L'analisi esistenziale e i problemi del tempo
(Die Existenzanalyse una die Probleme der Zeit)

 Viktor E. Frankl

     Questo testo, tra i primissimi scritti da Frankl dopo la tragica esperienza della deportazione nei lager, riproduce il contenuto di una conferenza tenuta il 28 dicembre 1946 all'incontro delle scuole franco-austriache di St. Christoph am Arlberg: pare che Frankl fosse il primo viennese, nell'immediato dopoguerra, ad ottenere il permesso di valicare il confine per motivi scientifici. Die Existenzanalyse und die Probleme der Zeit fu in seguito ripreso per essere il primo dei tre discorsi pubblicati sotto il titolo Logos und Existenz (Amandus-Verlag, Wien, 1951, pp. 1-46) ed è poi confluito nel volume Der Wille zum Sinn (Hans Huber, Bern-Stuttgart-Wien, 1972-1991d). Si tratta di un testo importante poiché contiene già compiutamente enucleati alcuni dei temi fondamentali che troveranno successivamente sviluppo nell'opera di Frankl, nonché altri argomenti sui quali l'Autore difficilmente si pronuncerà in seguito con altrettanta chiarezza: l'accoglienza dell'esistenzialismo, la valutazione dell'esperienza cruciale nei Lager, il problema dell'opzione politica e del socialismo "personale", la dottrina della libertà individuale e la posizione nei confronti del materialismo storico, la critica alla teoria della colpa collettiva, il ruolo dell'Assoluto nell'analisi esistenziale ed il significato dell'esperienza religiosa, ecc.. Il testo, ancora inedito in italiano, compare qui nella traduzione di Daniele Bruzzone, con la supervisione di Eugenio Fizzotti.

 

 

 

 

 

 

 

 

1. La conoscenza dell'immediato
     L'inizio dell'età moderna ha portato con sé la nascita delle scienze naturali e, come loro applicazione pratica, la tecnologia. Nel diciannovesimo secolo poi si è giunti a quella loro maturazione, che noi abbiamo ricevuto in eredità: le scienze naturali hanno portato al naturalismo e la tecnologia ad un atteggiamento utilitaristico. Entrambe sono entrate nella carne e nel sangue dell'uomo, sono state inculcate ed instillate, sono diventate un concetto scontato, un'ovvietà, che ha appesantito di molto la comprensione che l'uomo ha di se stesso e la sua concezione del mondo. Di conseguenza l'uomo si considera come un essere naturale in conformità all'atteggiamento naturalistico, e il mondo per lui non è altro che un semplice mezzo per lo scopo, secondo l'atteggiamento tecnologico-utilitaristico. In tal modo egli assoggetta il mondo attraverso la tecnologia ma nello stesso tempo muta egli stesso, trasformandosi in un oggetto! Così si giunge al paradosso secondo il quale l'uomo, "naturalizzandosi", si s-natura; e, concependosi come puro essere naturale, perde di vista la sua vera natura, la sua propria essenza, e attraverso la degradazione del mondo a puro mezzo tecnico alla fine dimentica il fine ultimo possibile e necessario. Non c'è da stupirsi, allora, se nel nostro secolo, si giunge ad una grande svolta: ad una coscienza dell'immediato! E ciò in duplice senso: come autocoscienza del proprio essere (la reazione alla perduta coscienza della propria essenza) e come ritorno al vero significato (la reazione alla perduta coscienza del fine ultimo di ogni tecnologia). Cosa racchiude tutto ciò se non le domande esistenziali? Ciò che infatti è ora in discussione è l'essere ed il significato.

1.1. Il problema dell'uomo moderno
     La questione esistenziale nella sua forma "moderna", il "problema dell'uomo moderno", venne sollevata per la prima volta da Kierkegaard. E la richiesta da lui avanzata nel diciannovesimo secolo trovò una soluzione nel secolo successivo attraverso la filosofia vitale di Bergson e la fenomenologia di Husserl e del suo discepolo Scheler che, svolgendo un lavoro preliminare, hanno facilitato la filosofia esistenziale contemporanea che, dopo la prima guerra mondiale, ha trovato piena realizzazione in Heidegger, Jaspers e Jean-Paul Sartre. Alla seconda guerra mondiale è toccato il compito di incentivarne la diffusione, aggiornarne la formulazione e radicalizzarla al massimo.
     Ma se ci chiediamo il perché di tutto questo, allora dobbiamo tener presente che la seconda guerra mondiale ha significato fin dall'inizio più che una pura esperienza del fronte: per le "retrovie" (che a quel punto non esistevano più) portò l'esperienza dei rifugi antiaereo e quella dei lager. Si era ormai da tempo ben lungi dall'essere fedeli alla pretesa di Kant: se ogni cosa ha un suo valore, soltanto l'uomo ha la sua dignità. Ma era nella sostanza stessa del sistema economico capitalistico che l'operaio dovesse essere degradato fino al punto che di lui non restasse che poco più di un ingranaggio meccanico nel processo produttivo. Questo però non fu ancora il trionfo di quell'utilitarismo tecnologico di cui si parlava prima, poiché in quel momento era solo il lavoro dell'uomo ad essere diventato un semplice mezzo. La guerra fece della vita dell'uomo un puro e semplice mezzo, e lo degradò ancora di più, rendendolo carne da cannone. Alla fine il lager raggiunse l'apice di questo progressivo processo di degradazione, giacché in esso non furono solo la forza lavoro o la vita stessa a diventare un mezzo per uno scopo: lo divenne anche la morte. Nei lager, infatti, l'uomo fu trasformato in una cavia.
     In tale processo di degradazione si palesa un progresso di carattere tecnologico. Ed è discutibile se sia possibile un altro progresso e se il progresso non sia solamente tecnologico e se possa imporsi soltanto come tale, dal momento che viviamo in un'epoca tecnologica.

1.2. La riscoperta dell'umano
     Cosa significa porre la questione dell'esistenza? Chi la pone si mette egli stesso in discussione, poiché la questione dell'esistenza è il mettersi in discussione dell'uomo. E fino a che punto possiamo sostenere che essa sia stata portata avanti negli ultimi tempi più che in passato? In questo nostro tempo è stato messo in discussione proprio tutto: denaro, potere, fama, fortuna. Tutto ciò è venuto meno all'uomo. Ma nello stesso tempo si è dissolto l'uomo stesso, bruciato dal dolore e grondante di sofferenza; dissolto nel suo essere. Tutto quanto si è dissolto è l'avere: i soldi si hanno, il potere si ha, la fama si ha, la fortuna si ha; ma un uomo è. Ciò che rimase, dunque, fu l'uomo stesso, ciò che è umano in lui. Ed in tal modo la nostra epoca ha portato ad una riscoperta dell'umano. Nell'inferno delle battaglie in trincea, nei rifugi antiaerei e nei lager l'uomo fece l'esperienza di una verità: decisivo in tutto e per tutto è l'uomo.
     Ma che cosa è l'uomo? Egli è l'essere che sempre decide e sempre continua a decidere ciò che è, ciò che sarà nel prossimo istante. Egli ha la possibilità di divenire sia un angelo che un diavolo. L'uomo che abbiamo conosciuto - e l'abbiamo conosciuto come forse nessun'altra generazione prima -, è quell'essere che ha inventato le camere a gas; ma è anche l'essere che è entrato nelle camere a gas a testa alta con sulle labbra la Marsigliese o una preghiera.
     Ma partendo dal presupposto che l'uomo è un essere che decide di se stesso, risulta che l'uomo ha inizio proprio là dove il naturalismo lo fa finire! Se prendiamo in considerazione il biologismo come una delle forme del naturalismo, sentiamo dire che l'uomo è un "tipico" picnico, un "tipico" astenico, un "tipico" atletico; in ogni caso dev'essere come in effetti è, e non può essere diversamente. Se invece prendiamo come punto di osservazione il sociologismo, vediamo l'uomo come un tipico capitalista, un tipico proletario, un tipico piccolo borghese; e in base al suo essere sociologico deve avere anche questa o quest'altra attitudine mentale, che gli viene indubbiamente attribuita. E pare impensabile sottrarsi alla certezza data dal "tipo" al quale si appartiene. Per finire, prendiamo quel miscuglio di biologismo e di sociologismo, quel biologismo in una certa misura "collettivo", che si manifesta nel razzismo: ecco allora che io sono un "tipo nordico che si dà da fare" o un "tipo mediterraneo teatrale" o un "tipo estroverso delle regioni desertiche". In ogni caso sono legato e incatenato a questo tipo e sono definito fatalmente dall'essere un tipo perfino in tutte le decisioni esistenziali.

1.3. La dottrina di un'unica umanità
     Ma non è niente affatto vero che l'uomo "tipico" sia così e non possa essere altrimenti. In un lager ho conosciuto il direttore, un uomo delle SS, il quale non era affatto un "tipico uomo delle SS", anzi comprava con i suoi soldi in segreto medicinali per i prigionieri. Nello stesso Lager ho conosciuto anche il più vecchio del campo, anch'egli prigioniero, il quale picchiava i compagni, persino quelli malati. Ed ho conosciuto un alto funzionario della Gestapo che di sera, completamente sconvolto, raccontava alla sua famiglia delle deportazioni, mentre sua moglie piangeva e supplicò un paio di ebrei, con i quali aveva a che fare, di ingiuriarlo alla grande poiché i capi, non appena avessero smesso di sentire oltraggi e imprecazioni contro di lui, si sarebbero insospettiti e lo avrebbero destituito dal suo ufficio, togliendogli la possibilità di fare ancora qualcosa per lenire le sofferenze. Tutti questi uomini avrebbero avuto la possibilità di essere dei "tipici" rappresentanti della loro "razza" o della loro funzione sociale; eppure non l'hanno fatto e hanno deciso di essere "atipici". E ciò ci permette di affermare che non esistono dei tipi, che determinano chiaramente l'uomo nel suo comportamento. In questo senso, in senso cioè morale, le razze non esistono; o meglio ci sono due "razze" soltanto - la razza degli uomini per bene e la razza dei poco di buono. E questa divisione passa attraverso tutti i tipi, da quelli biologici a quelli psicologici, a quelli sociologici. E sarebbe solo auspicabile che l'umanità giungesse alla consapevolezza dell'unità della comune appartenenza di tutti gli uomini per bene, al di là di ogni razza e di ogni tipo; e come un tempo gli ebrei hanno donato al mondo il monoteismo, come dottrina dell'unico Dio, occorre fare dono al mondo una volta per tutte del monoantropismo, come dottrina di un'unica umanità.
     Ma gli uomini per bene, lo sappiamo, sono in minoranza, forse in un'eterna minoranza, una minoranza sempre perdente. Questo pessimismo da solo basta a renderci fatalisti. In precedenza l'attivismo era legato ad un ottimismo, alla fede nel progresso. Oggi accade che proprio la fede in un progresso che si impone da sé, in un automatico sviluppo superiore, dovrebbe paralizzare la nostra attività e addormentare la nostra coscienza. Siamo ben lungi da una simile fede nel progresso; siamo diventati pessimisti, ben sapendo di cosa è capace l'uomo. Ma, se tutto dipende dall'uomo, va anche aggiunto che dipende da ogni singolo uomo! Proprio perché gli uomini veramente tali sono una minoranza, ogni singolo uomo è importante. E dipenderà dalla sua personale fermezza nella lotta, dalla sua personale disponibilità al sacrificio, se non si renderà colpevole del ripetersi di eccidi di intere masse di uomini. E non si sottrarrà neppure al sacrificio della sua vita stessa. Cosa sarebbe, infatti, questa vita se il suo valore non consistesse nella possibilità di farsi dono per qualcos'altro?
     Proprio nei lager si è palesata l'essenziale trascendenza della vita, il suo 'intenzionale' andare oltre se stessa. Infatti, anche se i più si interrogavano sulla loro sopravvivenza, altrimenti il loro dolore non avrebbe avuto senso, c'era sempre qualche altro il cui interrogativo suonava diversamente: questo soffrire, questo morire, hanno un senso? In caso contrario anche la sopravvivenza non ne avrebbe avuto. Infatti, una vita che dipendesse dalla benevolenza del caso, il caso cioè di "farcela" o meno, non sarebbe significativa né degna di essere vissuta, anche se si riesce a cavarsela. Dietro l'apparente mancanza di senso della sofferenza e del sacrificio nei lager si rivelò, dunque, una pienezza di senso così incondizionata da comprendere anche il significato del dolore, del sacrificio e della morte.

1.4. La propaganda del dialogo
     Abbiamo parlato del singolo da cui tutto dipende. Come tale egli si sottrae a qualsivoglia organizzazione. Eppure sottili ponti conducono da una parte all'altra, su di essi si effettuano dei passaggi, su di essi si muove lo spirito dell'epoca, che è lo spirito del futuro. E sono stati questi ponti a condurci fin qui, da diversi paesi. In tal modo i veri uomini si ritrovano insieme al di là di ogni confine. Ed è desiderabile che l'uomo, se è vero che oggi è "politicizzato", lo sia non soltanto nel campo della politica partitica, ma in una prospettiva cosmopolitica. E ciò è tanto più importante in quanto si constata che l'umanità si sta ritirando dalla vita pubblica e politica nella vita privata. La repulsione nei confronti della politica si impadronisce degli uomini per bene, così come si tende a relegare con un senso di pudore la propria onestà all'interno di una ristretta cerchia di persone. In un'epoca in cui la parola "idealista" è divenuta quasi una parolaccia, l'uomo tende a ritirarsi dentro le quattro mura della sua bontà. E non ci stupiamo di incontrare il tipo del giovane trafficante che, senza scrupoli sociali, si dedica al mercato nero per migliorare la vita dei suoi, e non solo la propria.
     La repulsione per la politica, tuttavia, trova il suo motivo principale nel fatto che l'elemento dominante, costituito dai programmi di partito e dalle tattiche di lotta, è interamente soggetto all'utilitarismo, cioè al punto di vista del fine che giustifica i mezzi; un punto di vista che si manifesta sia nell'opportunismo dei leader di partito sia nel congiunturismo dei tesserati.
     La repulsione nei confronti dell'ingranaggio politico-partitico in molti uomini per bene è dovuta soprattutto all'indicibile noia della propaganda, che negli ultimi anni è stata ampiamente discreditata. Ciò vuol dire che resta solo la propaganda dell'esempio, ed è racchiusa nelle mani dell'educatore. Resta però un'altra propaganda, quella del dialogo, del dialogo da uomo a uomo, in camera caritatis, del dialogo tra sacerdote e fedele, ma anche - di fronte al "passaggio dell'umanità occidentale dal pastore di anime allo psicoterapeuta" (Viktor E. von Gebsattel) - del dialogo tra lo psichiatra ed il suo paziente.

2. La situazione sociale
     Abbiamo parlato dell'autocoscienza esistenziale dell'uomo circa il suo proprio essere, della libertà nei confronti delle dipendenze apparentemente totali stipulate dal naturalismo, dalle leggi biologiche, sociologiche, fisiologiche del "tipo", a cui appartiene a seconda dei casi. E continuando a parlare di questa essenziale libertà dell'uomo, vogliamo porla a confronto con il suo contrario dialettico, la fatalità, intendendo con ciò quello che si oppone alla mia libertà, nel senso sia del destino dentro di me che del destino attorno a me. In questo secondo caso, il riferimento è all'aspetto materiale, inteso anche in senso lato, ossia nel senso "economico", come pure al destino esteriore, insito nella situazione sociale, e quindi come determinazione esclusiva dell'essere umano. Ci troviamo allora di fronte al problema del materialismo storico, secondo il quale le condizioni materiali (= economiche), ovvero la situazione sociale, determinano univocamente ed inequivocabilmente l'"essere" sociale dell'uomo e la sua coscienza. È dunque vero che l'ambiente (sociale) arriva ad avere un tale potere di caratterizzazione da rendere l'uomo totalmente dipendente da esso, al punto non solo da influenzarlo psicologicamente, ma addirittura da dominarlo?
     Prendiamo le trasformazioni caratteriali che Utitz ha creduto di osservare in persone che sono state a lungo prigioniere in campi di concentramento. Si trattava, come egli ha spiegato, di uno spostamento della struttura del carattere sul versante del disturbo schizoide della personalità (Kretschmer): i prigionieri divenivano in misura crescente irritabili e apatici. Ma si è constatato che ogni singolo prigioniero conservava la libertà interiore di resistere a queste deformazioni caratteriali soltanto apparentemente necessarie e dovute a fattori esterni, poiché c'erano altri prigionieri che riuscivano a contenere la loro irascibilità e a superare la loro apatia.
     Una tale libertà interiore, nonostante le influenze apparentemente schiaccianti da parte dell'ambiente, appartiene all'uomo fino all'ultimo respiro. E persino quando si riuscì a togliergli tutto, il prigioniero del Lager la conservò. Qualunque destino sopraggiunga non si può affatto perdere la libertà di porsi di fronte ad esso in un modo o nell'altro. E vi fu un "così o altrimenti" anche nei lager. Ed a coloro che, essendo vissuti in essi, hanno interpretato in modo diverso le reazioni psicologiche alla detenzione, sostenendo, sulla scia della psicoanalisi di Freud, che la prigionia e la vita nel lager portarono con sé una "regressione", ossia un'involuzione a forme più primitive dell'impulsività, farei notare che vi furono sempre singoli casi che hanno dimostrato che l'uomo fu capace di sottrarsi a questo sviluppo caratteriale apparentemente inevitabile; e ci sono stati sufficienti esempi che hanno indicato come l'identica esperienza della situazione del Lager non portò ad una regressione, ma ad un progresso, in ambito morale, verso un procedere interiore evolutivo più elevato, forse proprio nello spirito di quella frase di Hölderlin, che dice: "Quando m'imbatto nella mia cattiva sorte, allora mi elevo".

2.1. Marxismo e coscienza di classe
     Ma non vogliamo fare un torto al marxismo, affermando che per esso le condizioni esterne, economiche e sociali, determinano in forma chiara ed esclusiva l'uomo e la sua consapevolezza. Chi sostiene ciò non è un marxista vero e proprio, ma un marxista di bassa lega. Infatti, la dottrina marxista ammette che l'interdipendenza tra essere sociale e coscienza dell'uomo non è univoca, ma vi è anche un riflesso della coscienza sull'essere sociale. Che la condizione di classe determini inequivocabilmente la coscienza di classe è, dunque, soltanto metà della verità marxista. Ed è assolutamente di stampo marxista aggiungere, viceversa, che la coscienza di classe influisce sulla condizione sociale, ovvero sullo sviluppo politico. Ma, se da parte marxista si dovesse ribadire che l'uomo dipende fatalmente in modo chiaro ed inequivocabile dal substrato socio-economico, basterebbe chiedere ad un qualsiasi marxista con quale diritto egli parli di una "educazione alla coscienza di classe". L'educazione, infatti, implica sempre la libertà di trasformarsi e di "prendere in mano" il proprio destino, compreso quello sociale(1). Ciò vuol dire che la libertà viene ammessa anche dal socialismo, come pure dal marxismo, come mezzo per la lotta politica. E qualora ci chiedessimo se la libertà non venga ammessa implicitamente anche nel fine politico ultimo del socialismo, troveremmo subito che essa è senz'altro contenuta nell'ideale di una comunità, la cui realizzazione rappresenta appunto il senso di tutta la politica socialista.

(1) Non dimentichiamo dunque il fattore sociale, nemmeno in rapporto all'insorgere delle nevrosi. Ma lo psicoterapeuta in quanto tale non può fare la rivoluzione. Egli può solo influenzare l'atteggiamento del paziente verso il suo destino sociale. Una trasformazione attiverà il paziente non solo nella sua vita personale, ma anche nel suo atteggiamento politico.

 

2.2. Il senso della comunità
     È naturale che un tale concetto di comunità è ben lungi da quella concezione, che si potrebbe definire come "zoologia politica". Del resto, basta prendere questa parola alla lettera per capire subito che con essa s'intende l'immagine dell'uomo come un puro "zoón politikón", la cui società sarebbe puramente creaturale, zoologica. Le cose, per fortuna, stanno diversamente: ogni comunità veramente umana comprende una libera adesione ad essa. L'uomo non è semplicemente votato alla comunità e da essa dominato, come succede per l'animale: l'uomo si decide di volta in volta per la comunità! E poiché in questa decisione si nasconde il fattore libertà, tra libertà dell'uomo e comunità umana vi è un rapporto di reciproco consolidamento.
     A tale concezione della comunità umana, fondata sulla libertà, si sottrae quel totalitarismo della "comunità" che non intende in realtà una vera comunità, ma una pura collettività. L'annosa questione se la priorità vada all'individuo o alla comunità è veramente puberale, e forse viene sollevata unicamente perché, a quanto pare, anche l'umanità è in piena fase puberale. Noi, invece, siamo del parere che, oltre al rapporto di reciproco consolidamento tra libertà e comunità, vi è un effettivo rapporto dialettico tra individuo e comunità che possiamo così formulare: solo la comunità garantisce il significato dell'individualità degli individui e solo la tutela dell'individualità degli individui garantisce il senso della comunità. È questo, e solo questo, a distinguere la comunità dalla collettività o dalla massa. Nella collettività, infatti, l'uomo non soltanto è un non-individuo, ma è anche dis-umano e scompare del tutto come uomo, avendo "senso" solo come uno dei tanti elementi di produzione. Ciò ha portato, e lo si è ben visto, all'eutanasia nello stato nazionalsocialista, in cui la vita non più produttiva venne considerata per principio "indegna di essere vissuta" e, in quanto tale, da annientare. Tutto ciò, invece, che vi è di umano a livello di valori, tutto quello che rende l'uomo prezioso al di là della sua produttività e rende la sua esistenza degna di essere vissuta, venne completamente trascurato.
     Abbiamo così rilevato che la libertà umana è sempre presupposta, sia come mezzo che come fine ultimo, anche da un marxismo ben inteso. In altre parole, il socialismo non potrà mai far a meno della libertà, né come socialismo militans né come socialismo triumphans. E procedendo ad approfondire il problema del materialismo storico abbiamo verificato, grazie alla scoperta del fattore libertà, la sua svolta verso il socialismo personale, che è una forma politica del tutto compatibile con contenuti cristiani.

3. Il destino interiore
     E passiamo ora al punto successivo, nel quale non dobbiamo confrontare la libertà umana con ciò che è destinato "attorno a noi", ma con quel che risulta (apparentemente) destinato in noi stessi, ossia il destino interiore che viene rappresentato in primo luogo da quel che comunemente definiamo inclinazione. E ciò facendo, dopo aver illuminato criticamente il sociologismo, finiamo nel bel mezzo della critica al biologismo. Le inclinazioni, infatti, rappresentano le disposizioni biologiche, sia nel senso di ciò che l'uomo "percepisce" come disposizioni familiari, sia nel senso delle disposizioni nazionali, ovvero delle tendenze caratteriali. In proposito va sottolineato che tutte le inclinazioni nell'uomo sono in effetti "destinati" e, come tali, si sottraggono a priori alla sua libertà e alla sua responsabilità, pur essendo ambivalenti o assolutamente prive di un valore preciso. Si tratta di pure possibilità, la cui realizzazione avviene soltanto con una sorta di decisione personale. E soltanto la realizzazione delle possibilità interiori nell'individuo e attraverso lui rende le disposizioni, originariamente e sostanzialmente neutrali, un valore o un disvalore, una virtù o un vizio. Non intendo ovviamente sostenere che unicamente dall'uomo come singolo individuo dipende ciò che egli fa del suo essere prussiano, che ha assorbito come destino, se egli cioè è un "tipico prussiano", ligio al dovere, pressoché invaso dallo spirito di un rigorismo etico kantiano, o se, invece, è un automa altrettanto "tipico prussiano". Di ciò, naturalmente, egli porta tutta la responsabilità, godendo la piena libertà. Il suo essere prussiano, in quanto tale, invece, non gli può essere imputato né come merito né come colpa, e tanto meno si può imputare ad altri prussiani ciò che hanno fatto del loro essere prussiani. Ed eccoci al cuore del problema della colpa collettiva, in cui vanno ben distinti tre aspetti. Infatti in tre sensi si può parlare di "colpa collettiva", anche se nell'uso corrente il termine viene solo raramente usato in uno di essi. Si tratta di tre forme, in cui solamente la colpa o la responsabilità può davvero essere collettiva.

3.1. Imputabilità collettiva
     La cosiddetta colpa collettiva può innanzitutto essere intesa, ed avere anche un senso, come l'imputazione ai membri di un dato collettivo nel loro insieme delle conseguenze di qualcosa che è stato commesso dal collettivo in quanto tale. Parlare ragionevolmente di un'imputabilità collettiva di questo tipo, anche quando non tocca il singolo individuo nella sua responsabilità personale, può essere chiarito nel modo seguente: se devo sottopormi ad un'operazione all'appendice, della cui necessità non posso certamente essere ritenuto responsabile, non sono "colpevole" del fatto di essere stato colpito da un'appendicite, mentre al medico che mi opera sarò "debitore" dell'onorario e dovrò "garantirne" il pagamento. Allo stesso modo un popolo nel suo insieme, così come ogni suo singolo appartenente, se viene liberato da una tirannia e da un clima di terrorismo ne è debitore all'intervento di altri popoli e di altre nazioni che, amanti della libertà, hanno sacrificato i loro giovani sui campi di battaglia per sottrarre ad un regime oppressivo tanti innocenti che non erano in grado di farlo da sé, perché, in base alle loro asserzioni, erano troppo deboli. Quindi, anche quando personalmente non sono colpevole di azioni criminali compiute dalla nazione cui appartengo, sono co-imputato per le loro conseguenze. Ma occorrerebbe aggiungere un'osservazione a questa definizione terminologica di imputabilità collettiva (chiamata colpa collettiva per troppa superficialità): ogni singolo dovrebbe sentirsi chiamato in causa e collettivamente imputabile come ogni altro, compresa quindi la nota "vittima politica" del precedente regime di terrore.

3.2. Colpa per aver aderito ad un collettivo
     Se sono entrato a far parte di un collettivo, ad esempio di un partito, fino ad un certo punto posso essere personalmente complice di certi crimini, da esso programmaticamente compiuti. Ma, primo: non si aderisce ad una nazione..., e quindi non potrei in alcun modo essere considerato responsabile di appartenere casualmente ad una nazione che ha dichiarato una guerra criminale. Secondo: anche nel caso di adesione ad un partito e, quindi, di coinvolgimento in ciò che esso ha commesso, resta il dubbio se e fino a che punto non sia dimostrabile la presenza di una pressione e, quindi, se l'adesione di cui mi si accusa non fosse più o meno imposta, costretta, qualcosa che non rientrava del tutto né nella mia libertà né nella mia responsabilità. Nel caso singolo decidere una questione così delicata e complessa può non essere facile. Ad ogni buon conto, potrebbe arrogarsi il diritto di giudicare l'altro e di rimproverargli, ad esempio, di non essersi opposto alla pressione o alla costrizione solo chi può dimostrare di aver agito egli stesso in tal modo. Solo chi è andato personalmente in un lager, senza cedere ad alcun tipo di pressione, potrebbe condannare chi si è arreso. Chi non è stato nella stessa situazione della persona che viene incriminata oggi e se n'è stato tranquillamente seduto all'estero, fa presto a pretendere da altri l'eroismo o addirittura il martirio od a rimproverare loro debolezza o vigliaccheria.

3.3. Responsabilità collettiva
     Per dar luogo ad equivoci si può, infine, far rientrare nella colpa collettiva anche quella responsabilità collettiva secondo la quale ognuno è in qualche modo corresponsabile di ogni altro o, come si suol dire, "uno per tutti". Ma se così fosse, occorrerebbe aggiungere: "e tutti per uno", poiché, se davvero ognuno è corresponsabile di ogni altro, allora ognuno lo è di ogni altro! E qui è del tutto fuori posto qualsiasi forma di fariseismo in cui una singola nazione può cullarsi rispetto ad un'altra. Ammettiamolo, dunque: ogni uomo, così come ogni singolo popolo, "è" assolutamente "in compagnia" del male. E questa compagnia è, per esprimerci in modo musicale, un vero e proprio accompagnamento "obbligato": il male ha il dono dell'ubiquità! E avendo visto negli ultimi anni tutto ciò di cui l'uomo è capace, abbiamo anche imparato che ognuno ne è capace.
     Certamente il male non si realizza in ogni uomo; ma è insito in ognuno almeno come potenzialità; e come tale non era soltanto in ognuno, ma è e rimane in ognuno. Noi però non crediamo che il diavolo abbia incastrato una nazione intera o abbia monopolizzato un qualsivoglia partito. E chi ha ritenuto che sia stato il nazionalsocialismo ad aver creato per primo il male, si sbaglia di grosso; ciò vorrebbe dire sopravvalutarlo, in quanto non fu affatto creativo, tanto meno nel male. Il nazionalsocialismo non è stato il primo a creare il male: l'ha solo incentivato, forse come nessun altro sistema prima d'allora. Lo ha incentivato tramite una selezione negativa che esercitò, e tramite il potere del cattivo esempio "che genera il male a catena".

3.4. Spezzare la catena del male
     Dobbiamo allora ritorcere l'accusa, trasformando tutto "in verde" oppure cambiando il bruno in nero o in rosso o in rosso-bianco-rosso? Dobbiamo continuare a fare sempre lo stesso, sostituendo solo il segno distintivo?
     Conosco un giovane cui una volta fu offerta una bevanda alcolica. Nella sua goffaggine linguistica rispose: "No, grazie, sono un antisemita dell'alcool". Qualcosa del genere fa venire in mente qualche "ismo" di oggi: non si è più antisemita nel senso originario, ossia antisemita dei "semiti", ma si è "antisemita" di qualcos'altro. Con gli stessi mezzi del sistema con cui ci si vanta di combattere, si vuole combattere il sistema stesso. Ma in tal modo emerge una contraddizione interna, non dissimile da quella contenuta nella proposta di fondare l'"associazione dei nemici dell'associazionismo".
     Se prima dicevamo che solo il segno è diverso, altrettanto ragionevolmente potremmo dire che il prefisso è rimasto lo stesso, ovvero l'"anti"! Ed ecco nato un altro slogan. Eppure, dovremmo averne abbastanza di luoghi comuni. Infatti, non abbiamo visto solo ciò che si è sempre visto, ossia un uomo cadere raggiunto da un colpo. Abbiamo visto molto di più: la caduta di un intero popolo, colpito da uno slogan.
     Bisognerebbe spezzare la catena del male, non tornando a ripagare con la stessa moneta, il male con il male, ma sfruttando l'opportunità unica che viene offerta di superare il male, in modo da non eternarlo e perpetuarlo e da non attenersi all'"occhio per occhio, dente per dente". Giacché a chi cerca con questa espressione di inserire nel dibattito il Vecchio Testamento, potremmo ribattere perlomeno con altrettanta ragione citando a riprova della nostra interpretazione un altro brano dallo stesso libro: la storia di Caino. Vero è che la maggior parte degli uomini, se si chiede a che cosa sia servito il marchio sulla fronte di Caino, crede che Dio voleva stigmatizzare quel primo assassino, per attirare l'attenzione degli altri su di lui. Invece, non ci siamo proprio: proseguendo nella lettura, infatti, si viene a sapere che Caino, dopo l'assegnazione della punizione divina, obiettò che con quel segno sulla fronte sarebbe stato cacciato via e ammazzato di botte; e si scopre che il marchio gli venne inciso proprio per impedire che ciò avvenisse, perché gli uomini non gli facessero nulla di male, non uccidessero di nuovo, non rispondessero insomma all'assassinio con un altro assassinio. In effetti, l'assassinio di Caino doveva, come è espressamente scritto, esser punito ancor più dell'uccisione di Abele da parte di Caino. Così e soltanto così era da intendere, e solo così era possibile non perpetrare il fratricidio.
     Tornando alla questione originaria, ossia se e in che misura esista davvero una "responsabilità" collettiva in un senso ben determinato, senza più parlare di "colpa", potremmo giungere alla seguente formulazione: se esiste una responsabilità collettiva, essa può essere soltanto planetaria.
     Una mano non deve affatto immaginare di non essere lei ma l'altra ad essere stata colpita da un'ulcera, poiché l'intero organismo è malato. Allo stesso modo una nazione non dovrebbe esultare per il fatto che non lei ma quella germanica era caduta nella trappola del nazionalsocialismo, poiché l'umanità intera fu colpita da quel male.
     La valutazione critica delle problematiche collegate alla colpa collettiva ci conduce, allora, all'idea di una responsabilità planetaria.

4. Il fattore psicologico
     Ma non soltanto il fattore biologico, le inclinazioni, costituiscono il mio destino, qualcosa con cui la mia libertà deve confrontarsi. Nel destino rientra, oltre al fattore sociologico e a quello biologico, anche quello psicologico. Il destino psicologico in me è l'Es di Freud, che si contrappone essenzialmente all'Io e alla sua libertà. L'Es sospinge - e chi sospinge? Se ci interroghiamo sull'oggetto in senso grammaticale, la risposta della psicoanalisi è la seguente: l'Es sospinge l'Io. In tal modo, però, l'Io diventa un oggetto in senso psicologico! E lo diventa al punto che nella prospettiva psicoanalitica il suo carattere soggettivo scompare completamente. Addirittura l'Io viene colto, alla fine, come qualcosa che, di per sé e dal canto suo, viene pensato come costituito da impulsi ("impulsi dell'Io").
     A questo concetto dell'apparato psichico di stampo psicoanalitico contrapponiamo quanto segue: è ben vero che l'Es sospinge; ma ci si dimentica che l'Io vuole, poiché io decido! Ed in tale contrapposizione facciamo riferimento a ciò che intendeva dire ad esempio Jaspers quando parlava dell'essere umano come di un "essere che decide", un essere che non è semplicemente, ma decide di volta in volta ciò che è.
     Noi parliamo dell'essere umano come di un essere responsabile, e ciò sulla base della sua sostanziale libertà. Ma il rapporto tra libertà e responsabilità si manifesta nel fatto che la libertà non è solamente libertà-da, ma è anche libertà-di, e l'assunzione di responsabilità costituisce proprio "ciò per cui" l'uomo è libero. Alla psicoanalisi di Freud abbiamo allora da contrapporre un'analisi, che è un'analisi dell'essere uomo nella direzione dell'essere responsabile. Tale modo di essere dell'uomo, che trova la sua ultima ragione dichiarabile nel fenomeno dell'essere responsabile, si chiama esistenza. Ne deriva che alla psicoanalisi deve far seguito un'analisi esistenziale, un'analisi dell'esistenza umana al di là del puro essere sospinto.
     Si potrà obiettare che l'esistenza non si lascia analizzare, ma al massimo "chiarire". Ebbene, noi non intendiamo l'analisi nella prospettiva della concezione atomistica di Freud, ma nel senso in cui Kant parlò di giudizi analitici, ovvero nel far risaltare ciò che nell'essenza dell'esistenza è già contenuto implicitamente. Fino a quando analisi esistenziale volesse semplicemente dire un'interpretazione dell'uomo, del senso dell'essere uomo, tenderebbe a nient'altro che ad "interpretare" nel senso della solita interpretazione psicoanalitica dei sintomi.

4.1. La libertà
     Ma la libertà che, in quanto base dell'essenziale essere responsabile dell'uomo, viene continuamente vista e portata alla luce dall'analisi esistenziale, anche nelle modalità nevrotiche di esistere, è innanzitutto integrale: essa, infatti, è in qualche modo presente anche laddove io vengo "spinto", proprio perché mi lascio spingere! La rinuncia alla libertà ed al suo uso è anch'essa di per sé una rinuncia volontaria. Volontariamente avviene l'abdicazione dell'Io nei confronti dell'Es. In secondo luogo la libertà è indivisibile, senza compromessi. Non sembra affatto necessario che l'Io debba raggiungere dei compromessi (nel senso della dottrina psicoanalitica sulle nevrosi) con l'Es. E se la psicoanalisi, anche nella versione di C.G. Jung, sottolinea a ogni piè sospinto che l'Io (l'uomo) dovrebbe "venire ad un accordo" con l'Es (l'inconscio, compreso quello collettivo ed arcaico), l'analisi esistenziale contrappone la pretesa che l'uomo prima di tutto ritorni "in sé", che giunga alla piena consapevolezza della piena responsabilità e libertà del suo Io. In terzo luogo la libertà è aprioristica, per cui è assolutamente in grado, poiché lo è fin dal principio, di resistere a quelle che vengono chiamate superpotenti "forze demoniache" dell'istintività inconscia, poiché l'istintività è fin dall'inizio sempre formata, forgiata a partire dall'Io. Ma ciò è possibile perché l'Io non soccombe mai alla causalità della dinamica degli istinti.
     Gli atti decisionali dell'Io sono spirituali e non psichici, esistenziali(2) e non creaturali. Si tratta, a seconda dei casi, di qualcosa di creativo, di un atto, ma non di un fatto, per cui l'interrogativo sulla causa, sulla determinazione causale a partire dall'Es, è del tutto infondato. Se qualcuno dunque chiede come sia possibile che l'Io possa avere in ogni caso la meglio sui "demoni", vuol dire che non riconosce l'essenza della libertà dell'Io come a priori, in quanto esistenziale. E nel suo fraintendimento assomiglierebbe ad un uomo che non è in grado di capire come un giudice decrepito abbia il "potere" di giudicare un atletico imputato: chi si pone questa domanda non riconosce la fondamentale differenza tra la forza bruta e il "potere" giudiziario.

(2) L'esistenziale, ed in questo senso lo spirituale, non va però identificato con la consapevolezza. Tuttavia proprio la decisione esistenziale - si pensi solo alla coscienza! - è spesso il compimento assolutamente non riflesso di un atto.

 

4.2. Psicologismo rozzo
     Ma la psicoanalisi, in fin dei conti, è solo un caso particolare di psicologismo rozzo. Lo psicologismo è caratterizzato dal fatto di proiettare i fenomeni mentali fuori dal loro proprio "spazio" sul piano puramente psicologico. In questa proiezione essi diventano ambigui e, senza riferimento al contenuto mentale, tenendo conto soltanto dell'atto psichico, non si riesce a stabilire se corrispondono ad un'operazione culturale o ad un sintomo psicologico. Come un cerchio su un piano è ambiguo, in quanto può significare la proiezione dallo spazio sia di un cerchio bidimensionale che di un cilindro tridimensionale, di una sfera o di un cono, allo stesso modo all'interno del piano psicologico non è possibile distinguere un Dostojewski da un qualunque altro epilettico, o le visioni di una Bernadette da altre allucinazioni. La proiezione psicologistica depaupera la nostra osservazione di un'intera dimensione, quella spirituale. La pura e semplice oggettivazione dell'essere umano ci fa perdere la dimensione, in cui esso "è"! Infatti, nell'istante in cui rendiamo l'Io un semplice oggetto, ne perdiamo l'effettivo carattere. Questa è anche la contraddizione interna al behaviorismo: ridurre la libera condotta dell'uomo ad una semplice circostanza di fatto!
     Ogni oggettivazione dell'essere umano, non dimentichiamolo, riguarda soltanto l'essere in un dato modo, ma non l'esser-ci. L'esser-ci (il Da-sein) non coincide con l'essere in un dato modo (il So-sein), non è l'essere-così ma il "poter diventare altro". L'esser-ci va sempre oltre il proprio essere-così; l'esistenza umana non si conclude mai nella propria fatticità. Essere uomo non vuol dire essere fattivamente, ma essere facoltativamente! La psicoanalisi, allora, con il suo atteggiamento psicologistico ed oggettivante, è destinata a perdere di vista l'esistenza umana; osservando solo il fattore psicologico nella sua fattualità, rinuncia a guardare al fattore esistenziale nella sua possibilità. Noi, invece, abbiamo tentato di indicare quel cammino necessario a focalizzare la nostra immagine dell'uomo sulla sua esistenza come vero modo di essere, realizzando così un cammino dalla psicoanalisi all'analisi esistenziale
(3).

(3) L'analisi esistenziale non è un sostituto della psicoterapia, ma la sua necessaria integrazione. Le scoperte di Freud conservano la loro validità. Ad esempio, la sua teoria sui sogni rimane valida; a dire il vero non sono io a sognare, ma è l'Es che sogna in me, e quindi all'interno della dinamica dell'Es vale la teoria psicoanalitica. Del resto, sarebbe da rilevare che l'effetto terapeutico nella psicoterapia, come anche nell'ambito della psichiatria, è ancora ben lungi dal comprovare la correttezza delle premesse teoriche. La psicoanalisi però è efficace, probabilmente, per il fatto che in fin dei conti contiene comunque un tacito appello all'Io libero e responsabile, che presuppone. Anche l'insulinoshockterapia contro la schizofrenia è partita da insostenibili premesse teoriche, eppure si è dimostrata enormemente efficace.

 

4.3. Dalla psicoanalisi all'analisi esistenziale
     Ex definitione
l'analisi esistenziale mira ad un essere-cosciente dell'avere-responsabilità. Ma l'uomo ha responsabilità nei confronti della propria finitezza la quale è data soprattutto dalla temporalità dell'esistenza, nella quale ci imbattiamo innanzitutto sotto la forma della caducità. Di essa, però, sappiamo che costituisce principalmente la responsabilità dell'uomo. Se l'uomo fosse immortale, potrebbe a ragione lasciarsi scappare tutte le occasioni di realizzare dei valori, poiché riterrebbe poco importante fare qualcosa adesso, potendolo fare in un qualunque momento successivo. Soltanto grazie alla finitezza temporale del nostro esistere è possibile appellarsi alla responsabilità umana nella sua pienezza, come ben si esprime il seguente imperativo categorico: agisci come se vivessi per la seconda volta e la prima volta avessi sbagliato tutto, proprio come sei sul punto di fare.
     Ma non si tratta tanto della morte e di ciò che l'uomo ha dinanzi a sé, quanto di ciò che lascia dietro di sé. In fondo, è in gioco la responsabilità nei confronti della transitorietà, giacché la transitorietà non potrebbe bloccare la gioia della responsabilità. Al contrario, transitorie sono soltanto le possibilità di realizzare dei valori; nel momento in cui li realizziamo li salviamo nella realtà, nella realtà dell'essere-passato! Nel passato essi sono "assunti" proprio nel doppio senso di Hegel, e quindi anche "conservati". Giacché essere-stato è forse la forma più sicura di essere. Ciò che è passato non lo si può più togliere dal mondo; ed appartiene alla nostra responsabilità la decisione di immetterlo nel mondo(4).

(4) Cfr. V. E. Frankl, Zeit und Verantwortung, Franz Deuticke, Wien, 1947, pp. 19-28.

 

5. La porta verso la trascendenza
     Avendo definito la responsabilità come il "per-che-cosa" della libertà, nasce la domanda sul "dinanzi-a-chi" si è responsabili. Si tratta, evidentemente, della tipica "domanda finale", che tocca le questioni ultime. Ed a tale domanda l'analisi esistenziale deve restare debitrice della risposta, poiché l'interrogativo rimane aperto e viene tenuto aperto come la porta verso la trascendenza. Infatti, il compito di un'analisi esistenziale, come metodo squisitamente psicoterapeutico, è solo quello di allestire la stanza dell'immanenza, senza che la porta verso la trascendenza venga bloccata. Nella trascendenza vi è l'assoluto, e l'assoluto rimane nella trascendenza. In nessun caso il trascendente si trova in una dimensione in cui l'analisi esistenziale oserebbe avventurarsi. Addirittura è possibile che l'Assoluto non sia in nessuna dimensione, ma costituisca lo stesso sistema di coordinate...
     Eppure anche in un'analisi esistenziale che, stando al suo compito, non può osare di avvicinarsi all'assoluto in quanto tale, deve essere importante fare almeno una cosa: aver cura che il relativo resti relativizzato. Infatti, è probabile che una qualsiasi prospettiva puramente immanente, che non acquista coscienza del suo confinare con il trascendente, operi delle distorsioni. E se la teologia tempo addietro è stata tacciata di antropomorfismo, non vogliamo arrivare al punto di accusare l'antropologia di teomorfismo; non vogliamo cioè che nella nostra concezione dell'uomo, dopo avere relativizzato tutto quanto risulta destinato in senso biologico, psicologico e sociologico, si collochi la libertà in maniera assolutistica dinanzi a ogni tipo di destino! Ciò vuol dire che, dopo aver sventato il pericolo del biologismo, dello psicologismo e del sociologismo, resta pur sempre la minaccia di un ultimo pericolo: il pericolo di un antropologismo.
     
L'analisi esistenziale resta dunque debitrice della risposta all'ultima domanda, poiché il luogo in cui essa è in grado di condurre l'uomo non è l'ultima fermata. Ciononostante, partendo da questa tappa è possibile ottenere "l'accesso diretto" in direzione della trascendenza. Infatti, tale fermata si trova "sulla strada" verso l'assoluto, quell'assoluto che viene colto soltanto nel vissuto religioso.

5.1. La dimensione religiosa
     Quel che ci interessa è dimostrare che non vi può essere alcun contrasto tra l'esperire e l'agire responsabile dell'uomo non religioso e quello dell'uomo religioso, poiché la dimensione religiosa può, a seconda dei casi, stare in un rapporto supplementare(5). Lo si vede bene da come entrambi vivono l'esperienza del loro esistere: mentre l'uomo non religioso la vive come puro compito e, quindi, come appello alla sua responsabilità, quello religioso, in forma appunto supplementare, vive l'esperienza di quell'istanza che stabilisce il compito, percepito come missione divina.
     Comunque anche "nello spazio dell'immanenza", con il quale l'analisi esistenziale ha direttamente a che fare, vi è qualcosa di simile al caso limite di un "dinanzi a che cosa" della responsabilità: la coscienza. La coscienza, infatti, rimanda oltre se stessa e a partire dall'immanenza e ciò si vede chiaramente non appena la si coglie come una sorta d'istinto morale. Se, ad esempio, mi assumo l'incarico di produrre sacchetti di plastica per imballare della merce, avrò bisogno di una certa dose d'intelligenza per farlo, che è comunque talmente limitata da permettermi di affidare questo compito anche ad un idiota, ricoverato in un manicomio, tenendolo così occupato a scopo terapeutico. Se, invece, ho l'incarico di costruire una macchina che produca sacchetti di plastica, avrò bisogno di un livello di intelligenza notevolmente superiore. Lo stesso può dirsi della cosiddetta saggezza degli istinti: esistono dei coleotteri le cui femmine tagliano pezzi di foglie in un certo modo (seguendo una curva "irrazionale", che è un rompicapo persino per i matematici stessi) e poi li arrotolano in sacchetti, in cui depongono al sicuro le loro uova. Se sorprende notare come questo istinto opera in maniera così "saggia", quanto ineguagliabilmente superiore dev'essere quella saggezza che ha creato un tale istinto!

(5) Sarebbe importante facilitare la relazione tra gli uomini religiosi e quelli non religiosi accentuando il rapporto di integrazione (e non di opposizione). Nelle conseguenze pratiche deve esserci un denominatore comune ed una piattaforma condivisa, così da consentire a credenti e non credenti di ritrovarsi per un'azione comune nello spazio dell'immanenza.

 

5.2. La parabola dello Spettatore
     Vediamo dunque come l'istinto, compreso quello morale, ossia la coscienza, rimandi oltre se stessa e, a partire dall'immanenza, indichi la trascendenza. Potremmo anche dire che nello spazio dell'immanenza, che è il luogo dell'analisi esistenziale, vi è sulla parete una lavagna con la scritta "uscita" ed una freccia che indica la porta di accesso alla trascendenza.
     Parlare dell'uomo religioso come di uno che fa un'esperienza in più rispetto al non religioso, poiché vive anche l'esperienza del committente, non vuol dire comunque assumere un atteggiamento di arroganza, quanto piuttosto un atteggiamento di tolleranza. Del resto, anche la disposizione naturale del vedente nei confronti del non vedente non è di disprezzo, ma di compassione e di aiuto.
     Ma paragonare l'uomo religioso al vedente è un errore. E quanto ciò sia sbagliato può chiarirlo la seguente parabola: se è vero che gli uomini nella vita sono come degli attori su un palcoscenico, va ricordato che l'attore, accecato dalle luci della ribalta, al posto della platea vede solo un grande buco nero. Non riesce mai a vedere "davanti a chi" sta recitando. Non succede forse lo stesso all'uomo? Anch'egli, accecato dall'"apparenza" della quotidianità, non vede "dinanzi a chi" egli "porta" la responsabilità della sua esistenza (come l'attore svolge il suo ruolo): non vede davanti a chi agisce! Eppure vi sono degli uomini i quali ritengono che, proprio laddove non vediamo "niente", proprio laggiù siede il grande Spettatore che sta a guardare, immobile. E sono loro a gridarci: attenzione, siete davanti al sipario aperto!