L'analisi
esistenziale e i problemi del tempo
(Die Existenzanalyse una die Probleme der Zeit)
Viktor
E. Frankl
Questo
testo, tra i primissimi scritti da Frankl dopo la tragica esperienza
della deportazione nei lager, riproduce il contenuto di una conferenza
tenuta il 28 dicembre 1946 all'incontro delle scuole franco-austriache
di St. Christoph am Arlberg: pare che Frankl fosse il primo viennese,
nell'immediato dopoguerra, ad ottenere il permesso di valicare il
confine per motivi scientifici. Die Existenzanalyse und die Probleme
der Zeit fu in seguito ripreso per essere il primo dei tre discorsi
pubblicati sotto il titolo Logos und Existenz (Amandus-Verlag, Wien,
1951, pp. 1-46) ed è poi confluito nel volume Der Wille zum Sinn
(Hans Huber, Bern-Stuttgart-Wien, 1972-1991d). Si tratta di un testo
importante poiché contiene già compiutamente enucleati alcuni dei
temi fondamentali che troveranno successivamente sviluppo nell'opera
di Frankl, nonché altri argomenti sui quali l'Autore difficilmente
si pronuncerà in seguito con altrettanta chiarezza: l'accoglienza
dell'esistenzialismo, la valutazione dell'esperienza cruciale nei
Lager, il problema dell'opzione politica e del socialismo "personale",
la dottrina della libertà individuale e la posizione nei confronti
del materialismo storico, la critica alla teoria della colpa collettiva,
il ruolo dell'Assoluto nell'analisi esistenziale ed il significato
dell'esperienza religiosa, ecc.. Il testo, ancora inedito in italiano,
compare qui nella traduzione di Daniele Bruzzone, con la supervisione
di Eugenio Fizzotti. |
1.
La conoscenza dell'immediato
L'inizio dell'età moderna ha portato con
sé la nascita delle scienze naturali e, come loro applicazione
pratica, la tecnologia. Nel diciannovesimo secolo poi si è giunti a
quella loro maturazione, che noi abbiamo ricevuto in eredità:
le scienze naturali hanno portato al naturalismo e la tecnologia ad
un atteggiamento utilitaristico. Entrambe sono entrate nella carne e
nel sangue dell'uomo, sono state inculcate ed instillate, sono diventate
un concetto scontato, un'ovvietà, che ha appesantito di molto
la comprensione che l'uomo ha di se stesso e la sua concezione
del mondo. Di conseguenza l'uomo si considera come un essere naturale
in conformità all'atteggiamento naturalistico, e il mondo per lui non
è altro che un semplice mezzo per lo scopo, secondo l'atteggiamento
tecnologico-utilitaristico. In tal modo egli assoggetta il mondo attraverso
la tecnologia ma nello stesso tempo muta egli stesso, trasformandosi
in un oggetto! Così si giunge al paradosso secondo il quale l'uomo,
"naturalizzandosi", si s-natura; e, concependosi come puro essere
naturale, perde di vista la sua vera natura, la sua propria
essenza, e attraverso la degradazione del mondo a puro mezzo
tecnico alla fine dimentica il fine ultimo possibile e necessario. Non
c'è da stupirsi, allora, se nel nostro secolo, si giunge ad una grande
svolta: ad una coscienza dell'immediato! E ciò in duplice senso:
come autocoscienza del proprio essere (la reazione alla
perduta coscienza della propria essenza) e come ritorno al vero significato
(la reazione alla perduta coscienza del fine ultimo di ogni tecnologia).
Cosa racchiude tutto ciò se non le domande esistenziali? Ciò che infatti
è ora in discussione è l'essere ed il significato.
1.1.
Il problema dell'uomo moderno
La questione esistenziale nella sua forma
"moderna", il "problema dell'uomo moderno", venne sollevata per
la prima volta da Kierkegaard. E la richiesta da lui avanzata nel diciannovesimo
secolo trovò una soluzione nel secolo successivo attraverso la filosofia
vitale di Bergson e la fenomenologia di Husserl e del suo discepolo
Scheler che, svolgendo un lavoro preliminare, hanno facilitato la filosofia
esistenziale contemporanea che, dopo la prima guerra mondiale, ha trovato
piena realizzazione in Heidegger, Jaspers e Jean-Paul Sartre. Alla seconda
guerra mondiale è toccato il compito di incentivarne la diffusione,
aggiornarne la formulazione e radicalizzarla al massimo.
Ma se ci chiediamo il perché di tutto
questo, allora dobbiamo tener presente che la seconda guerra mondiale
ha significato fin dall'inizio più che una pura esperienza del fronte:
per le "retrovie" (che a quel punto non esistevano più) portò l'esperienza
dei rifugi antiaereo e quella dei lager. Si era ormai da tempo ben lungi
dall'essere fedeli alla pretesa di Kant: se ogni cosa ha un suo valore,
soltanto l'uomo ha la sua dignità. Ma era nella sostanza stessa del
sistema economico capitalistico che l'operaio dovesse essere degradato
fino al punto che di lui non restasse che poco più di un ingranaggio
meccanico nel processo produttivo. Questo però non fu ancora il trionfo
di quell'utilitarismo tecnologico di cui si parlava prima, poiché in
quel momento era solo il lavoro dell'uomo ad essere diventato un semplice
mezzo. La guerra fece della vita dell'uomo un puro e semplice mezzo,
e lo degradò ancora di più, rendendolo carne da cannone. Alla fine il
lager raggiunse l'apice di questo progressivo processo di degradazione,
giacché in esso non furono solo la forza lavoro o la vita stessa a diventare
un mezzo per uno scopo: lo divenne anche la morte. Nei lager, infatti,
l'uomo fu trasformato in una cavia.
In tale processo di degradazione si palesa
un progresso di carattere tecnologico. Ed è discutibile se sia possibile
un altro progresso e se il progresso non sia solamente tecnologico e
se possa imporsi soltanto come tale, dal momento che viviamo in un'epoca
tecnologica.
1.2.
La riscoperta dell'umano
Cosa significa porre la questione dell'esistenza?
Chi la pone si mette egli stesso in discussione, poiché la questione
dell'esistenza è il mettersi in discussione dell'uomo. E fino a che
punto possiamo sostenere che essa sia stata portata avanti negli ultimi
tempi più che in passato? In questo nostro tempo è stato messo in discussione
proprio tutto: denaro, potere, fama, fortuna. Tutto ciò è venuto meno
all'uomo. Ma nello stesso tempo si è dissolto l'uomo stesso, bruciato
dal dolore e grondante di sofferenza; dissolto nel suo essere. Tutto
quanto si è dissolto è l'avere: i soldi si hanno, il potere si
ha, la fama si ha, la fortuna si ha; ma un uomo
è. Ciò che rimase, dunque, fu l'uomo stesso, ciò che è
umano in lui. Ed in tal modo la nostra epoca ha portato ad una riscoperta
dell'umano. Nell'inferno delle battaglie in trincea, nei rifugi
antiaerei e nei lager l'uomo fece l'esperienza di una verità: decisivo
in tutto e per tutto è l'uomo.
Ma che cosa è l'uomo? Egli è l'essere
che sempre decide e sempre continua a decidere ciò che è, ciò che sarà
nel prossimo istante. Egli ha la possibilità di divenire sia un angelo
che un diavolo. L'uomo che abbiamo conosciuto - e l'abbiamo conosciuto
come forse nessun'altra generazione prima -, è quell'essere che ha
inventato le camere a gas; ma è anche l'essere che è entrato nelle camere
a gas a testa alta con sulle labbra la Marsigliese o una preghiera.
Ma partendo dal presupposto che l'uomo
è un essere che decide di se stesso, risulta che l'uomo ha inizio
proprio là dove il naturalismo lo fa finire! Se prendiamo in considerazione
il biologismo come una delle forme del naturalismo, sentiamo dire che
l'uomo è un "tipico" picnico, un "tipico" astenico, un "tipico" atletico;
in ogni caso dev'essere come in effetti è, e non può essere diversamente.
Se invece prendiamo come punto di osservazione il sociologismo, vediamo
l'uomo come un tipico capitalista, un tipico proletario, un tipico piccolo
borghese; e in base al suo essere sociologico deve avere anche questa
o quest'altra attitudine mentale, che gli viene indubbiamente attribuita.
E pare impensabile sottrarsi alla certezza data dal "tipo" al quale
si appartiene. Per finire, prendiamo quel miscuglio di biologismo e
di sociologismo, quel biologismo in una certa misura "collettivo", che
si manifesta nel razzismo: ecco allora che io sono un "tipo nordico
che si dà da fare" o un "tipo mediterraneo teatrale" o un "tipo estroverso
delle regioni desertiche". In ogni caso sono legato e incatenato a questo
tipo e sono definito fatalmente dall'essere un tipo perfino in tutte
le decisioni esistenziali.
1.3.
La dottrina di un'unica umanità
Ma non è niente affatto vero che l'uomo
"tipico" sia così e non possa essere altrimenti. In un lager ho conosciuto
il direttore, un uomo delle SS, il quale non era affatto un "tipico
uomo delle SS", anzi comprava con i suoi soldi in segreto medicinali
per i prigionieri. Nello stesso Lager ho conosciuto anche il più vecchio
del campo, anch'egli prigioniero, il quale picchiava i compagni, persino
quelli malati. Ed ho conosciuto un alto funzionario della Gestapo che
di sera, completamente sconvolto, raccontava alla sua famiglia delle
deportazioni, mentre sua moglie piangeva e supplicò un paio di ebrei,
con i quali aveva a che fare, di ingiuriarlo alla grande poiché i capi,
non appena avessero smesso di sentire oltraggi e imprecazioni contro
di lui, si sarebbero insospettiti e lo avrebbero destituito dal suo
ufficio, togliendogli la possibilità di fare ancora qualcosa per lenire
le sofferenze. Tutti questi uomini avrebbero avuto la possibilità di
essere dei "tipici" rappresentanti della loro "razza" o della loro funzione
sociale; eppure non l'hanno fatto e hanno deciso di essere "atipici".
E ciò ci permette di affermare che non esistono dei tipi, che determinano
chiaramente l'uomo nel suo comportamento. In questo senso, in senso
cioè morale, le razze non esistono; o meglio ci sono due "razze" soltanto
- la razza degli uomini per bene e la razza dei poco di buono. E
questa divisione passa attraverso tutti i tipi, da quelli biologici
a quelli psicologici, a quelli sociologici. E sarebbe solo auspicabile
che l'umanità giungesse alla consapevolezza dell'unità della comune
appartenenza di tutti gli uomini per bene, al di là di ogni razza e
di ogni tipo; e come un tempo gli ebrei hanno donato al mondo il
monoteismo, come dottrina dell'unico Dio, occorre fare dono al mondo
una volta per tutte del monoantropismo, come dottrina di un'unica umanità.
Ma gli uomini per bene, lo sappiamo, sono
in minoranza, forse in un'eterna minoranza, una minoranza sempre perdente.
Questo pessimismo da solo basta a renderci fatalisti. In precedenza
l'attivismo era legato ad un ottimismo, alla fede nel progresso. Oggi
accade che proprio la fede in un progresso che si impone da sé, in un
automatico sviluppo superiore, dovrebbe paralizzare la nostra attività
e addormentare la nostra coscienza. Siamo ben lungi da una simile fede
nel progresso; siamo diventati pessimisti, ben sapendo di cosa è capace
l'uomo. Ma, se tutto dipende dall'uomo, va anche aggiunto che
dipende da ogni singolo uomo! Proprio perché gli uomini veramente tali
sono una minoranza, ogni singolo uomo è importante. E dipenderà dalla
sua personale fermezza nella lotta, dalla sua personale disponibilità
al sacrificio, se non si renderà colpevole del ripetersi di eccidi di
intere masse di uomini. E non si sottrarrà neppure al sacrificio della
sua vita stessa. Cosa sarebbe, infatti, questa vita se il suo valore
non consistesse nella possibilità di farsi dono per qualcos'altro?
Proprio nei lager si è palesata l'essenziale
trascendenza della vita, il suo 'intenzionale' andare oltre se stessa.
Infatti, anche se i più si interrogavano sulla loro sopravvivenza, altrimenti
il loro dolore non avrebbe avuto senso, c'era sempre qualche altro il
cui interrogativo suonava diversamente: questo soffrire, questo morire,
hanno un senso? In caso contrario anche la sopravvivenza non ne avrebbe
avuto. Infatti, una vita che dipendesse dalla benevolenza del caso,
il caso cioè di "farcela" o meno, non sarebbe significativa né degna
di essere vissuta, anche se si riesce a cavarsela. Dietro l'apparente
mancanza di senso della sofferenza e del sacrificio nei lager si rivelò,
dunque, una pienezza di senso così incondizionata da comprendere anche
il significato del dolore, del sacrificio e della morte.
1.4.
La propaganda del dialogo
Abbiamo parlato del singolo da cui
tutto dipende. Come tale egli si sottrae a qualsivoglia organizzazione.
Eppure sottili ponti conducono da una parte all'altra, su di essi si
effettuano dei passaggi, su di essi si muove lo spirito dell'epoca,
che è lo spirito del futuro. E sono stati questi ponti a condurci fin
qui, da diversi paesi. In tal modo i veri uomini si ritrovano insieme
al di là di ogni confine. Ed è desiderabile che l'uomo, se è vero che
oggi è "politicizzato", lo sia non soltanto nel campo della politica
partitica, ma in una prospettiva cosmopolitica. E ciò è tanto più importante
in quanto si constata che l'umanità si sta ritirando dalla vita pubblica
e politica nella vita privata. La repulsione nei confronti della politica
si impadronisce degli uomini per bene, così come si tende a relegare
con un senso di pudore la propria onestà all'interno di una ristretta
cerchia di persone. In un'epoca in cui la parola "idealista" è divenuta
quasi una parolaccia, l'uomo tende a ritirarsi dentro le quattro mura
della sua bontà. E non ci stupiamo di incontrare il tipo del giovane
trafficante che, senza scrupoli sociali, si dedica al mercato nero per
migliorare la vita dei suoi, e non solo la propria.
La repulsione per la politica, tuttavia,
trova il suo motivo principale nel fatto che l'elemento dominante, costituito
dai programmi di partito e dalle tattiche di lotta, è interamente soggetto
all'utilitarismo, cioè al punto di vista del fine che giustifica i mezzi;
un punto di vista che si manifesta sia nell'opportunismo dei leader
di partito sia nel congiunturismo dei tesserati.
La repulsione nei confronti dell'ingranaggio
politico-partitico in molti uomini per bene è dovuta soprattutto all'indicibile
noia della propaganda, che negli ultimi anni è stata ampiamente discreditata.
Ciò vuol dire che resta solo la propaganda dell'esempio, ed è racchiusa
nelle mani dell'educatore. Resta però un'altra propaganda, quella del
dialogo, del dialogo da uomo a uomo, in camera caritatis, del
dialogo tra sacerdote e fedele, ma anche - di fronte al "passaggio dell'umanità
occidentale dal pastore di anime allo psicoterapeuta" (Viktor E. von
Gebsattel) - del dialogo tra lo psichiatra ed il suo paziente.
2.
La situazione sociale
Abbiamo parlato dell'autocoscienza
esistenziale dell'uomo circa il suo proprio essere, della libertà nei
confronti delle dipendenze apparentemente totali stipulate dal naturalismo,
dalle leggi biologiche, sociologiche, fisiologiche del "tipo", a cui
appartiene a seconda dei casi. E continuando a parlare di questa essenziale
libertà dell'uomo, vogliamo porla a confronto con il suo contrario dialettico,
la fatalità, intendendo con ciò quello che si oppone alla mia libertà,
nel senso sia del destino dentro di me che del destino attorno
a me. In questo secondo caso, il riferimento è all'aspetto materiale,
inteso anche in senso lato, ossia nel senso "economico", come pure al
destino esteriore, insito nella situazione sociale, e quindi come determinazione
esclusiva dell'essere umano. Ci troviamo allora di fronte al problema
del materialismo storico, secondo il quale le condizioni materiali (=
economiche), ovvero la situazione sociale, determinano univocamente
ed inequivocabilmente l'"essere" sociale dell'uomo e la sua coscienza.
È dunque vero che l'ambiente (sociale) arriva ad avere un tale potere
di caratterizzazione da rendere l'uomo totalmente dipendente da esso,
al punto non solo da influenzarlo psicologicamente, ma addirittura da
dominarlo?
Prendiamo le trasformazioni caratteriali
che Utitz ha creduto di osservare in persone che sono state a lungo
prigioniere in campi di concentramento. Si trattava, come egli ha spiegato,
di uno spostamento della struttura del carattere sul versante del disturbo
schizoide della personalità (Kretschmer): i prigionieri divenivano in
misura crescente irritabili e apatici. Ma si è constatato che ogni singolo
prigioniero conservava la libertà interiore di resistere a queste deformazioni
caratteriali soltanto apparentemente necessarie e dovute a fattori esterni,
poiché c'erano altri prigionieri che riuscivano a contenere la loro
irascibilità e a superare la loro apatia.
Una tale libertà interiore, nonostante
le influenze apparentemente schiaccianti da parte dell'ambiente, appartiene
all'uomo fino all'ultimo respiro. E persino quando si riuscì a togliergli
tutto, il prigioniero del Lager la conservò. Qualunque destino
sopraggiunga non si può affatto perdere la libertà di porsi di fronte
ad esso in un modo o nell'altro. E vi fu un "così o altrimenti"
anche nei lager. Ed a coloro che, essendo vissuti in essi, hanno interpretato
in modo diverso le reazioni psicologiche alla detenzione, sostenendo,
sulla scia della psicoanalisi di Freud, che la prigionia e la vita nel
lager portarono con sé una "regressione", ossia un'involuzione a forme
più primitive dell'impulsività, farei notare che vi furono sempre singoli
casi che hanno dimostrato che l'uomo fu capace di sottrarsi a questo
sviluppo caratteriale apparentemente inevitabile; e ci sono stati sufficienti
esempi che hanno indicato come l'identica esperienza della situazione
del Lager non portò ad una regressione, ma ad un progresso, in ambito
morale, verso un procedere interiore evolutivo più elevato, forse proprio
nello spirito di quella frase di Hölderlin, che dice: "Quando m'imbatto
nella mia cattiva sorte, allora mi elevo".
2.1.
Marxismo e coscienza di classe
Ma non vogliamo fare un torto al marxismo,
affermando che per esso le condizioni esterne, economiche e sociali,
determinano in forma chiara ed esclusiva l'uomo e la sua consapevolezza.
Chi sostiene ciò non è un marxista vero e proprio, ma un marxista di
bassa lega. Infatti, la dottrina marxista ammette che l'interdipendenza
tra essere sociale e coscienza dell'uomo non è univoca, ma vi è anche
un riflesso della coscienza sull'essere sociale. Che la condizione di
classe determini inequivocabilmente la coscienza di classe è, dunque,
soltanto metà della verità marxista. Ed è assolutamente di stampo marxista
aggiungere, viceversa, che la coscienza di classe influisce sulla condizione
sociale, ovvero sullo sviluppo politico. Ma, se da parte marxista si
dovesse ribadire che l'uomo dipende fatalmente in modo chiaro ed inequivocabile
dal substrato socio-economico, basterebbe chiedere ad un qualsiasi marxista
con quale diritto egli parli di una "educazione alla coscienza di classe".
L'educazione, infatti, implica sempre la libertà di trasformarsi e di
"prendere in mano" il proprio destino, compreso quello sociale(1).
Ciò vuol dire che la libertà viene ammessa anche dal socialismo, come
pure dal marxismo, come mezzo per la lotta politica. E qualora ci chiedessimo
se la libertà non venga ammessa implicitamente anche nel fine politico
ultimo del socialismo, troveremmo subito che essa è senz'altro contenuta
nell'ideale di una comunità, la cui realizzazione rappresenta appunto
il senso di tutta la politica socialista.
(1)
Non dimentichiamo
dunque il fattore sociale, nemmeno in rapporto all'insorgere delle nevrosi.
Ma lo psicoterapeuta in quanto tale non può fare la rivoluzione. Egli
può solo influenzare l'atteggiamento del paziente verso il suo destino
sociale. Una trasformazione attiverà il paziente non solo nella sua
vita personale, ma anche nel suo atteggiamento politico.
2.2.
Il senso della comunità
È naturale che un tale concetto di comunità
è ben lungi da quella concezione, che si potrebbe definire come "zoologia
politica". Del resto, basta prendere questa parola alla lettera per
capire subito che con essa s'intende l'immagine dell'uomo come un puro
"zoón politikón", la cui società sarebbe puramente creaturale, zoologica.
Le cose, per fortuna, stanno diversamente: ogni comunità veramente umana
comprende una libera adesione ad essa. L'uomo non è semplicemente votato
alla comunità e da essa dominato, come succede per l'animale: l'uomo
si decide di volta in volta per la comunità! E poiché in questa
decisione si nasconde il fattore libertà, tra libertà dell'uomo e comunità
umana vi è un rapporto di reciproco consolidamento.
A tale concezione della comunità umana,
fondata sulla libertà, si sottrae quel totalitarismo della "comunità"
che non intende in realtà una vera comunità, ma una pura collettività.
L'annosa questione se la priorità vada all'individuo o alla comunità
è veramente puberale, e forse viene sollevata unicamente perché, a quanto
pare, anche l'umanità è in piena fase puberale. Noi, invece, siamo del
parere che, oltre al rapporto di reciproco consolidamento tra libertà
e comunità, vi è un effettivo rapporto dialettico tra individuo e comunità
che possiamo così formulare: solo la comunità garantisce il significato
dell'individualità degli individui e solo la tutela dell'individualità
degli individui garantisce il senso della comunità. È questo, e
solo questo, a distinguere la comunità dalla collettività o dalla massa.
Nella collettività, infatti, l'uomo non soltanto è un non-individuo,
ma è anche dis-umano e scompare del tutto come uomo, avendo "senso"
solo come uno dei tanti elementi di produzione. Ciò ha portato, e lo
si è ben visto, all'eutanasia nello stato nazionalsocialista, in cui
la vita non più produttiva venne considerata per principio "indegna
di essere vissuta" e, in quanto tale, da annientare. Tutto ciò, invece,
che vi è di umano a livello di valori, tutto quello che rende l'uomo
prezioso al di là della sua produttività e rende la sua esistenza degna
di essere vissuta, venne completamente trascurato.
Abbiamo così rilevato che la libertà umana
è sempre presupposta, sia come mezzo che come fine ultimo, anche da
un marxismo ben inteso. In altre parole, il socialismo non potrà
mai far a meno della libertà, né come socialismo militans né come socialismo
triumphans. E procedendo ad approfondire il problema del materialismo
storico abbiamo verificato, grazie alla scoperta del fattore libertà,
la sua svolta verso il socialismo personale, che è una
forma politica del tutto compatibile con contenuti cristiani.
3.
Il destino interiore
E passiamo ora al punto successivo, nel
quale non dobbiamo confrontare la libertà umana con ciò che è destinato
"attorno a noi", ma con quel che risulta (apparentemente) destinato
in noi stessi, ossia il destino interiore che viene rappresentato in
primo luogo da quel che comunemente definiamo inclinazione. E ciò facendo,
dopo aver illuminato criticamente il sociologismo, finiamo nel bel mezzo
della critica al biologismo. Le inclinazioni, infatti, rappresentano
le disposizioni biologiche, sia nel senso di ciò che l'uomo "percepisce"
come disposizioni familiari, sia nel senso delle disposizioni
nazionali, ovvero delle tendenze caratteriali. In proposito va
sottolineato che tutte le inclinazioni nell'uomo sono in effetti "destinati"
e, come tali, si sottraggono a priori alla sua libertà e alla
sua responsabilità, pur essendo ambivalenti o assolutamente prive di
un valore preciso. Si tratta di pure possibilità, la cui realizzazione
avviene soltanto con una sorta di decisione personale. E soltanto
la realizzazione delle possibilità interiori nell'individuo e attraverso
lui rende le disposizioni, originariamente e sostanzialmente neutrali,
un valore o un disvalore, una virtù o un vizio. Non intendo ovviamente
sostenere che unicamente dall'uomo come singolo individuo dipende ciò
che egli fa del suo essere prussiano, che ha assorbito come destino,
se egli cioè è un "tipico prussiano", ligio al dovere, pressoché invaso
dallo spirito di un rigorismo etico kantiano, o se, invece, è un automa
altrettanto "tipico prussiano". Di ciò, naturalmente, egli porta tutta
la responsabilità, godendo la piena libertà. Il suo essere prussiano,
in quanto tale, invece, non gli può essere imputato né come merito né
come colpa, e tanto meno si può imputare ad altri prussiani ciò
che hanno fatto del loro essere prussiani. Ed eccoci al cuore del problema
della colpa collettiva, in cui vanno ben distinti tre aspetti. Infatti
in tre sensi si può parlare di "colpa collettiva", anche se nell'uso
corrente il termine viene solo raramente usato in uno di essi. Si tratta
di tre forme, in cui solamente la colpa o la responsabilità può
davvero essere collettiva.
3.1.
Imputabilità collettiva
La cosiddetta colpa collettiva può innanzitutto
essere intesa, ed avere anche un senso, come l'imputazione ai membri
di un dato collettivo nel loro insieme delle conseguenze di qualcosa
che è stato commesso dal collettivo in quanto tale. Parlare ragionevolmente
di un'imputabilità collettiva di questo tipo, anche quando non
tocca il singolo individuo nella sua responsabilità personale,
può essere chiarito nel modo seguente: se devo sottopormi ad un'operazione
all'appendice, della cui necessità non posso certamente essere ritenuto
responsabile, non sono "colpevole" del fatto di essere stato colpito
da un'appendicite, mentre al medico che mi opera sarò "debitore" dell'onorario
e dovrò "garantirne" il pagamento. Allo stesso modo un popolo nel suo
insieme, così come ogni suo singolo appartenente, se viene liberato
da una tirannia e da un clima di terrorismo ne è debitore all'intervento
di altri popoli e di altre nazioni che, amanti della libertà, hanno
sacrificato i loro giovani sui campi di battaglia per sottrarre ad un
regime oppressivo tanti innocenti che non erano in grado di farlo da
sé, perché, in base alle loro asserzioni, erano troppo deboli. Quindi,
anche quando personalmente non sono colpevole di azioni criminali compiute
dalla nazione cui appartengo, sono co-imputato per le loro conseguenze.
Ma occorrerebbe aggiungere un'osservazione a questa definizione terminologica
di imputabilità collettiva (chiamata colpa collettiva
per troppa superficialità): ogni singolo dovrebbe sentirsi chiamato
in causa e collettivamente imputabile come ogni altro, compresa quindi
la nota "vittima politica" del precedente regime di terrore.
3.2.
Colpa per aver aderito ad un collettivo
Se sono entrato
a far parte di un collettivo, ad esempio di un partito, fino ad un certo
punto posso essere personalmente complice di certi crimini, da esso
programmaticamente compiuti. Ma, primo: non si aderisce ad una nazione...,
e quindi non potrei in alcun modo essere considerato responsabile di
appartenere casualmente ad una nazione che ha dichiarato una guerra
criminale. Secondo: anche nel caso di adesione ad un partito e, quindi,
di coinvolgimento in ciò che esso ha commesso, resta il dubbio se e
fino a che punto non sia dimostrabile la presenza di una pressione e,
quindi, se l'adesione di cui mi si accusa non fosse più o meno imposta,
costretta, qualcosa che non rientrava del tutto né nella mia libertà
né nella mia responsabilità. Nel caso singolo decidere una questione
così delicata e complessa può non essere facile. Ad ogni buon conto,
potrebbe arrogarsi il diritto di giudicare l'altro e di rimproverargli,
ad esempio, di non essersi opposto alla pressione o alla costrizione
solo chi può dimostrare di aver agito egli stesso in tal modo.
Solo chi è andato personalmente in un lager, senza cedere ad alcun tipo
di pressione, potrebbe condannare chi si è arreso. Chi non è stato nella
stessa situazione della persona che viene incriminata oggi e se n'è
stato tranquillamente seduto all'estero, fa presto a pretendere da altri
l'eroismo o addirittura il martirio od a rimproverare loro debolezza
o vigliaccheria.
3.3.
Responsabilità collettiva
Per dar luogo ad equivoci si può, infine,
far rientrare nella colpa collettiva anche quella responsabilità collettiva
secondo la quale ognuno è in qualche modo corresponsabile di ogni altro
o, come si suol dire, "uno per tutti". Ma se così fosse, occorrerebbe
aggiungere: "e tutti per uno", poiché, se davvero ognuno è corresponsabile
di ogni altro, allora ognuno lo è di ogni altro! E qui è del
tutto fuori posto qualsiasi forma di fariseismo in cui una singola nazione
può cullarsi rispetto ad un'altra. Ammettiamolo, dunque: ogni uomo,
così come ogni singolo popolo, "è" assolutamente "in compagnia" del
male. E questa compagnia è, per esprimerci in modo musicale, un vero
e proprio accompagnamento "obbligato": il male ha il dono dell'ubiquità!
E avendo visto negli ultimi anni tutto ciò di cui l'uomo è capace, abbiamo
anche imparato che ognuno ne è capace.
Certamente il male non si realizza in
ogni uomo; ma è insito in ognuno almeno come potenzialità; e come tale
non era soltanto in ognuno, ma è e rimane in ognuno. Noi però non crediamo
che il diavolo abbia incastrato una nazione intera o abbia monopolizzato
un qualsivoglia partito. E chi ha ritenuto che sia stato il nazionalsocialismo
ad aver creato per primo il male, si sbaglia di grosso; ciò vorrebbe
dire sopravvalutarlo, in quanto non fu affatto creativo, tanto meno
nel male. Il nazionalsocialismo non è stato il primo a creare il male:
l'ha solo incentivato, forse come nessun altro sistema prima d'allora.
Lo ha incentivato tramite una selezione negativa che esercitò, e tramite
il potere del cattivo esempio "che genera il male a catena".
3.4.
Spezzare la catena del male
Dobbiamo allora
ritorcere l'accusa, trasformando tutto "in verde" oppure cambiando il
bruno in nero o in rosso o in rosso-bianco-rosso? Dobbiamo continuare
a fare sempre lo stesso, sostituendo solo il segno distintivo?
Conosco un giovane cui una volta fu offerta
una bevanda alcolica. Nella sua goffaggine linguistica rispose: "No,
grazie, sono un antisemita dell'alcool". Qualcosa del genere fa venire
in mente qualche "ismo" di oggi: non si è più antisemita nel senso originario,
ossia antisemita dei "semiti", ma si è "antisemita" di qualcos'altro.
Con gli stessi mezzi del sistema con cui ci si vanta di combattere,
si vuole combattere il sistema stesso. Ma in tal modo emerge una contraddizione
interna, non dissimile da quella contenuta nella proposta di fondare
l'"associazione dei nemici dell'associazionismo".
Se prima dicevamo che solo il segno
è diverso, altrettanto ragionevolmente potremmo dire che il prefisso
è rimasto lo stesso, ovvero l'"anti"! Ed ecco nato un altro slogan.
Eppure, dovremmo averne abbastanza di luoghi comuni. Infatti, non abbiamo
visto solo ciò che si è sempre visto, ossia un uomo cadere raggiunto
da un colpo. Abbiamo visto molto di più: la caduta di un intero popolo,
colpito da uno slogan.
Bisognerebbe spezzare la catena del male,
non tornando a ripagare con la stessa moneta, il male con il male, ma
sfruttando l'opportunità unica che viene offerta di superare il male,
in modo da non eternarlo e perpetuarlo e da non attenersi
all'"occhio per occhio, dente per dente". Giacché a chi cerca con questa
espressione di inserire nel dibattito il Vecchio Testamento, potremmo
ribattere perlomeno con altrettanta ragione citando a riprova della
nostra interpretazione un altro brano dallo stesso libro: la
storia di Caino. Vero è che la maggior parte degli uomini, se si chiede
a che cosa sia servito il marchio sulla fronte di Caino, crede che Dio
voleva stigmatizzare quel primo assassino, per attirare l'attenzione
degli altri su di lui. Invece, non ci siamo proprio: proseguendo nella
lettura, infatti, si viene a sapere che Caino, dopo l'assegnazione della
punizione divina, obiettò che con quel segno sulla fronte sarebbe stato
cacciato via e ammazzato di botte; e si scopre che il marchio gli venne
inciso proprio per impedire che ciò avvenisse, perché gli uomini
non gli facessero nulla di male, non uccidessero di nuovo,
non rispondessero insomma all'assassinio con un altro assassinio.
In effetti, l'assassinio di Caino doveva, come è espressamente
scritto, esser punito ancor più dell'uccisione di Abele da parte
di Caino. Così e soltanto così era da intendere, e solo così era possibile
non perpetrare il fratricidio.
Tornando alla questione originaria, ossia
se e in che misura esista davvero una "responsabilità" collettiva in
un senso ben determinato, senza più parlare di "colpa", potremmo giungere
alla seguente formulazione: se esiste una responsabilità collettiva,
essa può essere soltanto planetaria.
Una mano non deve affatto immaginare di
non essere lei ma l'altra ad essere stata colpita da un'ulcera, poiché
l'intero organismo è malato. Allo stesso modo una nazione non dovrebbe
esultare per il fatto che non lei ma quella germanica era caduta nella
trappola del nazionalsocialismo, poiché l'umanità intera fu colpita
da quel male.
La valutazione critica delle problematiche
collegate alla colpa collettiva ci conduce, allora, all'idea di una
responsabilità planetaria.
4.
Il fattore psicologico
Ma
non soltanto il fattore biologico, le inclinazioni, costituiscono il
mio destino, qualcosa con cui la mia libertà deve confrontarsi. Nel
destino rientra, oltre al fattore sociologico e a quello biologico,
anche quello psicologico. Il destino psicologico in me è l'Es
di Freud, che si contrappone essenzialmente all'Io e alla sua libertà.
L'Es sospinge - e chi sospinge? Se ci interroghiamo sull'oggetto
in senso grammaticale, la risposta della psicoanalisi è la seguente:
l'Es sospinge l'Io. In tal modo, però, l'Io diventa un
oggetto in senso psicologico! E lo diventa al punto che nella prospettiva
psicoanalitica il suo carattere soggettivo scompare completamente. Addirittura
l'Io viene colto, alla fine, come qualcosa che, di per sé e dal canto
suo, viene pensato come costituito da impulsi ("impulsi dell'Io").
A questo concetto dell'apparato psichico
di stampo psicoanalitico contrapponiamo quanto segue: è ben vero che
l'Es sospinge; ma ci si dimentica che l'Io vuole, poiché
io decido! Ed in tale contrapposizione facciamo riferimento a
ciò che intendeva dire ad esempio Jaspers quando parlava dell'essere
umano come di un "essere che decide", un essere che non è semplicemente,
ma decide di volta in volta ciò che è.
Noi parliamo dell'essere umano come di
un essere responsabile, e ciò sulla base della sua sostanziale libertà.
Ma il rapporto tra libertà e responsabilità si manifesta nel fatto che
la libertà non è solamente libertà-da, ma è anche libertà-di, e l'assunzione
di responsabilità costituisce proprio "ciò per cui" l'uomo è libero.
Alla psicoanalisi di Freud abbiamo allora da contrapporre un'analisi,
che è un'analisi dell'essere uomo nella direzione dell'essere responsabile.
Tale modo di essere dell'uomo, che trova la sua ultima ragione dichiarabile
nel fenomeno dell'essere responsabile, si chiama esistenza. Ne deriva
che alla psicoanalisi deve far seguito un'analisi esistenziale, un'analisi
dell'esistenza umana al di là del puro essere sospinto.
Si potrà obiettare che l'esistenza non
si lascia analizzare, ma al massimo "chiarire". Ebbene, noi non intendiamo
l'analisi nella prospettiva della concezione atomistica di Freud, ma
nel senso in cui Kant parlò di giudizi analitici, ovvero nel far risaltare
ciò che nell'essenza dell'esistenza è già contenuto implicitamente.
Fino a quando analisi esistenziale volesse semplicemente dire
un'interpretazione dell'uomo, del senso dell'essere uomo, tenderebbe
a nient'altro che ad "interpretare" nel senso della solita interpretazione
psicoanalitica dei sintomi.
4.1.
La libertà
Ma la libertà che, in quanto base dell'essenziale
essere responsabile dell'uomo, viene continuamente vista e portata alla
luce dall'analisi esistenziale, anche nelle modalità nevrotiche di esistere,
è innanzitutto integrale: essa, infatti, è in qualche modo presente
anche laddove io vengo "spinto", proprio perché mi lascio spingere!
La rinuncia alla libertà ed al suo uso è anch'essa di per sé una rinuncia
volontaria. Volontariamente avviene l'abdicazione dell'Io nei
confronti dell'Es. In secondo luogo la libertà è indivisibile,
senza compromessi. Non sembra affatto necessario che l'Io debba
raggiungere dei compromessi (nel senso della dottrina psicoanalitica
sulle nevrosi) con l'Es. E se la psicoanalisi, anche nella versione
di C.G. Jung, sottolinea a ogni piè sospinto che l'Io (l'uomo) dovrebbe
"venire ad un accordo" con l'Es (l'inconscio, compreso quello
collettivo ed arcaico), l'analisi esistenziale contrappone la pretesa
che l'uomo prima di tutto ritorni "in sé", che giunga alla
piena consapevolezza della piena responsabilità e libertà del suo Io.
In terzo luogo la libertà è aprioristica, per cui è assolutamente in
grado, poiché lo è fin dal principio, di resistere a quelle che vengono
chiamate superpotenti "forze demoniache" dell'istintività inconscia,
poiché l'istintività è fin dall'inizio sempre formata, forgiata a partire
dall'Io. Ma ciò è possibile perché l'Io non soccombe mai alla causalità
della dinamica degli istinti.
Gli atti decisionali dell'Io sono spirituali
e non psichici, esistenziali(2) e non creaturali.
Si tratta, a seconda dei casi, di qualcosa di creativo, di un atto,
ma non di un fatto, per cui l'interrogativo sulla causa,
sulla determinazione causale a partire dall'Es, è del tutto infondato.
Se qualcuno dunque chiede come sia possibile che l'Io possa avere in
ogni caso la meglio sui "demoni", vuol dire che non riconosce l'essenza
della libertà dell'Io come a priori, in quanto esistenziale.
E nel suo fraintendimento assomiglierebbe ad un uomo che non è in grado
di capire come un giudice decrepito abbia il "potere" di giudicare un
atletico imputato: chi si pone questa domanda non riconosce la fondamentale
differenza tra la forza bruta e il "potere" giudiziario.
(2)
L'esistenziale, ed in questo senso lo spirituale, non va però identificato
con la consapevolezza. Tuttavia proprio la decisione esistenziale -
si pensi solo alla coscienza! - è spesso il compimento assolutamente
non riflesso di un atto.
4.2.
Psicologismo rozzo
Ma la psicoanalisi, in fin dei conti,
è solo un caso particolare di psicologismo rozzo. Lo psicologismo
è caratterizzato dal fatto di proiettare i fenomeni mentali fuori
dal loro proprio "spazio" sul piano puramente psicologico. In questa
proiezione essi diventano ambigui e, senza riferimento al contenuto
mentale, tenendo conto soltanto dell'atto psichico, non si riesce a
stabilire se corrispondono ad un'operazione culturale o ad un sintomo
psicologico. Come un cerchio su un piano è ambiguo, in quanto
può significare la proiezione dallo spazio sia di un cerchio
bidimensionale che di un cilindro tridimensionale, di una sfera o di
un cono, allo stesso modo all'interno del piano psicologico non è possibile
distinguere un Dostojewski da un qualunque altro epilettico, o le visioni
di una Bernadette da altre allucinazioni. La proiezione psicologistica
depaupera la nostra osservazione di un'intera dimensione, quella spirituale.
La pura e semplice oggettivazione dell'essere umano ci fa perdere la
dimensione, in cui esso "è"! Infatti, nell'istante in cui rendiamo
l'Io un semplice oggetto, ne perdiamo l'effettivo carattere. Questa
è anche la contraddizione interna al behaviorismo: ridurre la libera
condotta dell'uomo ad una semplice circostanza di fatto!
Ogni oggettivazione dell'essere umano,
non dimentichiamolo, riguarda soltanto l'essere in un dato modo,
ma non l'esser-ci. L'esser-ci (il Da-sein) non coincide con
l'essere in un dato modo (il So-sein), non è l'essere-così ma
il "poter diventare altro". L'esser-ci va sempre oltre il proprio essere-così;
l'esistenza umana non si conclude mai nella propria fatticità. Essere
uomo non vuol dire essere fattivamente, ma essere facoltativamente!
La psicoanalisi, allora, con il suo atteggiamento psicologistico ed
oggettivante, è destinata a perdere di vista l'esistenza umana; osservando
solo il fattore psicologico nella sua fattualità, rinuncia a guardare
al fattore esistenziale nella sua possibilità. Noi, invece, abbiamo
tentato di indicare quel cammino necessario a focalizzare la nostra
immagine dell'uomo sulla sua esistenza come vero modo di essere, realizzando
così un cammino dalla psicoanalisi all'analisi esistenziale(3).
(3)
L'analisi esistenziale non è un sostituto della psicoterapia, ma la
sua necessaria integrazione. Le scoperte di Freud conservano la loro
validità. Ad esempio, la sua teoria sui sogni rimane valida; a dire
il vero non sono io a sognare, ma è l'Es che sogna in me, e quindi
all'interno della dinamica dell'Es vale la teoria psicoanalitica.
Del resto, sarebbe da rilevare che l'effetto terapeutico nella psicoterapia,
come anche nell'ambito della psichiatria, è ancora ben lungi dal comprovare
la correttezza delle premesse teoriche. La psicoanalisi però è efficace,
probabilmente, per il fatto che in fin dei conti contiene comunque
un tacito appello all'Io libero e responsabile, che presuppone. Anche
l'insulinoshockterapia contro la schizofrenia è partita da insostenibili
premesse teoriche, eppure si è dimostrata enormemente efficace.
4.3.
Dalla psicoanalisi all'analisi esistenziale
Ex definitione l'analisi
esistenziale mira ad un essere-cosciente dell'avere-responsabilità.
Ma l'uomo ha responsabilità nei confronti della propria finitezza
la quale è data soprattutto dalla temporalità dell'esistenza, nella
quale ci imbattiamo innanzitutto sotto la forma della caducità. Di essa,
però, sappiamo che costituisce principalmente la responsabilità dell'uomo.
Se l'uomo fosse immortale, potrebbe a ragione lasciarsi scappare tutte
le occasioni di realizzare dei valori, poiché riterrebbe poco importante
fare qualcosa adesso, potendolo fare in un qualunque momento successivo.
Soltanto grazie alla finitezza temporale del nostro esistere è possibile
appellarsi alla responsabilità umana nella sua pienezza, come
ben si esprime il seguente imperativo categorico: agisci come se
vivessi per la seconda volta e la prima volta avessi sbagliato tutto,
proprio come sei sul punto di fare.
Ma non si tratta tanto della morte e di
ciò che l'uomo ha dinanzi a sé, quanto di ciò che lascia dietro di sé.
In fondo, è in gioco la responsabilità nei confronti della transitorietà,
giacché la transitorietà non potrebbe bloccare la gioia della responsabilità.
Al contrario, transitorie sono soltanto le possibilità di realizzare
dei valori; nel momento in cui li realizziamo li salviamo nella
realtà, nella realtà dell'essere-passato! Nel passato essi sono "assunti"
proprio nel doppio senso di Hegel, e quindi anche "conservati". Giacché
essere-stato è forse la forma più sicura di essere. Ciò che è passato
non lo si può più togliere dal mondo; ed appartiene alla nostra responsabilità
la decisione di immetterlo nel mondo(4).
(4)
Cfr. V. E. Frankl, Zeit und Verantwortung, Franz Deuticke, Wien,
1947, pp. 19-28.
5.
La porta verso la trascendenza
Avendo definito la responsabilità come
il "per-che-cosa" della libertà, nasce la domanda sul "dinanzi-a-chi"
si è responsabili. Si tratta, evidentemente, della tipica "domanda finale",
che tocca le questioni ultime. Ed a tale domanda l'analisi esistenziale
deve restare debitrice della risposta, poiché l'interrogativo rimane
aperto e viene tenuto aperto come la porta verso la trascendenza. Infatti,
il compito di un'analisi esistenziale, come metodo squisitamente psicoterapeutico,
è solo quello di allestire la stanza dell'immanenza, senza che
la porta verso la trascendenza venga bloccata. Nella trascendenza vi
è l'assoluto, e l'assoluto rimane nella trascendenza. In nessun caso
il trascendente si trova in una dimensione in cui l'analisi esistenziale
oserebbe avventurarsi. Addirittura è possibile che l'Assoluto non
sia in nessuna dimensione, ma costituisca lo stesso sistema di coordinate...
Eppure anche in un'analisi esistenziale
che, stando al suo compito, non può osare di avvicinarsi all'assoluto
in quanto tale, deve essere importante fare almeno una cosa: aver cura
che il relativo resti relativizzato. Infatti, è probabile che
una qualsiasi prospettiva puramente immanente, che non acquista coscienza
del suo confinare con il trascendente, operi delle distorsioni. E se
la teologia tempo addietro è stata tacciata di antropomorfismo, non
vogliamo arrivare al punto di accusare l'antropologia di teomorfismo;
non vogliamo cioè che nella nostra concezione dell'uomo, dopo avere
relativizzato tutto quanto risulta destinato in senso biologico, psicologico
e sociologico, si collochi la libertà in maniera assolutistica
dinanzi a ogni tipo di destino! Ciò vuol dire che, dopo aver sventato
il pericolo del biologismo, dello psicologismo e del sociologismo, resta
pur sempre la minaccia di un ultimo pericolo: il pericolo di un antropologismo.
L'analisi esistenziale resta dunque
debitrice della risposta all'ultima domanda, poiché il luogo
in cui essa è in grado di condurre l'uomo non è l'ultima fermata.
Ciononostante, partendo da questa tappa è possibile ottenere "l'accesso
diretto" in direzione della trascendenza. Infatti, tale fermata si trova
"sulla strada" verso l'assoluto, quell'assoluto che viene colto soltanto
nel vissuto religioso.
5.1.
La dimensione religiosa
Quel che ci
interessa è dimostrare che non vi può essere alcun contrasto tra l'esperire
e l'agire responsabile dell'uomo non religioso e quello dell'uomo religioso,
poiché la dimensione religiosa può, a seconda dei casi, stare in un
rapporto supplementare(5). Lo si vede bene
da come entrambi vivono l'esperienza del loro esistere: mentre l'uomo
non religioso la vive come puro compito e, quindi, come appello alla
sua responsabilità, quello religioso, in forma appunto supplementare,
vive l'esperienza di quell'istanza che stabilisce il compito,
percepito come missione divina.
Comunque anche "nello spazio dell'immanenza",
con il quale l'analisi esistenziale ha direttamente a che fare, vi è
qualcosa di simile al caso limite di un "dinanzi a che cosa" della responsabilità:
la coscienza. La coscienza, infatti, rimanda oltre se stessa e a partire
dall'immanenza e ciò si vede chiaramente non appena la si coglie come
una sorta d'istinto morale. Se, ad esempio, mi assumo l'incarico di
produrre sacchetti di plastica per imballare della merce, avrò bisogno
di una certa dose d'intelligenza per farlo, che è comunque talmente
limitata da permettermi di affidare questo compito anche ad un idiota,
ricoverato in un manicomio, tenendolo così occupato a scopo terapeutico.
Se, invece, ho l'incarico di costruire una macchina che produca sacchetti
di plastica, avrò bisogno di un livello di intelligenza notevolmente
superiore. Lo stesso può dirsi della cosiddetta saggezza degli
istinti: esistono dei coleotteri le cui femmine tagliano pezzi di foglie
in un certo modo (seguendo una curva "irrazionale", che è un rompicapo
persino per i matematici stessi) e poi li arrotolano in sacchetti, in
cui depongono al sicuro le loro uova. Se sorprende notare come questo
istinto opera in maniera così "saggia", quanto ineguagliabilmente superiore
dev'essere quella saggezza che ha creato un tale istinto!
(5)
Sarebbe importante facilitare la relazione tra gli uomini religiosi
e quelli non religiosi accentuando il rapporto di integrazione (e non
di opposizione). Nelle conseguenze pratiche deve esserci un denominatore
comune ed una piattaforma condivisa, così da consentire a credenti e
non credenti di ritrovarsi per un'azione comune nello spazio dell'immanenza.
5.2.
La parabola dello Spettatore
Vediamo dunque
come l'istinto, compreso quello morale, ossia la coscienza, rimandi
oltre se stessa e, a partire dall'immanenza, indichi la trascendenza.
Potremmo anche dire che nello spazio dell'immanenza, che è il luogo
dell'analisi esistenziale, vi è sulla parete una lavagna con la scritta
"uscita" ed una freccia che indica la porta di accesso alla trascendenza.
Parlare dell'uomo religioso come di uno
che fa un'esperienza in più rispetto al non religioso, poiché vive anche
l'esperienza del committente, non vuol dire comunque assumere un atteggiamento
di arroganza, quanto piuttosto un atteggiamento di tolleranza.
Del resto, anche la disposizione naturale del vedente nei confronti
del non vedente non è di disprezzo, ma di compassione e di aiuto.
Ma paragonare l'uomo religioso al vedente
è un errore. E quanto ciò sia sbagliato può chiarirlo la seguente
parabola: se è vero che gli uomini nella vita sono come degli attori
su un palcoscenico, va ricordato che l'attore, accecato dalle luci della
ribalta, al posto della platea vede solo un grande buco nero. Non riesce
mai a vedere "davanti a chi" sta recitando. Non succede forse lo stesso
all'uomo? Anch'egli, accecato dall'"apparenza" della quotidianità, non
vede "dinanzi a chi" egli "porta" la responsabilità della sua esistenza
(come l'attore svolge il suo ruolo): non vede davanti a chi agisce!
Eppure vi sono degli uomini i quali ritengono che, proprio laddove non
vediamo "niente", proprio laggiù siede il grande Spettatore che sta
a guardare, immobile. E sono loro a gridarci: attenzione, siete davanti
al sipario aperto!
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