Esperienza
di montagna ed esperienza di senso
(Bergerlebnis und Sinnerfahrung)
Viktor
E. Frankl
Il
testo di Bergerlebnis und Sinnerfahrung (tra i più recenti della
produzione frankliana, sebbene non dei più rilevanti) venne pubblicato
dalla Tyrolia-Verlag di Innsbruck in un volumetto del 1992, con
prefazione, documentazione fotografica e appendice biografica sull'Autore
a cura di Christian Handl (che con Frankl ha sfidato le amate vette
del Lieblingsberg e del Rax). L'intonazione è di carattere immediatamente
autobiografico. Il tema è quello del significato di una passione
per l'alpinismo che in Frankl si sostanziava di profonde motivazioni
spirituali e di un'irriducibile volontà di autosuperamento e di
ulteriorità. Un breve saggio per ricordare, se ce ne fosse bisogno,
l'intima consonanza e la corrispondenza reciproca che vi fu tra
l'uomo Viktor Frankl e lo studioso, tra lo sportivo e il pensatore,
tra lo scalatore e l'intellettuale. La logoterapia probabilmente
non potrebbe "riumanizzare" le scienze dell'uomo se non avesse avuto
radici "umane", appunto, tanto genuine. Il saggio compare per la
prima volta in lingua italiana, nella traduzione curata da Daniele
Bruzzone, con la supervisione di Eugenio Fizzotti. |
1.
Rischiare l'atrofia
Che cosa può avermi spinto ad arrampicarmi?
Detto sinceramente, l'ansia. Ma spesso domando ai miei pazienti, quando
mi si rivolgono con le loro nevrosi d'ansia: È forse indispensabile
che piaccia tutto di sé? Non si può essere più forti dell'ansia? Non
ha già Nestroy, nella sua pièce teatrale Giuditta e Oloferne,
posto la domanda: «Sono ben curioso di sapere chi è più forte:
io oppure io?». E così anch'io mi sono chiesto, quando ho avuto
paura di arrampicarmi: «Chi è più forte: io o la sporca carogna
che è in me? Posso senz'altro sfidarla».
Nell'uomo c'è qualcosa che ho definito
come la «forza di resistenza dello spirito» contro le ansie
e le debolezze dell'animo. Lo sport agonistico conosce concorrenti e
rivali, ma l'alpinista concorre e rivaleggia con uno solo, e cioè con
se stesso. Egli richiede qualcosa, esige qualcosa da sé, una prestazione
- se possibile - ma anche una rinuncia - se necessario. E con ciò ci
soffermiamo proprio laddove l'alpinismo si presenta allo spirito del
tempo, o meglio, laddove esso chiama in causa lo spirito del tempo.
Chi mai, infatti, oggi chiede ancora qualcosa a se stesso, addirittura
una prestazione? Non si sentono forse oggi tutti oppressi dalle richieste?
Non si lamentano tutti dello stress? Eppure dimenticano che Hans Selye,
pur sempre il fondatore della teoria dello stress, esplicitamente distingue
fra «distress» ed «eustress»,
cioè fra uno stress che fa star male e uno stress che mantiene sani,
e non esita a qualificare l'ultimo come «the salt of life»,
il sale della vita, e l'altro come «the spice of life»,
il pepe della vita. Tutti sanno che un organo non sollecitato, con l'andar
del tempo si atrofizza, e la medicina odierna sa molto bene che non
solo il sovraccarico risulta patogeno e causa una malattia, ma può farlo
altrettanto bene il dis-carico.
Oggi l'educazione non può far a meno di
mettere in guardia contro il rischio di porre a confronto il giovane
con esigenze, di pretendere qualcosa da lui, di sottoporlo a tensione;
così facendo, una tale pedagogia mostra soltanto di fare affidamento
su una teoria motivazionale da tempo superata, secondo la quale l'uomo
non necessita nel profondo e alla fine di null'altro che di «tension
reduction», cioè di evitamento e di riduzione della tensione
attraverso il soddisfacimento dei bisogni.
2.
Tollerare la frustrazione
L'uomo invece ha bisogno di tensione,
e soprattutto ha bisogno e gli è benefica quella tensione che si stabilisce
nel campo di forza polare fra sé e uno scopo che si prefigge, un compito
che si sceglie, oppure - per dirla con Karl Jaspers - una «cosa
che egli fa sua». E credete a me, un neurologo ormai vecchio:
se c'è qualcosa che ha la capacità di aiutare l'uomo a superare le difficoltà,
questa è la coscienza di un significato che attende ancora di essere
realizzato. Per combinazione conosco molto bene la letteratura internazionale
concernente la psicologia dei campi di concentramento, e posso dire
che i risultati della ricerca scientifica stabiliscono concordemente
che in fin dei conti la possibilità di sopravvivenza dipendeva dal fatto
che la persona era orientata verso il futuro, verso un compito che pensava
di realizzare nel futuro, nella libertà.
E com'è la situazione oggi? Ovunque gli
uomini, e specialmente i giovani, soffrono di un sentimento di mancanza
di significato. Essi dispongono dei mezzi per vivere, ma sono
privi di un fine per il quale vivere, per il quale continuare
a vivere, fosse anche solo per questo. John Glenn, l'astronauta americano
della prima ora, ha detto una volta: «Ideals are the very stuff
of survival». Senza l'orientamento agli ideali l'uomo e l'umanità
non possono sopravvivere; ma ciò produce appunto tensione, si deve lottare,
si deve aspettare; in una parola: c'è bisogno della cosiddetta tolleranza
alla frustrazione, e la si deve aver allenata. Purtroppo l'educazione
odierna, preoccupata soprattutto di minimizzare la tensione, educa addirittura
ad una intolleranza alla frustrazione, ad una sorta di immunodeficienza
psichica, se così posso esprimermi. Ne consegue che i giovani sono incapaci
di «ingoiare» le frustrazioni, incapaci di differire la
realizzazione dei loro desideri, incapaci di fare a meno di qualcosa
che non hanno ancora, o di sacrificare qualcosa che già possiedono.
Nella loro intolleranza alla frustrazione i giovani non sono più capaci
di evitare il dolore evitabile e di sopportare il dolore inevitabile.
Tanto meno provano compassione per qualcun altro, poiché hanno compassione
solo di se stessi.
3.
Lo sport come ascesi
Ma l'uomo sa cavarsela - lo ha sempre
saputo fare. Fu il poeta Hölderlin ad esprimere un giorno questo dato
di fatto nelle belle parole: «Dov'è il pericolo, là si sviluppa
anche ciò che salva». E in quale modo l'uomo si dà da fare per
esorcizzare il pericolo di un vizio tendenziale e di un rammollimento,
provocati da una società industriale tecnologicamente perfezionata e
da una società dei consumi basata sulla totale soddisfazione dei bisogni?
Se diamo un'occhiata alla realtà quotidiana,
vediamo che l'uomo in effetti non deve più camminare: si siede semplicemente
nella sua auto e va. Tanto meno, quindi, egli deve correre. E cosa succede?
Inventa lo jogging. Oppure: l'uomo non ha bisogno di salire,
neppure di salire le scale. E allora cosa succede? Si mette in testa
di salire sulle montagne, di arrampicarsi sulle pareti rocciose. In
una parola, egli - la «scimmia nuda», come lo apostrofa
il titolo di un bestseller - imita i suoi antenati, che dovevano
arrampicarsi sugli alberi per procurarsi il cibo o per darsi alla fuga
dinanzi ai nemici - tutte cose che per le scimmie sono necessarie, ma
da un bel pezzo non lo sono più per lui.
Eppure è proprio così: l'uomo al quale
biologicamente è richiesto troppo poco, organizza spontaneamente, artificialmente
e intenzionalmente, delle necessità di genere più elevato, esigendo
da sé qualcosa di propria iniziativa, privandosi di qualcosa, rinunciando
a qualcosa. In mezzo al benessere egli si preoccupa di situazioni di
bisogno; nel bel mezzo di una società dell'abbondanza egli inizia, per
così dire, a costruire isole di ascesi - e proprio in ciò vedo la funzione,
per non dire la missione, dello sport in generale e dell'alpinismo in
particolare: essi sono la forma moderna, secolare, dell'ascesi.
Ma torniamo all'arrampicarsi: in contrapposizione
all'uomo che, biologicamente considerato, vive risparmiandosi, l'alpinista
non sceglie nella montagna «la via della minima resistenza»,
ma in una scalata preferisce cercare il percorso più difficile, di cui
certo è già all'altezza. Ciò comporta naturalmente che egli non solo,
come ho detto prima, imita le scimmie, ma le supera anche; infatti non
posso immaginarmi una scimmia che sia riuscita a superare il terzo grado
di difficoltà - io stesso l'ho fatto in via solo eccezionale; ricordiamoci
però che il sesto grado (perlomeno alcuni decenni fa) è stato definito
«duro al limiti delle possibilità umane»!
In altre parole, per l'appassionato di
alpinismo non si tratta solo di necessità create artificialmente, ma
anche di possibilità, in quanto egli vuole riuscire proprio laddove
si trova il confine dell'umanamente possibile e lo vuole esplorare.
E guarda caso, in ciò gli accade come all'orizzonte: a mano a mano che
sta per essere raggiunto, l'orizzonte retrocede davanti a lui; nella
misura in cui gli si avvicina, lo allontana anche da sé; lo spinge sempre
più in là. Lo stesso si verifica nella storia dell'arrampicarsi «libero»
ed «estremo» che fa slittare il confine dell'umanamente
possibile. E mentre l'uomo si spinge sempre più oltre questo confine,
cresce sempre più oltre se stesso...
4.
I pieni granai del passato
Se ora noi, i «vecchi» che
hanno superato la soglia dei novant'anni, guardiamo indietro alle esperienze
di cui siamo debitori alle montagne, alle pareti e alle creste rocciose,
allora il nostro cuore potrà senz'altro essere malinconico, ma basta
ricordare un confortante detto poetico, che dice: «Ciò che hai
vissuto, nessuna potenza al mondo te lo può togliere». Io direi
che ciò che abbiamo vissuto l'abbiamo messo in salvo nel passato, e
sappiamo bene che essere-passato è anche un modo di essere, forse addirittura
il più sicuro, poiché niente e nessuno lo può revocare, né può farlo
tornare indietro, né lo può portare fuori dal mondo - nel suo essere-passato
esso è protetto, è custodito e preservato dalla transitorietà.
Ammettiamolo: di solito vediamo soltanto,
se così posso esprimermi, i campi di stoppie della transitorietà, e
ci lasciamo sfuggire troppo spesso i pieni granai del passato, in cui
già da lungo tempo abbiamo introdotto i raccolti della nostra vita:
le opere che abbiamo creato, le azioni che abbiamo compiuto, gli amori
che abbiamo sperimentato, i dolori che con dignità e coraggio abbiamo
sofferto.
Una
volta a St. Ulrich nel Grödnertal ho comprato una tavoletta da appendere
con un testo che esprime in parole molto belle tutto ciò che ho detto:
"I
giorni luminosi
non piangono
perché sono passati,
ma sorridono
perché sono stati".
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