Luigi Cavallaro, il manifesto 25.5.2002

Esperimenti siciliani

L'enfasi mediatica con cui è stata data notizia della proclamazione, da parte del governo Berlusconi, dello «stato di emergenza idrica» in Sicilia e dello stanziamento di 45 milioni di euro per i danni subiti dall'agricoltura a causa della carenza d'acqua rischia di far passare nel dimenticatoio un'altra notizia di appena due settimane fa, e cioè che il governo siciliano, per mancanza di progetti, rischia di perdere il 42 per cento dei finanziamenti europei per la realizzazione di opere pubbliche concernenti, tra l'altro, proprio il settore idrico. Ora, che una classe politica come quella siciliana, adusa a lamentarsi quando le vengono sottratti fondi pubblici, non riesca, essendone viceversa dotata, a spenderli, è cosa che dovrebbe suscitare un bel po' di domande. E' solo per incompetenza se non si realizzano progetti vitali per la promozione della comunità siciliana? E' solo per insipienza se, mentre dall'Economist come dall'Università di Palermo si denunciano spaventose carenze nel settore delle infrastrutture civili, i siciliani corrono il rischio di perdere anche quel po' di denaro pubblico aggiuntivo che, solo, è rimasto a testimoniare della riottosa persistenza di una «questione meridionale»? Una risposta più articolata viene dalla ricerca sociologica, che da tempo ha individuato un nesso molto stretto fra la destinazione prevalente della spesa pubblica verso trasferimenti alle famiglie, la sua scarsa «produttività sociale» (cioè in termini di dotazioni infrastrutturali e di servizi) e la sua elevatissima «produttività politica» (cioè in termini di consenso elettorale). Secondo molti studiosi, infatti, la classe politica meridionale preferisce spendere il denaro pubblico per beni «divisibili» (come pensioni, assegni d'invalidità, posti di lavoro «socialmente utili» e - perché no - risarcimenti di danni), invece che per beni «collettivi» (come scuole, ospedali, strade e opere di canalizzazione), proprio perché questi ultimi, essendo per loro natura offerti in regime di «non-rivalità» (nel senso che la fruizione del bene da parte di un utente non riduce la quantità che di esso resta disponibile per gli altri), impediscono la formazione di canali clientelari fra decisori pubblici e destinatari del servizio, che possano garantire un sicuro ritorno elettorale. La riprova sta nel fatto che, anche quando si è speso per la realizzazione di beni collettivi, lo si è fatto in modo da «trasformarli» in beni divisibili, sminuzzandone la realizzazione in decine di appalti e guardandosi bene dall'assicurarne l'effettivo completamento. Si spiegherebbero così non solo la drammatica e grottesca «crisi dell'acqua», ma anche, per fare solo altro esempio, i trentacinque anni necessari per la costruzione dell'autostrada Palermo-Messina (peraltro ancora incompiuta): tutto ciò che non si presta facilmente a essere trasformato in risorse divisibili viene, infatti, trascurato o genera non-decisioni. Sarebbe errato, d'altra parte, ritenere che l'origine di questo stato di cose (che, vale la pena di sottolinearlo, ha consentito alla borghesia nazionale di imbrigliare al proprio servizio l'intervento dello Stato nell'economia meridionale, assoggettandolo - specie in termini di composizione, qualità e finanziamento della spesa - ai vincoli della riproduzione capitalistica) vada ricercata in una sorta di «preferenza» atavica dei siciliani verso forme clientelari della domanda politica, quasi che essi siano (come pure è toccato leggere su questo giornale) ontologicamente refrattari allo sviluppo di identificazioni collettive sufficientemente forti da imprimere un diverso orientamento alla produzione di beni pubblici. C'è da dire, piuttosto, che anche per le dinamiche sociali (di classe, si sarebbe detto una volta) il Mezzogiorno è stato «laboratorio» o, se si preferisce, fucina di eventi che poi si sono replicati a livello nazionale. Pochi ormai lo ricordano, ma lo scontro sociale tra proletariato e borghesia assunse toni asperrimi nelle campagne siciliane ben prima dell'«autunno caldo» del 1968-69 e, correlativamente, ben prima della strage di Piazza Fontana i siciliani sperimentarono la «strategia della tensione» messa in atto dai settori più retrivi della classe dominante: più esattamente, dal primo maggio di cinquantacinque anni fa, con l'eccidio di Portella della Ginestra, cui seguirono decine e decine di omicidi ai danni dei dirigenti sindacali e dei partiti di sinistra che organizzavano l'occupazione delle terre. Fu quella tragica stagione che chiuse al proletariato siciliano la speranza in una mobilità collettiva, legata cioè al suo essere come classe. L'imponente movimento migratorio che ne seguì cancellò in chi restava financo la memoria delle lotte passate e, quel che è peggio, rimosse le stesse ideologie, che di quelle lotte erano state anima. L'ascesa sociale, di conseguenza, cessò di esser concepita come possibilità comune e diventò destino da ricercarsi su base individuale, mentre l'«alternativa» (cioè il Pci) cominciò fin da allora a pensarsi solo come «compromesso storico» con i cattolici (l'operazione Milazzo, come si ricorderà, è del 1958 e Achille Occhetto, negli anni Settanta, era segretario del Pci siciliano). Del resto, Marx aveva spiegato già nella Questione ebraica che, una volta aggiogato lo Stato al servizio del capitalismo, la democrazia politica avrebbe potuto assumere solo la forma evanescente di una «democrazia cristiana».

E «cristiana», in questo specifico senso marxiano, è stata appunto la democrazia politica in Sicilia: cristiana, perché ha avuto come protagonista l'individuo «nella sua manifestazione selvaggia e insociale», incapace di distinguere l'interesse collettivo dal proprio interesse personale immediato; di concepire un «interesse generale» superiore agli interessi individuali e diverso da questi; di rappresentarsi l'autorità in modo diverso da una forza cieca e arbitraria, che atterra l'uno nello stesso tempo in cui suscita l'altro; incapace, più in generale, di considerarsi come appartenente a un unico corpo sociale, sottoposto a una legge comune ed eguale per tutti, invece che come membro di una «famiglia» perennemente in lotta con altre. Il che, del resto, ben si comprende: se agire collettivamente è impossibile (perché ti sparano), non resta che raggrupparsi intorno a uno o ad alcuni individui più potenti e a loro rivolgersi per far valere i propri diritti o, che è lo stesso, per commettere abusi. L'invocazione del «padrino», sia esso un mafioso o un onorevole, è insomma solo conseguenza.

Di quanto si è venuto dicendo per la Sicilia ognuno potrà trovare l'equivalente nella storia del «continente» seguita all'autunno caldo: l'inasprirsi delle lotte sociali; la risposta violenta della borghesia reazionaria; la sconfitta operaia; il dissolvimento delle ideologie; la trasformazione dei partiti di massa in macchine elettorali; la corruzione diffusa nella gestione del potere; l'individualizzazione dell'agire sociale e politico; il trionfo del personalismo, del leaderismo, fino alla materializzazione - giusto un anno fa - dell'Uebermensch. Il fatto che Orlando, candidato presidente del centro-sinistra alle ultime regionali, abbia scelto di presentarsi come l'equivalente siciliano di Silvio Berlusconi (parole sue), abbia invocato il «voto disgiunto» (votate per me come presidente, anche se votate per una lista di centro-destra) e abbia annunciato, all'indomani della sconfitta, una «nuova» stagione politica, libera dal «vincolo delle appartenenze» (al punto da disinteressarsi completamente della sua successione a Palazzo delle Aquile), non è casuale: è la giusta rivendicazione di una priorità storica. E' nata qui in Sicilia la politica come aggregazione intorno al leader carismatico, qui la fiducia nella «persona» a prescindere dal suo schieramento, qui la concezione gattopardesca del cambiamento. Tutti gli altri, non se ne dolgano, sono solo volgari imitatori.

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