenti hanno opportunamente promosso nei giorni scorsi un appello alla mobilitazione, e insieme a loro molte organizzazioni stanno lavorando per mettere a punto una campagna unitaria per difendere la legge 185 (ottenuta allora grazie ad una straordinaria campagna di organizzazioni come Pax Christi, Mlal, Missione oggi, Acli, ecc.) ed impedire che i "mercanti di morte" tornino ad imporre i loro interessi. Ma si tratta di fare presto e di superare incertezze e lentezze. C'è una mobilitazione popolare da promuovere: dalla contestazione della prossima expo dei produttori di armi a Brescia (Exa 2002) alla sensibilizzazione diffusa sul territorio con manifestazioni, raccolte di firme, pressioni sui parlamentari nei loro collegi. E ancora, a Padova alle manifestazioni di Civitas, agli inizi di maggio, per un grande incontro sull'industria militare ed il commercio delle armi insieme a Sbilanciamoci, Unimondo, Altreconomia, Oscar e a tanti altri. Bisogna muoversi, se non vogliamo ritrovarci in poco tempo con gli arsenali pieni zeppi. I granai - lotta alla povertà e cooperazione allo sviluppo - quelli da tempo sono vuoti.

Giulio Marcon è presidente dell'Ics

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