Walden Bello, il manifesto 1.2.2002

Le crisi gemelle

Si dice che in politica e in guerra non si possa contare molto a lungo sulla fortuna. Dopo averle permesso di assaporare brevemente il successo della sua campagna in Afghanistan, la storia, astuta e imperscrutabile come al solito, ha improvvisamente preso di mira l'amministrazione Bush con due colpi terribili: l'implosione della Enron e il collasso dell'Argentina. Questi due enormi disastri minacciano di spingere nuovamente l'élite globale verso la crisi di legittimità che prima dell'11 settembre stava facendo traballare la sua egemonia a livello globale.

La vicenda della Enron ci ricorda che la retorica del libero mercato è una truffa delle grandi imprese. Il neo-liberismo ama ammantarsi del linguaggio dell'efficienza e dell'etica del massimo bene per il massimo numero di persone, ma in realtà il suo fine è promuovere il potere delle multinazionali. La Enron ha vantato abbondantemente i cosiddetti meriti del mercato per spiegare il suo successo ma, di fatto, la strada che ha seguito per diventare la settima più grande corporation degli Stati uniti non è consistita nel seguire la disciplina imposta dal mercato, ma nell'aver seguito una strategia consistente nel distribuire moneta sonante, e in grandi quantità.

La Enron ha letteralmente comprato la propria ascesa, gettando via centinaia di milioni di dollari in meno di un decennio per creare ciò che un uomo d'affari ha descritto al New York Times come il "buco nero" dei mercati energetici sottoposti alla deregulation, in cui le sue cialtronate finanziarie potevano prosperare senza controllo. Per fare sì che il governo si girasse dall'altra parte lasciando che il mercato seguisse il suo corso, la Enron si dimostrava generosa con chi era disposto a servirla, e poche persone hanno guadagnato più dollari dalla Enron di George W. Bush, il quale per le sue campagne politiche sia in Texas che a livello nazionale ha ricevuto qualcosa come 623.000 dollari dall'amico Kenneth Lay, amministratore delegato della Enron.

Il fatto che Bush e un certo numero di suoi importanti luogotenenti - il vice presidente Dick Cheney, il ministro della giustizia John Ashcroft, il rappresentante Usa per il commercio Robert Zoellick, il consigliere economico presidenziale Larry Linse, per citare solo i più potenti - fossero così gravemente invischiati nella ragnatela della Enron ha scosso l'immagine post-11 settembre di George W. Bush quale presidente di tutti gli americani, riproponendo la realtà che lui è l'amministratore delegato dell'azienda America. Lo scandalo Enron riporta gli americani alla amara politica sociale degli anni '90 quando Bush disse nel suo discorso inaugurale: "sembra che condividiamo un continente ma non un paese".
Questo scandalo fa ritornare il contesto ideologico della campagna elettorale del 2000, quando un compagno di partito di Bush, il repubblicano John McCain, fece un tentativo quasi riuscito di diventare il portabandiera presidenziale concentrandosi su una sola questione: il fatto che i massicci finanziamenti elettorali da parte delle corporation hanno trasformato la democrazia Usa in una plutocrazia che sta gravemente minando la sua legittimità.

La globalizzazione imposta dalle grandi imprese, come abbiamo sempre sostenuto, è un processo caratterizzato da una massiccia corruzione ed è profondamente sovversivo nei confronti della democrazia. La Shell in Nigeria ne è stata un buon esempio. Una quantità di multinazionali e la Banca mondiale erano implicate nella politica economica di Suharto in Indonesia. Adesso la Enron solleva il velo su ciò che Wall Street usava chiamare la "nuova economia", che distribuiva a pioggia ricompense su operatori loschi come la Enron schiacciando il resto del mondo con i costi, non ultimo dei quali è quello che si sta delineando come il peggiore crollo globale dagli anni '30.

Questo è il motivo per cui abbiamo sempre detto ai rappresentanti della Banca mondiale, che vogliono farci la lezione su come si governa, che dovrebbero prima dire a Washington di mettere ordine a casa sua. La corruzione delle grandi imprese è centrale per il sistema politico Usa, e il fatto che sia legale e assuma la forma di "finanziamenti per campagne elettorali" versati ai politici da "comitati per l'azione politica" non la rende affatto meno immorale del "capitalismo amico" del tipo asiatico. In verità, la corruzione del tipo di Washington è molto più dannosa perché le decisioni importanti comprate con massicci esborsi di moneta hanno conseguenze a livello non solo nazionale ma anche globale. I politici corrotti del Terzo mondo dovrebbero essere impiccati, sventrati, squartati, ma diciamolo, le somme di denaro e la quota di potere che gestiscono sono noccioline in confronto alla scala di influenza di Washington.

 

L'Argentina e la liberalizzazione

Se la Enron illustra la follia della deregulation abbinata alla corruzione, l'Argentina esemplifica quella di un'altra faccia del progetto capitalistico globalista delle corporation: la liberalizzazione del commercio e dei flussi di capitale. Indebitata per 140 miliardi di dollari con istituzioni internazionali, con l'industria nel caos, e con circa 2000 persone che si stima scendano ogni giorno sotto la soglia della povertà, l'Argentina versa in uno stato davvero pietoso.

L'Argentina ha abbattuto le sue barriere commerciali più frettolosamente di quasi tutti gli altri paesi dell'America Latina. Essa ha liberalizzato la sua bilancia dei conti nel modo più radicale. E nel più toccante degli atti di fede neoliberista, il governo argentino ha volontariamente rinunciato a qualunque significativo controllo sull'impatto interno di un'economia globale instabile, ancorando il peso al dollaro. La dollarizzazione, promettevano certi tecnocrati, era proprio dietro l'angolo e, quando si fosse compiuta, le ultime camere di compensazione tra l'economia locale e il mercato globale sarebbero scomparse e il paese sarebbe entrato nel Nirvana della prosperità permanente.

 

La dottrina Summer

Tutte queste misure sono state adottate su insistenza o con l'approvazione del ministero del tesoro Usa e del suo surrogato, il Fondo monetario internazionale. Di fatto, dopo la crisi finanziaria asiatica, quando la liberalizzazione della bilancia dei conti era vista sempre di più dalla gran parte degli osservatori come perniciosa, Larry Summers, allora ministro del tesoro, celebrò la vendita da parte dell'Argentina del suo settore bancario come un modello per il mondo in via di sviluppo: "Oggi il 50% del settore bancario, il 70% delle banche private, in Argentina sono sotto controllo straniero, a fronte del 30% nel 1994. Il risultato è un mercato più efficiente, e investitori stranieri con una maggiore propensione a radicarsi".

I tecnocrati argentini sembravano determinati a surclassare i loro rivali cileni nell'obbedienza al mercato - cosa piuttosto interessante, proprio mentre i cileni stavano cominciando a mettere in questione la sua efficacia nella instabile area dei flussi di capitale.

Mentre a metà degli anni '90 il dollaro saliva di valore, altrettanto faceva il peso, rendendo i prodotti argentini non competitivi sia globalmente che localmente. Alzare barriere tariffarie contro le importazioni che affluivano in abbondanza era considerato un tabù. Invece, ricorrendo massicciamente al prestito per finanziare il gap commerciale che si andava allargando, l'Argentina è entrata in una spirale di debiti e più cresceva il prestito, più salivano gli interessi mentre tra i creditori cresceva l'allarme per le conseguenze di un libero mercato a briglia sciolta di cui inizialmente avevano beneficiato.

Contrariamente a quanto sosteneva la dottrina Summer, il controllo estero sul sistema bancario è stato disastroso. Di fatto, il controllo estero ha semplicemente facilitato la fuoriuscita di molti capitali necessari da parte delle banche, che diventavano sempre più riluttanti a prestare soldi sia al governo che alle imprese locali. Prive di credito, le imprese piccole e medie, e non poche grandi, hanno chiuso, lasciando migliaia di persone senza lavoro.

 

Ancora una ricetta sbagliata

Con il cappello in mano, l'Argentina si è rivolta al suo mentore, il Fondo monetario internazionale, chiedendo un finanziamento multi-miliardario per fare fronte ai pagamenti dovuti per il debito estero di 140 miliardi di dollari. Il Fondo ha rifiutato, a meno che il governo non accettasse di apportare tagli drastici alla spesa pubblica e imporre una politica monetaria rigida. Come ha osservato Joe Stiglitz, questo è esattamente lo stesso errore che il Fondo monetario internazionale ha fatto in Asia dopo la crisi finanziaria: invece di impostare una politica monetaria espansiva, il Fondo impose un programma di lotta all'inflazione che accelerava la contrazione dell'economia. Sembra che il Fondo sia istituzionalmente - e intenzionalmente - incapace di imparare dai suoi errori, e l'Argentina è una ragione di più per cui dovrebbe essere abolito.

Reginald Dale, l'editorialista teorico del libero mercato dell'International Herald Tribune si preoccupa che la debacle argentina possa avere conseguenze negative oltre l'Argentina, di cui le principali sono l'erosione della legittimità del progetto di globalizzazione e una rinascita del populismo, che renderebbero impossibile per l'amministrazione Bush portare a una conclusione soddisfacente il progetto di Washington "Free Trade Area for the Americas" (Ftaa).

Tocca al movimento contro la globalizzazione delle multinazionali dimostrare le proprie ragioni a Dale e alla mafia di Wall Street-Washington-Houston, e non solo in America Latina. Le debacle della Enron e dell'Argentina sono così chiare nelle loro cause, e così facilmente spiegabili alla gente di tutto il mondo, da offrire al movimento un'occasione perfetta per riconquistare a livello globale lo slancio che aveva perso l'11 settembre.

 

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Traduzione di Marina Impallomeni

 

 Walden Bello dirige l'istituto "Focus on the Global South", con sede a Bangkok, e insegna sociologia e amministrazione pubblica

 all'Università delle Filippine.

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