L'autotrascendenza
come fenomeno umano
In
dialogo con Abraham H. Maslow
Viktor
E. Frankl
Nel
volume Logoterapia e analisi esistenziale (Morcelliana, Brescia
2001, p. 188) Frankl così scrive: "Abraham H. Maslow è giunto
ad affermare che la volontà di significato deve essere ritenuta
come la motivazione "primaria" sottostante al comportamento umano".
Per comprendere la prospettiva nella quale Maslow ha manifestato
tale sua opinione di adesione all'impostazione teorica della logoterapia,
è sembrato opportuno offrire al lettore italiano l'articolo di
Frankl Self-Transcendence as a Human Phenomenon, in "Journal of
Humanistic Psychology", 6(1966), pp. 97-106, pubblicando di seguito
l'intervento di Maslow apparso nel medesimo fascicolo della prestigiosa
rivista americana. La traduzione italiana è opera di Eugenio Fizzotti.
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1. No all'omeostasi
Ci sono due fenomeni specificamente umani
dai quali è caratterizzata l'esistenza umana. Il primo è costituito
dalla capacità dell'auto-distanziamento (Frankl 1964; 2001, p. 213).
L'altro è la capacità dell'autotrascendenza (Frankl 1965a; 2001, p.
212). Infatti, è una caratteristica costitutiva dell'essere umano quella
di essere sempre orientato e diretto verso qualcosa che è altro da sé.
È, perciò, un vero e proprio fraintendimento quello di trattare l'uomo
come un sistema chiuso. In realtà essere uomo nel più profondo vuol
dire essere aperto al mondo, a un mondo che è ricco di altri esseri
umani da incontrare e di significati da realizzare.
Tale qualità auto-trascendente dell'esistenza
umana è ignorata e trascurata da quelle teorie motivazionali che sono
basate sul principio dell'omeostasi. Secondo tali teorie, l'uomo sarebbe
fondamentalmente interessato a mantenere o restaurare un equilibrio
interno e raggiunge tale fine con la riduzione delle tensioni. Giustamente
è stato scritto da Charlotte Bühler: "Dall'iniziale formulazione del
principio del piacere fino all'attuale versione del principio dell'omeostasi
o della riduzione di tensione, lo scopo primario di ogni attività vitale
dell'uomo fu visto nella prospettiva di un ristabilimento del suo equilibrio
interiore" (Bühler 1960, p. 484). Il principio del piacere è al servizio
del principio dell'omeostasi. Del resto, il principio della realtà è
esso stesso al servizio del principio del piacere. Secondo l'affermazione
di Freud, lo scopo del principio della realtà è assicurare il piacere,
quantunque dilazionato.
Allport si è opposto alla teoria dell'omeostasi,
dicendo che "è inadatta a rappresentare la natura del tendere del proprio,
e pone in rilievo che la caratteristica di esso è la sua resistenza
all'equilibrio: la tensione, invece di essere ridotta, viene conservata"
(Allport 1968, p. 69). Anche Maslow (1954) ha ventilato simili obiezioni,
così come Charlotte Bühler (1959), la quale ha anche affermato che "secondo
il principio freudiano dell'omeostasi, lo scopo finale era di ottenere
quella specie di appagamento che potrebbe ristabilire l'equilibrio di
un individuo, portando tutti i suoi desideri ad uno stadio di riposo.
Da tale punto di vista, tutte le creazioni culturali dell'umanità divengono
in realtà sottoprodotti dell'impulso a soddisfazioni personali" (Bühler
1964, p. 1). Ma, anche in vista di una futura ristrutturazione della
teoria psicoanalitica, ella è incerta perché, come esplicitamente afferma,
"la teoria psicoanalitica, nonostante tutti i tentativi per rinnovarla,
non può mai prescindere dalla sua ipotesi fondamentale che lo scopo
finale di ogni tensione è la soddisfazione omeostatica. La creazione
di valori e la realizzazione di qualunque cosa sono soltanto degli scopi
secondari, dovuti al prevalere sull'Es dell'Io e del Super Io, ma, ancora
una volta, al fine di una soddisfazione, in definitiva" (1965, p. 54).
Da parte sua, ella ritiene che "l'uomo viva con intenzionalità, ossia
viva guardando a uno scopo. Lo scopo è di dare un senso alla vita… L'individuo…
vuole creare dei valori". Ancora di più: "L'essere umano è primariamente,
originariamente, orientato alla creazione e, specificamente, alla creazione
di valori" (ibidem).
2.
La felicità non si insegue
Per quanto riguarda il principio del piacere,
vorrei procedere ulteriormente nella mia critica. Ritengo, infatti,
che in ultima analisi esso sia autodistruttivo. Più si tende al piacere
e meno lo si raggiunge. In altre parole, proprio la "ricerca della felicità"
ostacola il suo raggiungimento. Tale qualità autodistruttiva della ricerca
del piacere vale per molte nevrosi sessuali. L'orgasmo e la potenza
vengono meno allorché diventano oggetto intenzionale. E questo avviene
ancor di più se, e il caso è frequente, un'eccessiva intenzionalità
si unisce a un'eccessiva attenzione. L'iper-intenzione e l'iper-riflessione,
come solitamente le chiamo, facilmente creano modelli nevrotici di comportamento
(1965b; 2001, pp. 193-194).
Quanto più si cerca di ghermire il piacere,
tanto meno lo si ottiene. Ciò è dovuto al fatto che il piacere non è
mai lo scopo degli sforzi umani, ma è, e deve restare, un effetto, l'effetto
collaterale dello scopo raggiunto. Il conseguimento di uno scopo costituisce
una ragione per essere felici. E se c'è una ragione per essere felice,
non ho bisogno di preoccuparmi del piacere e della felicità, non devo
rincorrerle: esse scaturiscono automaticamente e spontaneamente.
Non è necessario, dunque, inseguire la
felicità. Ma perché non è neanche possibile cercarla? Perché nella misura
in cui la si rende l'obiettivo delle proprie motivazioni e, perciò,
l'oggetto della propria attenzione, si perde di vista la ragione della
felicità, e così essa svanisce del tutto.
3.
Effetti, non obiettivi
L'accento posto dalla psicologia freudiana
sul principio del piacere è in parallelo con l'enfasi che la psicologia
adleriana pone sul desiderio di affermazione. Tuttavia, anche tale tendenza
è autodistruttiva, perché una persona che dispiega ed esibisce uno sforzo
di autoaffermazione prima o poi verrà bandita come una che cerca unicamente
se stessa.
In ultima analisi, l'autoaffermazione
o volontà di potenza, da una parte, e il principio del piacere, o -
come è meglio esprimersi - la volontà di piacere, dall'altra, sono semplici
derivati dell'interesse primario dell'uomo, cioè della volontà di senso,
che io definisco come la tensione radicale dell'uomo a trovare e realizzare
un senso e uno scopo. Risulta che il piacere, invece di essere il fine
della tensione dell'uomo, è in realtà l'effetto della realizzazione
di un senso. La potenza, a sua volta, anziché essere la fase finale,
è in realtà il mezzo per un fine. Vivendo oltre la volontà di senso
l'uomo avrà bisogno, generalmente parlando, come prerequisito indispensabile,
di una certa quantità di potenza, ad esempio economica o finanziaria.
Ma solo se l'interesse originario a realizzare un senso viene frustrato,
allora ci si accontenta della potenza o si è preoccupati a ricercare
il piacere.
L'assunto della volontà di senso è del
tutto compatibile con le quattro tendenze primarie di Charlotte Bühler.
Poiché, secondo la sua teoria, la realizzazione è la meta finale e le
quattro tendenze primarie servono a tale scopo, quando se ne parla bisogna
intendere la realizzazione di un senso piuttosto che la realizzazione
di se stessi o autorealizzazione. L'autorealizzazione non è lo scopo
ultimo dell'uomo. Non è neanche il suo primo intento. Se resa fine a
se stessa, contraddice la caratteristica qualità autotrascendente dell'esistenza
umana. Dunque, l'autorealizzazione è, e deve rimanere, un effetto, ossia
l'effetto della realizzazione di un senso. Solo nella misura in cui
realizza un senso al di fuori di sé l'uomo può realizzare se stesso.
Se, invece, volesse mirare a se stesso piuttosto che a un senso, l'auto-attualizzazione
perderebbe immediatamente la sua giustificazione.
4.
Il senso è la guida dell'uomo adulto
Questo è perfettamente in linea con la
concezione di Maslow, poiché egli stesso ammette che "la faccenda dell'auto-attualizzazione"
può meglio essere perseguita "tramite un impegno in un lavoro importante"
(Maslow 1965, p. 136). Altrove ho approfondito in forma più elaborata
tale tematica con le conseguenze che ne derivano (Frankl 1960). Qui
vorrei solo aggiungere che l'eccessivo interesse per l'auto-attualizzazione
può essere fatto risalire alla frustrazione della volontà di senso.
Come il boomerang ritorna al cacciatore che l'ha lanciato solo se ha
fallito il bersaglio, così l'uomo ritorna su se stesso, riflette su
se stesso e tende all'auto-attualizzazione solo se ha fallito la sua
missione e la sua ricerca di senso è frustrata (Frankl 1963b).
Se noi prendiamo per garantito che la
realizzazione - più specificatamente la realizzazione di un senso -
è lo scopo finale della vita umana, può ben essere che le varie tendenze
non conducono simultaneamente a tale scopo, come avviene per le quattro
tendenze di base di Charlotte Bühler, ma solo successivamente, cioè
a dire in stadi successivi di sviluppo(1). Nello
stesso modo si potrebbe giustamente asserire, come fa Ungersma, che
il principio del piacere di Freud guida l'uomo nella sua infanzia, il
principio di potenza di Adler lo guida nell'adolescenza, mentre la volontà
di senso è il principio-guida dell'uomo adulto. "Così - egli scrive
- lo sviluppo delle tre scuole viennesi di psicoterapia può essere visto
rispecchiare lo sviluppo ontogenetico dell'individuo, dalla fanciullezza
alla maturità" (Ungersma 1961, p. 27). Comunque, la principale ragione
per stabilire tale sequenza sarebbe il fatto che negli stadi primitivi
dello sviluppo non vi è alcuna indicazione di una volontà di senso.
Ma ciò non desta più alcuna preoccupazione, dal momento che abbiamo
riconosciuto come la vita sia una forma che si sviluppa nel tempo, una
Zeitgestalt, e in quanto tale diviene qualcosa di completo solo
dopo che il corso della vita è stato concluso. Un certo fenomeno, perciò,
può formare un aspetto costitutivo dell'umanità, eppure manifestarsi
soltanto in uno stadio avanzato di sviluppo. Se consideriamo un'altra
capacità prettamente umana, quella di creare e usare simboli, non c'è
dubbio che essa sia una caratteristica dell'umanità, benché nessuno
abbia mai visto un neonato fornito di padronanza di linguaggio.
(1) Partendo
della qualità auto-distruttiva di fenomeni quali il piacere, la felicità,
l'auto-attualizzazione e le esperienze di vertice, mi torna in
mente la storia di Salomone, il quale fu invitato da Dio a formulare
un desiderio. Dopo un po' di ri-flessione, Salomone chiese di poter
divenire un giudice saggio per il suo popolo. Dio allora gli disse:
"Poiché tu non hai domandato per te né una lunga vita, né la ricchezza,
né la morte dei tuoi nemici, ma hai domandato il discernimento nel giudicare,
ecco, faccio come tu hai detto. Ti concedo un cuore saggio e intelligente:
come te non ci fu alcuno prima di te né sorgerà dopo di te. Ti concedo
anche quanto non hai domandato, cioè ricchezze e gloria come nessun
re ebbe mai" (I Re 3, 11-13).
5. La volontà di senso non è un impulso
Come conferma empirica del concetto di
volontà di senso, James C. Crumbaugh e Leonard T. Maholick (1963) affermano
che "l'esame dei dati di osservazione e degli esperimenti è favorevole
all'esistenza nell'uomo dell'impulso ipotizzato da Frankl". Questo,
comunque, ripropone la questione se sia legittimo parlare della volontà
di senso in termini di "impulso nell'uomo". Personalmente ritengo di
no. Poiché se vedessimo nella volontà di senso un impulso, l'uomo sarebbe
di nuovo visto come un essere fondamentalmente interessato al suo equilibrio
interiore. In tal caso, egli perseguirebbe un senso per soddisfare un
impulso al senso, cioè per ristabilire il suo equilibrio interiore.
Realizzerebbe allora il senso non in vista di esso, ma in vista di se
stesso.
Ma anche senza voler sottoscrivere il
principio dell'omeostasi, il concepire la volontà di senso come un impulso
non sarebbe altro che una descrizione poco accurata dell'attuale stato
di cose. Un'osservazione spregiudicata di quel che avviene nell'uomo
quando è orientato verso il senso rivelerebbe la fondamentale differenza
che esiste tra l'essere-spinto verso qualcosa da una parte e, dall'altra,
tendere di per se stesso verso tale cosa. Infatti, uno dei dati immediati
dell'esperienza di ogni giorno è costituito dal fatto che l'uomo è spinto
dagli impulsi, ma è attirato dal senso, e questo implica che spetta
a lui decidere se desideri o meno attuarlo. In tal modo, l'attuazione
del senso implica sempre una decisione da prendere.
6.
Non posso voler volere
Parlo, così, di una volontà di senso per
precludere una falsa interpretazione del concetto in termini di impulso
verso il senso. Nella terminologia non è affatto inteso alcun preconcetto
volontaristico. È vero che Rollo May (1961) ha affermato che "l'approccio
esistenziale rimette la decisione e la volontà al centro del quadro",
e poi che "gli psicoterapeuti esistenziali sono interessati ai problemi
della volontà e della decisione, in quanto centrali nel processo terapeutico:
la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata testata d'angolo".
Ma aggiungerei che dobbiamo anche preoccuparci di non ricadere nell'esaltazione
del potere della volontà e di non insegnare una sorta di volontarismo.
Non si può domandare, comandare o ordinare alla volontà. Non posso voler
volere. E provocare la volontà di senso vuol dire lasciare che il senso
risplenda da se stesso.
Quel che è vero per il piacere e la felicità
vale anche per le esperienze di vertice, secondo il concetto
di Maslow. Esse, infatti, sono, degli effetti, e tali devono rimanere.
Sono dei prodotti derivati e non vanno ricercate primariamente. Lo stesso
Maslow ritiene che "ricercare esperienze di culmine è un po' come ricercare
la felicità" (1962, p. 9). C'è di più: egli ammette che "la parola esperienze
di vertice è una generalizzazione" (1963). Comunque, questo è ancora
un frantendimento, perché il suo concetto è più che una generalizzazione.
In un certo senso è anche una iper-semplificazione. E lo stesso vale
anche per un altro concetto, quello del principio del piacere. Dopo
tutto, il piacere è lo stesso senza riguardo a ciò che lo provoca e
la felicità è la stessa senza riguardo alla ragione per la quale se
ne fa esperienza. Ancora una volta è lo stesso Maslow ad ammettere che
"le nostre profonde esperienze di felicità sono molto simili, non importa
quale sia il loro stimolo" (1962, p. 9). Per quanto riguarda le esperienze
di vertice egli formula un giudizio parallelo, in quanto a livello
di effetti sono uniformi, benché "gli stimoli siano differenti: essi
provengono dal rock-and-roll, dalle dosi di droga, dall'alcool",
eppure "le esperienze soggettive tendono a essere simili".
7.
Sempre in un contesto
È ovvio che, trattando di forme identiche
di esperienze, più che dei loro differenti contenuti, si presupponga
che la qualità autotrascendente dell'esistenza umana sia stata tagliata
fuori. Comunque, "in ogni momento - secondo Allport - la mente umana
è diretta verso qualche scopo" (1960, p. 60). Anche Spiegelberg fa riferimento
all'intenzione come alla "proprietà di un atto che tende a un oggetto"
(1960, p. 719). Egli propende verso l'affermazione di Brentano che "ogni
fenomeno fisico è caratterizzato da un riferimento a un contenuto, dalla
direzione verso un oggetto" (1924, p. 125). Ma anche Maslow è consapevole
di questa dualità dell'esperienza umana, come è dimostrato dalla sua
affermazione che "nel mondo della realtà non esiste rossore senza ragione
di arrossire" (1954, p. 60). In altri termini, arrossire significa sempre
"arrossire in un contesto" (arrossire per un motivo).
Da ciò si può vedere come sia importante
in psicologia il proiettare i fenomeni "in un contesto"; più specificamente,
proiettare i fenomeni, quali il piacere, la felicità, le esperienze
di vertice, nel contesto dei loro rispettivi oggetti, cioè con la
ragione che un uomo ha per essere felice, e la ragione
che egli ha per le esperienze di vertice e i piaceri. Tagliar
fuori gli oggetti cui si riferiscono tali esperienze porta a un impoverimento
della psicologia. Ecco perché il comportamento umano non può essere
pienamente compreso secondo l'ipotesi che l'uomo si preoccupa del piacere
e della felicità, indipendentemente dalla ragione che lo porta a sperimentarle.
Tale teoria motivazionale esclude le ragioni che sono differenti tra
loro, pur riconoscendo gli effetti che sono sempre gli stessi. In realtà
l'uomo non si preoccupa del piacere e della felicità in quanto tali,
ma di quello che causa tali effetti: il compimento di un senso personale,
oppure l'incontro con un essere umano.
Questo appare molto di più nel caso dell'infelicità.
Immaginiamo che un individuo sia in lutto per la morte di una persona
cara e gli si offrano dei tranquillanti per procurargli un certo sollievo
nella sua depressione. Possiamo essere certi, a meno che si tratti di
un'evasione nevrotica, che egli rifiuterà di mitigare il suo dolore
in quanto è convinto che questo non cambierà nulla: la persona cara
non tornerà certo in vita con i tranquillanti. In altri termini, la
ragione della depressione resterà. A meno che sia un nevrotico, a lui
interessa la ragione della sofferenza, piuttosto che la sua rimozione.
Egli sarà abbastanza realista da sapere che chiudere gli occhi dinanzi
a un evento non lo rimuove affatto. E lo scienziato - penso - dovrebbe
essere realista, almeno quanto un uomo normale, e studiare il comportamento
dell'uomo nel contesto del suo caso specifico.
8.
Essere-nel-mondo
Ripetendo una precedente affermazione,
essere-uomo vuol dire essere rivolto verso qualcosa di diverso da se
stessi. Sotto questa "alterità", per citare Allers (1962), cade anche
l'"alterità" della persona cui intenzionalmente tende il comportamento
umano. Perciò è costituito "il regno del trans-soggettivo", per riferirmi
ancora una volta ad Allers (1961). Ma è divenuto di moda attenuare questa
trans-soggettività. L'impatto con l'esistenzialismo ha posto maggiormente
l'accento sulla soggettività dell'essere umano. In realtà, questo è
fraintendere l'esistenzialismo. Coloro che pretendono di aver superato
la dicotomia tra oggetto e soggetto non si accorgono che, come un'accurata
analisi fenomenologica potrebbe dimostrare, non vi è una cognizione
fuori del campo polare di tensione, stabilito fra soggetto e oggetto.
Essi sono soliti parlare di "essere-nel-mondo". Eppure, per comprendere
esattamente tale espressione bisogna tener presente che essere-uomo
significa essere profondamente impegnato e coinvolto in una situazione,
ed essere confrontato con un mondo la cui oggettività e realtà non viene
mai in alcun modo sminuita dalla soggettività di quell'"essere" che
è "nel mondo".
Salvare l'"alterità", l'oggettività dell'oggetto,
vuol dire preservare la tensione che si stabilisce tra oggetto e soggetto.
Contrariamente alla teoria dell'omeostasi, la tensione non deve essere
evitata a ogni costo, e la pace della mente, o la pace dell'anima, non
è qualcosa da evitare incondizionatamente. Una certa quantità di tensione,
come quella che sorge da un senso che deve essere realizzato, è inerente
all'essere umano ed è indispensabile per il benessere mentale (Frankl
1963a). Le persone prive di sfide è facile che se le creino, in modo
più o meno sano. Il modo più diffuso per creare delle tensioni sane
è lo sport: la sua funzione è quella di permettere l'esclusione del
bisogno di tensioni, imponendosi deliberatamente degli obblighi. Ma
c'è di più: penso che nello sport sia implicata una certa forma di ascetismo.
E non mi pare giusto deplorare, come fa il sociologo tedesco Arnold
Gehlen, che non vi sia alcun equivalente secolare che sostituisca la
virtù ascetica medioevale (1961, p. 66).
Ci sono però delle maniere poco salutari
per eccitarsi: è il caso dei giovani che a Vienna provocano la polizia,
oppure sulle coste orientali dell'America tentano di cavalcare le onde
spumeggianti dell'oceano, con gran pericolo per la vita, ingaggiano
duelli brasiliani e marinano anche la scuola.
Un'educazione basata sulla teoria dell'omeostasi
è guidata dal principio che bisognerebbe evitare che i giovani siano
confrontati con ideali e valori, come pure che dovrebbe essere imposto
loro il minor numero possibile di richieste. È vero che i giovani non
dovrebbero essere sottoposti a eccessivi problemi. Comunque, dobbiamo
anche considerare il fatto che, almeno oggi, nell'èra della società
del benessere, la maggior parte della gente soffre per carenza di sfide,
più che per un loro eccesso. Ciò che è ancor più importante è che tale
assenza di tensione è incrementata da quella mancanza di senso che ho
descritto come vuoto esistenziale o come frustrazione della volontà
di senso (Frankl 1961a).
9.
Tensione crescente e decrescente
Charlotte Bühler (1962) pensa che il funzionamento
dell'organismo sano dipende dall'alternarsi tra tendenza alla distensione
e tendenza alla tensione. Accanto a tale ritmo ontogenetico c'è da scorgere
un analogo ritmo filogenetico. Ci sono periodi di tensione crescente
e decrescente facilmente osservabili nella storia dell'umanità. L'èra
di Freud, ad esempio, aveva in sé tale tensione che portava alla repressione
del sesso su vasta scala. Ora viviamo in un'epoca del benessere, e particolarmente
di rilassatezza sessuale. La gente dei paesi anglosassoni aveva sofferto,
in modo speciale, a causa del proprio puritanesimo, per un periodo troppo
lungo di repressione sessuale a largo raggio. Non meraviglia che il
servizio reso ad essi da Freud li fece sentire debitori verso di lui
per tutta la vita e solo un tale debito può spiegare l'enorme resistenza,
irragionevole ed emotiva, contro nuovi sbocchi in psichiatria che vadano
oltre la psicoanalisi.
10.
Ideali per i giovani
Vi è un'altra caratteristica nella cultura
americana che risalta agli occhi degli europei che si può far risalire
al puritanesimo. Mi riferisco all'ossessione di evitare di essere autoritari,
di dare direttive. Lo spirito di democrazia è concepito in modo unilaterale
in termini di essere libero, piuttosto che di essere responsabile. L'ossessiva
e collettiva paura che un senso o uno scopo ci possa essere imposto
ha provocato una idiosincrasia per gli ideali e verso i valori. In questo
modo con l'acqua sporca del bagno si butta via anche il bambino, e gli
ideali e i valori sono del tutto smarriti.
Comunque, il capo del dipartimento di
psichiatria, neurologia e scienze del comportamento della Scuola di
Medicina dell'Università di Oklahoma, L.J. West, ha così dichiarato:
"La nostra gioventù può permettersi l'idealismo perché è la prima generazione
della società del benessere. Ma essa non può permettersi il materialismo,
sia dialettico che capitalistico, perché è la prima generazione che
rischia veramente di vedere la fine del mondo. I nostri giovani, uomini
e donne, hanno abbastanza cultura per sapere che soltanto un ideale
di fratellanza umana può salvare il mondo e loro stessi" (1964, p. 847).
Apparentemente essi hanno ideali. Basti citare il sindacato austriaco
che ha organizzato un'inchiesta a vasto raggio. È risultato che l'87%
dei 1500 giovani intervistati ha espresso la convinzione che, in realtà,
vale la pena avere degli ideali.
Freud ha affermato che "gli uomini sono
forti finché si fanno promotori di un'idea forte" (1977, p. 438). Infatti,
questo è stato messo alla prova sia nei campi di prigionia giapponesi
(Nardini 1952) sia in quelli nord-coreani (Lifton 1954), come anche
nei campi di concentramento nazisti. Anche in normali condizioni un
forte orientamento verso un senso agisce sulla salute e prolunga la
vita, se non proprio la preserva. Ciò vale non solo per la salute fisica,
ma anche per quella mentale (Kotchen 1960). Anche su vasta scala "gli
ideali sono la vera sostanza della sopravvivenza", per citare, tanto
per cambiare, invece di psicologi del profondo, uno psicologo dell'altezza:
l'astronauta John H. Glenn.
11.
Il senso del senso
Se una sana quantità di tensione come
quella tra realtà e ideale, tra "io sono" e "io devo" deve essere preservata,
occorre che si prevenga la coincidenza del significato con l'essere.
Io direi che il senso del senso è quello di indicare la strada all'essere.
In questa luce si può vedere come sia
un rischio "la fusione di fatti e di valori", come avviene "nelle esperienze
di vertice e in coloro che puntano all'autorealizzazione" (Maslow
1965, p. 42), dal momento che nelle esperienze di vertice "l'essere
e il dover-essere si fondono insieme" (1962). Comunque, essere uomo
significa essere di fronte a significati da realizzare e a valori da
attualizzare. Vuol dire vivere nel campo polare di tensione stabilito
tra la realtà e gli ideali da concretizzare. L'uomo vive di ideali e
di valori. L'esistenza umana non è autentica se non è vissuta in termini
di autotrascendenza. L'auto-attualizzazione è un effetto non intenzionale
dell'intenzionalità della vita.
L'autotrascendenza è l'essenza dell'esistenza.
L'esistenza barcolla e vacilla a meno che ci sia "un'idea forte", per
citare nuovamente Freud, o un forte ideale cui aggrapparsi. Come si
è espresso Einstein, "l'uomo che considera la sua vita come destituita
di senso non solo è infelice, ma anche incapace di vivere".
Oggi, comunque, la noia e l'apatia si
diffondono sempre più. E lo stesso vale per il sentimento di vuoto e
di mancanza di senso. Ciò che ho chiamato vuoto esistenziale può essere
identificato come la nevrosi di massa dei nostri giorni. Diversamente
delle esperienze di vertice, descritte ottiamente da Maslow,
il vuoto esistenziale potrebbe essere concepito come una "esperienza
abissale" (Frankl 1965c).
Sfortunatamente il vuoto esistenziale
è rinforzato dal dominante riduzionismo, che è fortemente pervasivo
all'interno del mondo accademico. Come è possibile che i giovani trovino
la vita degna di essere vissuta e ricca di senso se sono indottrinati
dal riduzionismo? Come possono orientarsi verso valori e ideali se vengono
interpretati come nient'altro che meccanismi di difesa?
Si può ritenere che una sana filosofia
della vita è ciò di cui si ha bisogno per sconfiggere il vuoto esistenziale.
Ma, ahimè, la filosofia è messa da parte perché, secondo quanto testimonia
Ludwig Binswanger, per Freud "non è che una delle più acconce forme
della sublimazione della sessualità rimossa" (Binswanger 1972, p. 19).
Ho il sospetto che ai nostri giorni sia vero piuttosto il contrario
e che il sesso serva come scappatoia proprio da quei problemi filosofici
ed esistenziali e da quelle sfide con cui siamo confrontati momento
per momento.
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