La problematica spirituale della psicoterapia
(Zur
geistigen Problematik der Psychotherapie)
Viktor
E. Frankl
Pubblicato
in Zentralblatt für Psychotherapie und ihre Grenzgebiete, 10(1938),
pp. 33-45.
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Nell'accingerci
a spiegare la problematica spirituale della psicoterapia è consigliabile,
per prima cosa, considerare le attuali correnti psicoterapeutiche da
un punto di vista storico-scientifico, per vedere quali siano le tendenze
di sviluppo storico-spirituale da osservare. Quali grandi rappresentanti
dal punto di vista storico troviamo i sistemi della psicoanalisi e della
psicologia individuale. Se ci chiediamo, però, quale sia la scoperta
più significativa circa l'evento nevrotico che queste due scuole di
pensiero hanno effettuato possiamo dire così: per lo psicoanalista il
momento essenziale nell'insorgenza del sintomo nevrotico è collocato
nella rimozione, nel rendere cioè inconsci determinati contenuti di
coscienza; di conseguenza, il principio terapeutico della psicoanalisi
consiste nel lasciar divenire conscio, eliminando le rimozioni. Elemento
caratterizzante per tale modo di procedere del metodo psicoanalitico
può benissimo essere l'enunciazione di Freud, secondo cui dove c'è l'Es
deve subentrare l'Io - un evento che egli paragona al proseguimento
dello Zuidersee. Nella psicologia individuale, invece, si può notare
che, coerentemente con il concetto fondamentale di adattamento stabilito
da Adler, il sintomo nevrotico viene interpretato come un tentativo
da parte dell'individuo di scaricarsi della responsabilità. Quindi,
mentre per la concezione psicoanalitica nell'evento nevrotico l'Io come
essere-cosciente viene in un certo qual senso limitato, per la psicologia
individuale subentra una riduzione dell'essere-responsabile.
Una riflessione generale sui principi
più profondi dell'esistenza umana può tradursi nella seguente formula
antropologica: essere-io vuol dire essere-cosciente ed essere-responsabile.
Alla luce di tale formula antropologica
si può rilevare che la psicoanalisi e la psicologia individuale prendono
in considerazione, ognuna nel proprio campo visivo, un aspetto dell'esistenza
umana, da cui estrapolare un'interpretazione dell'affezione nevrotica.
Questo, non di meno, spiega allo stesso tempo che entrambi i sistemi
non sono stati elaborati casualmente, ma che, con una corrispondenza
scientifico-teoretica, partono da una necessità ontologica e, sotto
questo aspetto, la loro unilateralità e la loro antiteticità rappresentano
degli effettivi completamenti.
Ma il reale completamento reciproco riguarda
sia i supposti punti di partenza antropologici delle due concezioni,
che il metodo su cui si muovono nella loro visione fondamentale della
vita psichica. Entrambe le dottrine si rendono infatti colpevoli di
una limitazione della realtà psichica: la psicoanalisi dal punto di
vista materiale, poiché vede come possibile contenuto degli sforzi psichici,
in ultima istanza, sempre e solo la libido; la psicologia individuale
dal punto di vista formale, poiché riconosce aspirazioni di contenuto
diverso ma, nella misura in cui sono presenti forme nevrotiche, le vede
in qualche modo come non genuine, come mezzo per un fine, secondo il
già citato concetto di adattamento. Di fatto avviene che nell'accadimento
psichico in generale, ma anche in quello nevrotico, sono importanti
non solo l'impulso libidinoso ma anche altri impulsi, mentre - in contrapposizione
alla concezione della psicologia individuale - i sintomi nevrotici vengono
considerati non solo mezzi per un fine, ma anche (per lo meno quelli
primari) espressione immediata. E quindi anche sotto questo aspetto
la psicoanalisi e la psicologia individuale, pur nelle loro fondamentali
prospettive psicologiche unilaterali che portano all'esagerazione, alla
fin fine rappresentano solo due necessari completamenti.
Assodato il punto di partenza antropologico
e metodologico e passando alla visione del mondo e della vita che entrambe
le dottrine nella loro pratica contengono in modo conscio o inconscio,
ma sempre e comunque implicito, è possibile fare le seguenti affermazioni:
la tesi principale del trattamento psicoanalitico è l'instaurazione
di un compromesso tra le esigenze dell'inconscio, da una parte, e le
richieste o il rifiuto della realtà, dall'altra, e di conseguenza l'adattamento
dell'impulsività alla realtà. A sua volta, la psicologia individuale
ha, come obiettivo terapeutico, quello di giungere, al di là di qualsiasi
adattamento dell'individuo, a una raffigurazione coraggiosa della realtà
da parte dell'Io. (Per la prima volta, nel confronto tra i due sistemi,
non incontriamo una contrapposizione complementare ma una progressiva
gradualità!). Chiedendoci allora se, oltre l'adattamento e l'organizzazione,
vi sia, per così dire, un'ulteriore dimensione in cui la persona possa
inoltrarsi se vogliamo guarirla, oppure, qual sia l'ultima categoria
da includere nel nostro quadro della persona umana, se si vuole rendere
giustizia alla sua realtà psico-spirituale, giungiamo all'idea che questa
categoria può essere quella della realizzazione, del compimento di un
senso. Da notare, in proposito, che la realizzazione dell'uomo si estende
essenzialmente oltre la formazione della sua vita, nel senso che, mentre
la formazione è una realizzazione estensiva, la ricerca e la realizzazione
di un senso rappresenta una grandezza vettoriale. La ricerca di senso
ha un orientamento, è orientata verso quella possibilità di valore riservata
o, per meglio dire, assegnata a ogni singola persona umana e che deve
essere realizzata; è diretta verso quei valori che ogni singolo uomo
ha da realizzare nell'unicità della propria esistenza e nella singolarità
del proprio spazio vitale. Se la psicoanalisi si basa, quindi, sul passato
e sulla ricerca delle cause e la psicologia individuale sul futuro e
sulla ricerca di un fine, una psicoterapia di questo genere ricorre
essenzialmente a qualcosa di atemporale-sovratemporale, ad un assoluto
nel senso di un valore oggettivo. Detto altrimenti, se la psicologia
individuale contrappone al puro dovere obbligatorio della concezione
psicoanalitica il volere, ossia la formazione coraggiosa, come è stato
detto prima, dobbiamo ancora chiederci che ne è della categoria del
dovere morale. In entrambe le visioni, allora, verrebbe trascurato il
complesso di tutte quelle aspirazioni che, variando il famoso luogo
comune della psicologia individuale, potrebbe essere definito come "aspirazione
della tensione morale", nel senso di un'aspirazione originaria, assolutamente
autentica, verso il valore morale.
1. La psicologia dell'altezza
Fritz Kuenkel si oppone decisamente
a tali pretese di diritto della psicoterapia quando contrappone all'attuale
"scienza medica dell'anima" il postulato di una "guarigione medica dell'anima".
E ci viene allora in mente la definizione di Max Scheler, secondo cui
la salute dell'uomo è fondata sulla realizzazione dei suoi valori più
alti. Una volta I. H. Schultz parlò di "livelli di valore esistenziale
più elevati" e disse: "Chi si trova a quei livelli può soffrire senza
ammalarsi, senza cadere nella nevrosi". Ma dov'è quella psicologia interessata
ad un'azione terapeutica che include nel suo quadro generale di riferimento
questi strati "più elevati" dell'esistenza umana e che, diversamente
dalla "psicologia del profondo", merita il nome di "psicologia dell'altezza"?
In altre parole, dov'è quella teoria di accadimenti semplicemente psichici
e in particolare nevrotici che, andando al di là dell'ambito puramente
psichico, raggiunge l'intera esistenza umana in tutte le sue profondità
e in tutte le sue altezza, e che potrebbe essere denominata anali esistenziale?
Tali riflessioni non sono affatto nuove:
è importante però seguirle con correttezza metodologica per mantenere
nelle loro conseguenze pratiche quella visione della vita e del mondo
senza di cui un atteggiamento analitico-esistenziale nei confronti del
paziente sarebbe impensabile. Hanno naturalmente un compito facile quegli
psicoterapeuti che, tramite una loro unione personale nella pratica
psicoterapeutica, sono in grado di essere contemporaneamente medici
e maestri di vita, ponendo ad esempio la loro attività psicoterapeutica
consapevolmente a servizio delle loro convinzioni cattoliche o delle
loro valutazioni politiche. Proprio allora si evidenzia lo specifico
pericolo insito in ogni psicoterapia che consapevolmente valuta, quello
cioè di superare i limiti dell'intervento puramente clinico, imponendo
al paziente, durante il trattamento, la sua visione personale della
vita e del mondo. Da lungo tempo, infatti, si sono levate voci allarmistiche
in tal senso. Uno dei leader della psicoterapia tedesca, Hans Prinzhorn,
deceduto prematuramente, pose esplicitamente la questione: "In nome
di quale istanza..." la psicoterapia, nella sua pratica clinica, può
spingersi nella valutazione? Von Weizsäcker, da parte sua, ci ricorda
che noi psicoterapeuti "non dobbiamo plasmare le persone ma dobbiamo
dar loro la possibilità di essere tali". Infine, anche Kretschmer mette
in guardia dal pericolo che il medico si trasformi in prete.
D'altra parte siamo sempre più pressati
dalle richieste di includere consciamente, nel trattamento psicoterapeutico,
una filosofia di vita e dei valori. Senza mezzi termini Gauger dice
che "la domanda sul senso da dare all'esistenza umana è la questione
centrale della psicoterapia" e definisce "la salute psichica" come "nient'altro
che la risposta giusta alla domanda di senso della vita". Per I. H.
Schultz "la nevrosi è un caso di vita senza senso", mentre C. G. Jung
caratterizza la nevrosi come "la sofferenza dell'anima che non ha trovato
il proprio senso".
2.
Una psicoterapia che esprima delle valutazioni
Con ciò vediamo chiaramente e in maniera
convincente quanto sia necessario nella psicoterapia una cosciente presa
di posizione sulla visione della vita e sui valori, mentre d'altra parte
dobbiamo chiederci se ciò sia possibile dal punto di vista di quella
correttezza filosofica e della chiara impostazione metodologica, che
abbiamo indicato come premessa. Il dilemma tra la necessità di una valutazione
e l'impossibilità di una imposizione ci pone dinanzi ad una situazione
problematica che, rifacendosi alla storica ed esemplare formula kantiana,
può essere così formulata: è possibile una psicoterapia che valuti?
E come è possibile una psicoterapia che valuti? Ciò che essenzialmente
occorre, dunque, nella situazione critica attuale della psicoterapia
sono, per dirla ancora con Kant, dei "prolegomeni ad una psicoterapia
che possa presentarsi come psicoterapia che valuti".
Per la soluzione del dilemma ci viene
in aiuto quella riflessione semplice, eppure ampia, circa il contenuto
più profondo e originale dell'esistenza umana, già presa in considerazione
nell'abbozzo che abbiamo fatto di un'analisi esistenziale. Se si parte
dal fatto che l'essere-responsabile insieme all'(ovvio) essere-conscio
costituisce l'esistenza umana, allora la responsabilità della persona
umana, considerata come concetto antropologico centrale, comporta anche
un concetto limite dal punto di vista etico, ossia un concetto che eticamente
è ancora neutrale. Se facciamo comprendere ad una persona che il suo
essere più profondo è un essere-responsabile, e in tal modo la rendiamo
consapevole del fatto che la responsabilità è un motivo portante della
sua esistenza, ciò rappresenta per lei già un carattere vincolante assoluto
rispetto ad una presa di posizione che valuti; in altre parole, la persona,
divenuta consapevole della propria responsabilità, è in un certo qual
modo costretta a valutare proprio a partire da questa responsabilità;
il suo metodo di valutazione e la scala dei valori che desidera formulare
si sottraggono all'influsso del medico. Dovremmo addirittura esigere
che, proprio per aver acquisito consapevolezza della propria responsabilità,
la persona vada avanti autonomamente verso valori e verso una loro scala
gerarchica secondo la propria individualità ("per affinità elettiva",
direbbe Eliasberg), mentre, d'altra parte, dovremmo rifiutare di esercitare
qualsiasi tipo di ingerenza su queste prese di posizione concrete, ovvero
sui singoli contenuti di valore.
Non appena, nell'ambito dell'analisi esistenziale
e grazie all'intervento dello psicoterapeuta, il paziente diventa cosciente
della sua essenziale responsabilità, dovrà cercare di risolvere le seguenti
domande fondamentali: 1) davanti a chi si sente responsabile (se, per
esempio, davanti alla propria coscienza o davanti a Dio) e 2) di che
cosa si sente responsabile, cioè a quali valori concreti si dedica,
in quale direzione trova il senso della propria vita e quali compiti
lo impegnano.
La risposta a tali domande rimane ovviamente
di stretta competenza del paziente. E quando egli, come diverse altre
persone, durante la psicoterapia ci comunica la sua ricerca di un senso
per l'esistenza, con la domanda sul senso della vita, allora occorre
prima di tutto fargli capire che in fin dei conti non è lui a porre
le domande, ma che egli è piuttosto ad essere interrogato, e che corrisponderebbe
di più allo stato originario della responsabilità della propria esistenza
se, invece di interrogarsi di continuo sul senso della vita, si sentisse
chiamato a rispondere, si sentisse come uno a cui la vita pone sempre
delle domande, come un essere collocato in mezzo ad un'infinità di compiti.
La psicologia insegna che "cogliere il senso" sta ad un livello più
elevato del "dare senso". Spetta agli psicoterapeuti, dunque, portare
il paziente a cogliere la propria esistenza nella sua peculiarità e
nella sua unicità, attivando la personali capacità di trovare un senso
autonomamente.
3.
Un compito unico
Ciò di cui abbiamo discusso finora costituisce,
per così dire, la parte generale di un'analisi esistenziale che ha ora
bisogno di essere completata dalla parte specifica con la quale verrà
presentata quella tecnica che riesce ad affrontare e risolvere le più
svariate obiezioni dei pazienti e quella parte dialettica che elimina
la ribellione dell'uomo contro il presunto fardello dell'essere-responsabile,
la fuga dalla sua libertà. In determinate circostanze sarà necessario
soprattutto avvicinare il concetto di responsabilità, intesa come tratto
fondamentale dell'essere umano, con parole che si avvicinano alla comprensione
dell'uomo semplice, con il linguaggio di tutti i giorni, possibilmente
concreto, che in alcuni casi non deve evitare di servirsi di paragoni
appropriati. Quello che segue è ovviamente il risultato di esperienze
personali in tale genere di discussioni teoriche con i pazienti, e comprende
non solo le note della prassi quotidiana, ma anche il carattere della
frammentarietà e della soggettività, come anche di ogni empiria personale.
Per consentire, quindi, all'uomo della
strada di acquistare consapevolezza della propria responsabilità, possiamo
indicargli come rimanga da solo con la sua pena personale, ma anche
con le sue molteplici possibilità di superarla. Del signor X.Y. o della
signora N.N. in tutto il cosmo ne esiste, per così dire, un solo esemplare;
ed il modo con cui riusciranno a cavarsela con la propria vita, ciò
che faranno o non faranno, è unico, irripetibile ed esclusivo. Tali
persone hanno un destino proprio, che nessuno può loro togliere, e il
compito di portarlo a termine è unico ed esclusivo. Da questa consapevolezza
del compito specifico consegue automaticamente la consapevolezza della
responsabilità rispetto ad esso, il sentimento cioè di una missione
da svolgere. Nulla riesce a rendere più forte un uomo in lotta contro
le difficoltà, oppure, se occorre, a sopportare ciò che è inevitabile,
del sentimento di avere un compito unico e di essere insostenibile nel
portarlo a termine.
Oppure guidiamo il paziente in questione
a immaginare la propria vita come un romanzo di cui è il protagonista;
e da lui dipende lo svolgersi degli eventi e la determinazione di ciò
che accadrà nei capitoli successivi. Anche in questo caso, invece dell'apparente
fardello della responsabilità che teme e da cui cerca di fuggire, si
renderà conto dell'essenziale responsabilità dell'esistenza come libertà
di decisione rispetto ad un infinito numero di possibilità di azione.
In maniera più forte, infine, possiamo far appello all'impegno personale
della propria attività, invitando il paziente ad immaginare di essere
giunto ad un punto finale della sua vita e di star scrivendo la sua
autobiografia; anzi, proprio adesso si trova al capitolo che tratta
del presente e, come per miracolo, dipende da lui apportare delle correzioni,
potendo anche determinare molto liberamente ciò che succederà dopo...
Ebbene, una simile immagine lo condurrà a vivere e ad agire secondo
il senso di responsabilità.
Perfino nell'accadimento nevrotico morboso
si può ravvisare come la responsabilità, seppure inconscia, conduce
la persona nelle profondità della sua personalità. Infatti l'esagerata
angoscia morbosa della morte di alcuni nevrotici, in ultim'analisi,
non è altro che un'angoscia della coscienza e, in un caso particolare,
riuscii a far capire ad un carcinofobico che il suo vivo e quasi eccezionale
interesse per le modalità della sua prossima morte era soltanto una
sovrastruttura per il suo disinteresse nei confronti del suo modo di
vita, per il genere di vita non conscia della responsabilità (Ed in
tal senso, a volte, la nevrosi ipocondriaca può rappresentare una dissociazione
della generale ansia di morte = ansia della coscienza riferita ad un
singolo organo).
4.
Contro-argomenti apparenti
Ma anche quando avremo condotto i nostri
pazienti a riconoscere del tutto la loro essenziale responsabilità nell'esistenza,
vi sarà ancora una quantità di apparenti controargomenti e di fughe
dalla libertà.
Sentiamo spesso affermare che la vita
è senza senso a motivo della sua finitezza temporale, e dunque in considerazione
della morte. Tale obiezione, però, può essere confutata, esponendo al
paziente in questione la seguente semplice considerazione: se la durata
della nostra esistenza fosse infinita, potremmo rimandare a ragione
e a piacere qualsiasi cosa e non farla mai per forza subito, avendo
la possibilità di rimandarla tranquillamente a domani, a dopodomani,
fra 100 anni. E' proprio l'esistenza del limite ultimo della vita, e
dunque della possibilità di agire, a obbligare ad approfittare del tempo,
senza lasciar passare inutilmente le singole occasioni che si presentano.
Di conseguenza è proprio la morte ad offrire alla vita e alla nostra
esistenza un senso veramente unico.
Ma non è solo la finitezza temporale del
nostro esistere a costituire un apparente controargomento; lo è anche
la limitatezza della persona umana in rapporto alle proprie capacità
e alle proprie inclinazioni, ovvero la realtà dell'individualità: non
siamo poliedrici ma incompleti, segnati da ciò che Simmel definisce
il "carattere frammentario della vita". Ma anche tale obiezione contro
la significatività della nostra vita può essere confutata se si presenta
l'individuazione come il principio di attribuzione di senso. A tale
proposito può venirci in aiuto un paragone tratto dalla biologia: quanto
più un essere vivente pluricellulare si trova ad uno stadio inferiore
di sviluppo biologico, tanto meno differenziate e quindi facilmente
sostituibili sono le sue singole cellule. Solo la cellula altamente
differenziata nell'unione delle cellule che sono ordinate gerarchicamente
appare relativamente insostituibile, per lo meno non indiscriminatamente
sostituibile con un altro tipo di cellula. In altre parole, questa cellula
altamente differenziata, a prezzo della sua onnipotenza, acquista importanza
e rilevanza significativa all'interno dell'insieme dell'organismo, costruito
sul principio della divisione del lavoro. Lo stesso vale per la nostra
incompletezza, ovvero per la nostra unilateralità che costituisce l'unicità
della nostra persona, la singolarità della nostra individualità. Come
in un mosaico ogni singolo tassello può essere sostituito solo da un
altro che abbia la stessa forma e lo stesso colore, così anche il singolo
all'interno di una comunità è un membro assolutamente ricco di valore
di questo insieme più elevato, e ciò grazie alle proprie doti e alle
capacità imperfette e uniche che lo caratterizzano. (In tal modo la
comunità - al di là della sua condizione emotiva - si giustifica come
qualcosa di assegnato, come un compito essenziale nell'esistenza umana).
Ci sarebbe naturalmente ancora tutta una
serie di obiezioni, che spetta al medico confutare non appena osa avventurarsi
con il paziente sul piano delle discussioni teoriche. Non appartiene
però all'ambito di tali argomentazioni sulla problematica generale della
psicoterapia e sulla fondazione di un'analisi esistenziale generale
offrire maggiori dettagli alla parte più specifica. Tornando allora
alle questioni generali, va sottolineato in termini molto chiari che
il tentativo dell'analisi esistenziale di condurre la psicoterapia fino
nei presupposti filosofici sostituisce solo raramente e in casi eccezionali
la tecnica psicoterapeutica finora usata, mentre ne rappresenta solo
un complemento, anche se in determinate circostanze molto importante.
Ma anche tale completamento non è di per sé un novum; ogni buono psicoterapeuta
nella sua pratica clinica ha già preso in considerazione, più o meno
consciamente, i punti di vista della filosofia della vita, de facto!
Ma la nostra questione è se, o fino a qual punto, ciò sia possibile
de jure! Ed occorre andare in tale direzione per indicare i limiti metodologici
di una psicoterapia "che parte dallo spirituale", evitando così il pericolo
di superarne arbitrariamente i confini.
5.
La "prima volta" della logoterapia
Per lungo tempo la visione del mondo e
della vita è stata oggetto di intervento psichiatrico al punto da cadere
nell'errore dello psicologismo, ritenendo addirittura di poter parlare
di una "psicopatologia della visione del mondo". Non si è mai pensato
invece che dedurre una visione del mondo pessimista e fatalista a partire
da un senso di inferiorità rappresenta una critica inadeguata, così
come consigliare una cura a base di arsenico per migliorare la salute
corporea ad una persona che dubita ed è angosciata per il senso della
propria vita. Ciò che occorre è una critica immanente della concezione
della vita del paziente, pronti a riprendere la discussione su basi
puramente teoriche. Non esiste, dunque, una psicoterapia della visione
del mondo, né potrebbe esisterne una a priori; è invece possibile
e talvolta, come già indicato, anche necessaria una visione del mondo
come psicoterapia. Come il superamento dello psicologismo all'interno
della filosofia ha avuto luogo attraverso la logica, così il superamento
delle deviazioni psicologistiche esistenti attualmente all'interno della
psicoterapia richiede un tipo di logoterapia, ossia l'inclusione di
contrapposizioni teoriche all'interno di un intervento psicoterapeutico,
anche se in forma neutrale, condizionata e limitata, nella forma, cioè,
di un'analisi esistenziale che parte dal fatto originario e incontestabile
della responsabilità umana e mira, né più né meno, al riconoscimento
integrale di questa realtà di fatto da parte del paziente, contribuendo
in tal modo al suo ancoraggio spirituale, dandogli un punto fermo nello
spirituale.
E' possibile che in numerosi casi un tale
genere di psicoterapia, orientata secondo l'analisi esistenziale, possa
guadagnarsi l'appellativo di terapia "non specifica", nel senso che
in determinate circostanze riuscirà ad aiutare il malato senza andare
alla ricerca delle cause concrete del suo soffrire. Noi sappiamo infatti
che esistono numerose psicoterapie non specifiche. E da più parti viene
affermato che la psicogenesi di un sintomo non deve per forza coincidere
con l'indicazione di una sua psicoterapia. Si sa, ad esempio, che certe
forme di verruche possono essere trattate senza alcun problema mediante
la suggestione; eppure nessuno oserebbe affermare che in questi casi
si tratta principalmente di una causa psichica; d'altra parte alcuni
casi di insonnia provocati da un'ansia d'attesa, e quindi condizionati
psicologicamente, potrebbero essere eliminati sin dal loro insorgere,
in statu nascendi, con la somministrazione di medicinali che riescono
a spezzare il circolo vizioso. Diversi psicoterapeuti molto esperti
sanno bene, ad esempio, che alcuni "complessi" considerati patogeni
dalla psicoanalisi rappresentano delle manifestazioni più o meno ubiquitarie,
senza per questo misconoscere che in un caso o nell'altro la cura delle
nevrosi ha avuto un esito positivo grazie ad un trattamento psicoanalitico
del sintomo. Al contrario, sono convinto che alcuni interventi di psicologia
individuale devono il loro effetto positivo non tanto alla scoperta
di veri e propri nessi quanto ad un radicale appello alla moralità del
malato, che non "tollererà" più che il medico lo qualifichi, ad esempio,
come un tiranno o un vigliacco dinanzi alla vita, ma preferirà superare
il sintomo così interpretato con l'ultimo residuo di energie.
6.
L'analisi esistenziale
Di conseguenza esiste un'incongruenza
tra la psicogenesi e l'indicazione della psicoterapia e ciò fa comprendere
e ammettere che un intervento psicoterapeutico basato sul procedimento
dell'analisi esistenziale in certi casi equivale ad un trattamento non
specifico. Talvolta si noterà anche che l'approccio dell'analisi esistenziale
alla visione del mondo e della vita, uno sforzo terapeutico dunque che
"parte dallo spirituale", è per così dire la via più economica. Ricordo,
ad esempio, una signora che soffriva di nevrosi ossessiva (la cosiddetta
ossessione blasfema) e poco prima di trasferirsi temporaneamente all'estero
si rivolse ad un centro di consulenza. Essendo poco il tempo a disposizione
non intrapresi un trattamento vero e proprio; piuttosto ebbi con lei
una conversazione che si concentrò soprattutto sulla sua visione del
mondo e della realtà. Rimasi molto sorpreso quando la donna, poco prima
di partire, venne di nuovo al centro e riferì di essere "guarita", volendo
presumibilmente dire che non soffriva più di quei sintomi. Alla domanda
come vi fosse riuscita, rispose molto semplicemente: "Guardi, la cosa
mi è diventata indifferente - ho cominciato a considerare la vita come
un compito!". Si tratta, ovviamente, solo di un caso, di un esperimento
involontario, che getta un raggio di luce sull'importanza fondamentale
del cambio di atteggiamento teorico in determinate forme di nevrosi.
Riassumendo: in quali casi è espressamente
indicata una psicoterapia impostata secondo l'analisi esistenziale?
1. In tutti quei casi
in cui il malato ci sottopone il suo disagio circa la concezione del
mondo, la sua mancanza di consistenza spirituale e la sua ricerca di
senso della vita. Si tratterà, quindi, soprattutto di tipi intellettuali
che, per così dire, hanno trasportato i loro problemi psichici nella
sfera spirituale, ed in essa possiamo e dobbiamo seguirli pur mantenendo
un atteggiamento di neutralità, così da evitare qualsiasi imposizione
ideologica.
2. In quei casi in
cui ci dovremmo aspettare che, accostandone il nucleo spirituale, il
paziente improvvisamente sia capace di gettare fuori bordo il peso dei
sintomi nevrotici più leggeri. Si tratta, quindi, di persone che non
ci impongono delle discussioni di natura ideologica alle quali, senza
dubbio, possono far fronte da sole (una volta, mentre si intratteneva
a parlare con me dei suoi problemi ideologici, o meglio della sua concezione
della vita, un paziente mi interruppe di colpo e, sconvolto, esclamò:
"Questo è il Nervus rerum, signor dottore!").
3. In quei casi in
cui si è confrontati con una situazione insuperabile, un destino inevitabile:
persone handicappate, inferme o che, a causa di un reale disagio economico,
non risolvibile in breve tempo, sono cadute in depressione. Ad esse
occorre ricordare che in una vita consapevolmente responsabile non sempre
si riesce a realizzare creativamente dei valori o ci si autorealizza
pienamente con il piacere dell'arte o della natura, ma anche esiste
una terza categoria di valori, che vorremmo definire molto comunemente
valori di atteggiamento; essi riguardano la modalità che una persona
assume di fronte ad una situazione inevitabile, durevole o temporanea,
e che offre sempre una possibilità di realizzare dei valori: nel modo
come si affronta un destino che sia realmente tale - se cioè ci si lascia
vincere oppure si conserva un atteggiamento dignitoso - esiste ancora
un'ultima possibilità di realizzare dei valori personali (bravura, coraggio,
dignità). E' sufficiente, ad esempio, chiedere ad una persona che abbia
subìto l'amputazione di una gamba se creda davvero che il senso della
vita umana consista nel poter camminare bene, se cioè dopo l'intervento
chirurgico la sua esistenza sia talmente povera di possibilità di valori
da risultare priva di qualsiasi senso. Ebbene, egli non potrà certamente
disperarsi più di quanto credeva di dover fare. Una simile riflessione
filosofica sulla responsabilità e sulle possibilità di valore ha importanza
straordinaria nei casi in cui per necessità economiche la persona scivola
in quell'apatia e mancanza di appagamento che potrebbe essere definita
"nevrosi da disoccupazione". E sappiamo bene, sulla base dell'esperienza
clinica, avuta soprattutto con giovani disoccupati, quanto sia importante
occupare il tempo libero, purtroppo eccessivamente lungo, con contenuti
e obiettivi spirituali scelti liberamente e in modo conveniente.
La nascita della psicoterapia ha avuto
luogo quando si è cominciato ad osservare le cause psichiche sottostanti
ai sintomi fisici, scoprendone quindi la psicogenesi. E' giunto il momento
però di fare un passo ulteriore e, andando al di là della dinamica affettiva
della nevrosi, scorgere dietro la psicogenesi la persona nei suoi bisogni
spirituali e da essi partire per aiutarla, tenendo presenti le possibilità
metodologiche che si è cercato di presentare all'inizio(1).
(1) Ho avuto la possibilità di osservare, in un caso particolare, questi
tre passi di un possibile intervento terapeutico, e la cosa mi è sembrata
particolarmente istruttiva. Una paziente era ricoverata in una casa
di cura a causa di una depressione recidiva, di carattere endogeno.
Le veniva somministrato il solito medicinale a base di oppio e quindi
era sottoposta ad una cura farmacologica per sintomi di origine organica.
Quando un giorno fu colpita da una forte crisi di pianto, casualmente
ci si accorse che era in gioco anche una componente psicogena e che
quindi era presente una sovrastruttura psichica, nella misura in cui,
come si poté verificare, la paziente piangeva anche perché doveva piangere:
era dunque depressa anche a livello psicogeno, oltre ad avere una fatale
depressione endogena. Una semplice e opportuna spiegazione di tale stato
di cose le consentì di limitare il pianto e di ridurre la depressione.
In tal modo era stato effettuato il primo passo dalla terapia farmacologica,
che incide a livello fisico, ad una psicoterapia squisitamente complementare.
Una volta accostata dal medico nel suo stato di crisi psichica, la paziente
cominciò a parlare sempre più della propria concezione dell'esistenza,
manifestando così tutto il suo disagio spirituale: l'assoluta carenza
di contenuti e l'apparente mancanza di significato dell'esistenza di
una persona che si sente inibita da una fatale depressione endogena
recidiva! Presero così il via spontaneamente delle conversazioni sulla
concezione del mondo che, poco alla volta, consentirono alla paziente
di raggiungere una comprensione molto profonda della propria esistenza
come essere responsabile; in tal modo ella, invece di disperarsi per
le sue depressioni, non soltanto imparò a crearsi una vita piena di
compiti del tutto personali, nonostante le condizioni particolari in
cui si trovava, ma riuscì anche a trovare un ulteriore compito da svolgere
proprio in tali condizioni: quello di farcela con il minimo dispendio
di forze e di valori.
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