Potestà punitiva pubblica - evoluzione del concetto di sanzione amministrativa

Par. 1 – Il concetto di antigiuridicità

Appare opportuno, ai fini di improntare questa ricerca alla massima chiarezza, esaminare, prima dei delicati problemi inerenti ai rapporti tra diritto penale e diritto amministrativo e in genere alla potestà punitiva dello Stato, i concetti giuridici che stanno alla base di qualsiasi esame delle problematiche in questione.

È dunque il caso di riflettere sul significato e sulle origini della stessa parola "diritto". Questa può essere utilizzata (ed effettivamente è utilizzata) in differenti accezioni. Quella che più di tutte a noi interessa è quella sinonima di "facoltà", "potere"; quella che cioè designa una situazione di vantaggio e, in certo senso, la possibilità di disporre di qualche cosa. Come suo immediato corollario, l’accezione porta il concetto di riconoscimento di questo "diritto" da parte della formazione sociale in cui il soggetto è posto, pena l’impossibile fenomenizzazione della pretesa soggettiva. Questa scaturigine è però significante anche sotto un differente aspetto: infatti, fintantoché si rimane nell’ambito dell’accezione indicata, il diritto si concreta in qualcosa di soggettivo o, meglio, in qualcosa di strettamente inerente al soggetto. Quando si prende coscienza del corollario, invece, risulta immediatamente coinvolta una più ampia cerchia di soggetti che deve riconoscere la pretesa di cui è portatore il titolare del diritto; anzi, è bene specificare che senza una manifestazione esteriore e senza un’estrinsecazione della propria pretesa, il soggetto titolare nemmeno potrà chiedere che questa sia da terzi conosciuta. Appare dunque evidente che il vocabolo in questione può essere guardato da due punti di vista che appaiono distinti ma che, come vedremo, si uniscono inevitabilmente nel concetto di ordinamento giuridico. I due essenziali punti di vista sono quello soggettivo e quello oggettivo. Se si considera il secondo, ci si può agevolmente rendere conto di come l’estensione del vocabolo sia quella di "insieme di regole". Per evidenti ragioni non ci soffermeremo su "chi" abbia il potere di porre queste regole e nemmeno su "come" queste regole vengano poste. Sarebbe infatti inevitabile rifarsi addirittura alla distinzione -in fondo mai risolta- tra diritto naturale e diritto positivo e riportare concetti già a fondo studiati da Kelsen, Santi Romano e Mortati.

Posto dunque che le regole promanino dallo Stato (comprensivo di tutti i possibili fenomeni decentrati e sussidiari in cui si esplica l’attività creatrice di norme), bisogna chiedersi come debba essere qualificato il comportamento che a queste norme si oppone o che, quantomeno, ne evade l’osservanza. Se si vuole definire tutto quanto conforme come "giuridico", allora si dovrà definire quanto non conforme come "antigiuridico". Proprio l’antigiuridicità è un punto cardine della ricerca che si svolge, in quanto solo se si cerca di comprendere cosa si debba realmente intendere con tale vocabolo, si può riflettere sul concetto di sanzione e sulle scelte che distinguono tra i differenti tipi di sanzioni pubblicistiche, a cominciare dalla pena.

Per antigiuridicità bisogna intendere, tralasciando le numerose e differenti opinioni espresse nella dottrina recente e passata, la contrarietà di un fatto materiale all’ordinamento giuridico e, quindi, l’esistenza di un momento di torto obiettivo nella fattispecie. Al di là dell’apparenza, una simile definizione apre però la strada a una serie di interrogativi di non facile soluzione. Quello di più urgente evidenza è senza dubbio connesso al valore e al significato da assegnare alla parola "torto". A questo proposito si suole bipartire il concetto di antigiuridicità in due grandi filoni.

E così -da un lato- si ha l’antigiuridicità formale, intesa come divergenza tra il fatto e la legge. Questa concezione di antigiuridicità ispira di sé i cosiddetti Stati di diritto, impostati sul principio di legalità formale. Anche esaminando la scelta operata dal nostro Costituente, si vedrà come in realtà mai si sono concretizzate forme di antigiuridicità formale tout court, poiché si sono sempre ritenuti opportuni e necessari dei correttivi che hanno –talvolta in modo profondo- ridotto lo iato tra concezione formalistica e concezione sostanzialistica.

Più delicato è il discorso riguardante l’antigiuridicità sostanziale. Infatti con tale espressione si intende lo scontro tra il fatto e gli interessi sociali tutelati dal diritto (con la precisazione che questo può ben essere anche extra legem). Già risulta chiaro come questo principio sia tremendamente affascinante per un verso e –come è ovvio- tremendamente pericoloso dall’altro. Di sicuro infatti può essere il mezzo con cui tendere a una giustizia concreta. Anzi, con tutte le riserve che possono sorgere dall’accostare principi e concretezza, l’antigiuridicità materiale può in concreto portare ad apprezzabili manifestazioni di giustizia. Di contro, appare evidente che il concetto può essere ammirato nella sua purezza fintantoché viene lasciato nella nicchia dell’utopia. Infatti, il solo tentativo di applicarlo ad una formazione sociale porta con sé pesanti dubbi dogmatici ed ancor più pesanti testimonianze storiche. Primo fra questi dubbi è individuare chi e come debba circoscrivere gli interessi sociali. E purtroppo le esperienze storiche più significative sono quelle delle forme repressive del diritto socialista e nazionalsocialista. In tali sistemi si attuò una contaminazione tra intuizionismo e Stato, e –ancor peggio- tra intuizionismo e diritto, tanto da arrivare a interpretare il "sano sentimento del Popolo" e a giustificare e legalizzare fattispecie in radice contrastanti con l’idea contemporanea di diritto e, ancor prima, con le basi del giusnaturalismo.

Bisogna anche dire che il concetto di antigiuridicità sostanziale ha avuto sostenitori più moderati e applicazioni più proficue. Si è cercato di smorzare con questa teoria le cosiddette ingiustizie del diritto. Così si è voluto calare il diritto nella realtà sociale e nel contesto storico. Questo modo di intendere l’antigiuridicità sostanziale comporta soprattutto (nei sistemi che non siano caratterizzati da totalitarismi o tirannie) un richiamo ai giudici, affinché siano essi, nell’applicazione delle leggi al caso concreto, a tener conto anche del contesto storico.

Come più sopra accennato, il nostro Costituente ha adottato un concetto di antigiuridicità intermedio, che potremmo definire formale-sostanziale. Infatti, se da un lato la Costituzione dà giusto rilievo al principio del nullum crimen sine lege, dall’altro si evince il principio per cui è antigiuridico quel fatto che è in contrasto con una legge conforme alla Costituzione. Dunque sotto il profilo materiale si ha antigiuridicità per un contrasto tra il fatto e i valori costituzionalmente rilevanti o costituzionalmente non incompatibili.

Par. 2 - Legalità e legittimità.

Nel paragrafo precedente si è accennato al principio di legalità. Orbene, sembra assolutamente necessario dedicare a questo principio, come anche a quello di legittimità, qualche ulteriore ragionamento per evidenziarne il ruolo imprescindibile nella presente ricerca. Ancor prima di parlare di legalità è opportuno riflettere sul concetto di legittimità. Bisogna premettere che questo termine è usato per designare fenomeni apparentemente diversi: e alcune divergenze sorgono anche tra l’uso che del termine fanno gli studiosi di filosofia del diritto e quello che ne fanno gli studiosi di diritto amministrativo.

Se si vuole dare dapprima un approccio filosofico, si può ricordare come nella risalente tradizione giuridica la legittimità venisse considerata sotto due profili: quello del giusto titolo e quello della giustizia del potere rispetto ai valori perseguiti. Si potrebbe dunque operare anche in questo caso una bipartizione tra aspetto formale e aspetto sostanziale. Nell’epoca contemporanea, il controllo di legittimità formale è spesso posto in secondo piano, in quanto la maggior parte degli Stati ha una Costituzione (formale o materiale che sia) alla quale rapportare la legittimità formale del "potere". Tuttora rilevante è invece il concetto di legittimità sostanziale. Come abbiamo accennato, con questa locuzione si intende la giustizia dei fini perseguiti dal potere; si entra quindi nel merito delle scelte, e si va oltre l’aspetto esteriore di conformità alle fonti e alla Costituzione. Anche in questo caso possono tornar utili considerazioni già svolte nel parlare dell’antigiuridicità sostanziale. Infatti, il solo fatto di parlare di "giustizia dei fini perseguiti" postula l’esistenza di valori oggettivi, non passibili di opinioni contrarie. Questo è quanto propugnava il razionalismo. La sua crisi ed il suo superamento hanno spinto la dottrina a ricercare un criterio a-valutativo per guardare alla legittimità. E i risultati conseguiti sono stati da un lato quello weberiano e kelseniano, dall’altro quello degli struttural-funzionalisti americani.

La prima soluzione tende ad un superamento quasi polemico dell’idea tradizionale di legittimità, considerata come credenza in tradizioni tramandate dal passato, per arrivare ad una nuova nozione in cui la credenza è credenza nella legalità. Si giunge così a Kelsen che considera valida la norma di un ordinamento giuridico fino a quando la sua validità termina nel modo indicato dallo stesso ordinamento o viene sostituita dalla validità di un'altra norma dell’ordinamento.

Quanto agli studi americani, si è considerato legittimo ogni potere che goda del consenso della popolazione. Si è cercato così di spostare il punto di verifica della legittimità su criteri di fatto, verificabili –a detta della scuola- con metodi empirici.

Senza entrare nel dettaglio delle diverse opinioni fin qui prospettate, si può comunque notare come la legittimità presupponga in certo senso un approccio di tipo valutativo. Per spiegare, si può dire che per parlare di legittimità si deve postulare una situazione che investa un determinato soggetto (ad esempio, l’esercizio di un potere da parte di un organo) e un soggetto terzo (ad esempio i consociati) che, al di fuori della situazione di cui sopra, valutino e approvino. Diverso appare invece il discorso quanto al concetto di legalità. Se esaminiamo la valenza di questo concetto all’interno dello Stato di diritto, ci rendiamo agevolmente conto di come la legalità consista nella presenza di requisiti giuridico-formali che servono ad uno scopo sostanziale. A sottolineare ancora questo concetto, può essere utile la definizione secondo la quale lo Stato di diritto nel senso originario del termine è lo Stato che si autolimita giuridicamente, e che si autolimita in ragione di una finalità garantistica. A ben vedere quindi, anche la legalità dello Stato di diritto presuppone una valutazione. Si può forse abbozzare una differenza con la legittimità da un punto di vista logico: la legalità infatti si sostanzia nella conformità alle leggi e solo in un secondo momento si può effettuare una valutazione rispetto ai fini garantistici propri del tipo di Stato. La legittimità invece ha comunque sempre in sé una necessità ontologica di essere valutata; anzi, si potrebbe dire che la legittimità non è, se non è oggetto di valutazione.

Cercando di spostare l’attenzione sull’uso che del termine si fa in diritto amministrativo, bisogna notare come il vocabolo "legittimità" non sia molto utilizzato nei testi di legislazione amministrativa. E perlopiù è utilizzato per designare un aspetto della funzione amministrativa di controllo, circoscritta agli atti dell’amministrazione. È però il caso di andare oltre l’uso che del termine si fa nei testi legislativi, per vedere come la legittimità occupi un posto ben più importante nella teoria del diritto amministrativo. Per comprendere il problema, bisogna postulare l’esistenza di due elementi, e cioè l’azione amministrativa e il parametro normativo. La legittimità consiste dunque nel rapporto di conformità e di compatibilità fra i due termini e sembra pacifico che le caratteristiche del rapporto in questione possano emergere solo attraverso un giudizio. A ben guardare però, anche questo concetto di legittimità appare riduttivo e, avendosi riguardo ai contributi concreti della dottrina ci si accorge di come questa prospettiva sia quasi sempre ricondotta nell’alveo della validità o invalidità dell’atto oggetto del giudizio. Questo è comprensibile, posto che il problema proposto si risolve in un mero rapportare l’esito di un’azione della Pubblica amministrazione (e quindi, verosimilmente, un atto) con una norma o un insieme di norme sovraordinate, regolanti appunto le modalità d’azione dell’amministrazione. Vi è però un altro aspetto da considerare, e cioè che si parli di legittimità anche come di un principio preesistente ed indipendente dai parametri normativi dell’azione amministrativa. Questo significato si dà quando si vuole esprimere una valutazione dell’intera funzione amministrativa nei confronti della legge, o, ancora più in generale, dell’ordinamento giuridico. In questo senso è piuttosto agevole comprendere come la legittimità diventi un principio immanente nell’ordinamento e come quindi sia giustificato l’uso piuttosto scarno che di tale vocabolo si fa nelle disposizioni normative di rango legislativo e costituzionale.

Se ora passiamo all’esame dell’altro termine oggetto della nostra breve riflessione, possiamo notare come nel campo del diritto amministrativo si parli sovente di "principio di legalità", attribuendo a questa locuzione un significato sostanzialmente univoco. Per comprendere le origini della teorizzazione di questo principio, occorre accostare i due diversi modi di concepire la discipline dell’attività della pubblica amministrazione. E così si ha da un lato il cosiddetto "Stato a diritto amministrativo" (attuato in Italia già prima dell’unificazione), che colloca la pubblica amministrazione in una situazione di privilegio, capace di incidere sulla sfera giuridica dei cittadini anche contro il loro consenso. Dall’altro lato si trovano invece i modelli dei Paesi di common law, caratterizzati da un’amministrazione soggetta agli stessi vincoli degli altri soggetti dell’ordinamento. Nei sistemi come il nostro si è da sempre avvertita la necessità di apportare dei correttivi al modello puro, per dare garanzie ai cittadini e per scongiurare che la posizione di preminenza della pubblica amministrazione potesse tramutarsi in arbitrarietà. E così, come già accennato più sopra, accanto alla teorizzazione della separazione dei poteri (intesa come ripartizione delle funzioni tra centri di potere distinti anche sotto il profilo organizzativo) si è affermato il principio di legalità, dovendosi intendere (nel campo del diritto amministrativo), come limitazione da parte dell’organo legislativo all’attività della pubblica amministrazione. Dunque l’amministrazione potrà muoversi solo nel rispetto delle regole gerarchicamente sovraordinate poste da un organo terzo. Questo non porta certo ad escludere una discrezionalità dell’attività della pubblica amministrazione ma questa, essendo comunque soggetta a regole strutturali e teleologiche ben precise, non potrà mai risolversi in arbitrio.

Il quadro delineato vuole solamente essere uno spunto di riflessione su questi spinosi problemi. Non sembra peraltro opportuno addentrarvisi oltre, in quanto si rischierebbe di sviare l’attenzione dall’oggetto principale della nostra ricerca. Resta il fatto che ci è parso opportuno abbozzare qualche distinzione in ordine ai termini legittimità e legalità, in quanto, come si vedrà più oltre, risultano imprescindibili per una corretta comprensione del fenomeno della potestà punitiva pubblica.

Par. 3 – Sistema punitivo e "questione penale" tra assolutismo e illuminismo.

L’esperienza delle Monarchie assolute secentesche lasciò alle spinte illuministiche sistemi giuridici caratterizzati da un elevato numero di fonti del diritto, da una pluralità di soggetti giuridici e di beni giuridici e da una generale tendenza all’antinomia, proprio dovuta al proliferare di disposizioni spesso incomplete e incoerenti. Bisogna peraltro riconoscere all'Assolutismo anche meriti, soprattutto per quanto riguarda le teorizzazioni in materia di diritto penale. Fra i numerosi contributi della dottrina dell’epoca, il più importante ed anche il più noto è quello di Thomas Hobbes. L’opera del giurista inglese si caratterizza per una concezione assolutistica del diritto penale alla base della penalistica illuminista e liberale, per una concezione della legge che incarna la prima forma di positivismo giuridico moderno, per un modello teorico dell’organizzazione dei poteri dello Stato che è una delle basi della struttura dello Stato moderno.

Se accenniamo alla teoria di Hobbes, vediamo che egli considera la pace come fine al quale deve tendere l’uomo. E considera unico mezzo valido per raggiungere pace e sicurezza il cosiddetto "stato civile", contrapposto allo "stato di natura". Hobbes critica lo stato di natura, in quanto caratterizzato dalla legge del più forte e, in sostanza, dalla contrapposizione "tutti contro tutti". Questo modello, secondo Hobbes, è dunque uno stato in cui domina la guerra e in cui sono in radice vanificate le aspirazione di sicurezza sociale degli individui. Unica alternativa percorribile è dunque quella dello stato civile, in cui, mediante un "contratto sociale", i contraenti (cioè i consociati) si spogliano dei loro diritti naturali per delegarne l’esercizio a una figura sovraordinata, priva di doveri e custode dei diritti dei consociati: il sovrano. Nella concezione hobbesiana è bene ricordare che i consociati si spogliano integralmente di tutti i propri diritti e quindi non possono in ogni caso opporsi al sovrano, che così prende le forme di sovrano assoluto, le cui scelte sono assiomaticamente giuste. Se si cerca di specificare maggiormente l’aspetto riguardante la potestà punitiva pubblica (che ovviamente in Hobbes prende le forme di diritto penale), si possono far risalire a Hobbes alcuni fondamentali principi che ancora oggi caratterizzano pene e sanzioni pubblicistiche. Innanzi tutto, si può rinvenire il concetto "nulla poena sine lege". Infatti, solo il sovrano è legislatore e episodi costrittivi possono verificarsi solo per sua volontà. Un altro cardine è individuabile nella concezione formalistica del diritto punitivo, per cui non è più il comportamento antigiuridico che viene punito in quanto tale, ma è il comportamento che la volontà assoluta del sovrano sceglie di punire che diviene per ciò stesso antigiuridico. Per quanto riguarda la teoria della pena, Hobbes ne rifiuta il carattere retributivo, equiparando la punizione a una vendetta che però (facendosi trasparire una tendenza embrionale alla special-prevenzione e alla rieducazione) sia volta al futuro, ovvero a eliminare il rischio che il fatto antigiuridico venga nuovamente commesso. Al di là dei principi esaminati finora, forse l’eredità più importante che lasciano gli studi di Hobbes riguarda la secolarizzazione del diritto penale. Fino al periodo secentesco, infatti, il concetto di crimine era sempre stato intimamente legato al concetto di peccato. E soprattutto, sotto il profilo strettamente logico, si subordinava il primo concetto al secondo. Con Hobbes la situazione viene ribaltata: non è più crimine tutto ciò che è peccato, ma peccato tutto ciò che è crimine, con la conseguenza fino ad allora sconosciuta che alcuni peccati ininfluenti sull’organizzazione sociale voluta dal sovrano non vengono nemmeno qualificati come crimini.

Se dunque anche la teoria di Hobbes si colloca alla radice di un periodo storico e giuridico visto con sfavore e considerato superato, bisogna riconoscere come già nel più grande teorico dell’assolutismo si possano trovare, soprattutto nel campo della potestà punitiva pubblica, le prime radici di certezza del diritto che troveranno più compiuto sviluppo con l’affermarsi dell’illuminismo e che in buona misura arrivano fino ai giorni nostri.

L’evoluzione penalistica settecentesca può essere raccolta attorno ai tre principali filoni che vengono a formarsi dopo la metà del secolo. Fino a quell’epoca infatti, la scienza punitiva non riesce a proporre soluzioni nuove, troppo impegnata a riflettere su problemi filosofici quali la legittimazione a imporre pene e i soggetti titolari di tale legittimazione. La prima delle correnti cui si è fatto cenno è quella utilitaristica, secondo la quale è giusto punire solo quei comportamenti che è utile punire. Altra corrente è quella del diritto penale mite. Questa teoria è in fondo una derivazione della prima, in quanto si parte sempre dal postulato dell’utilità, per arrivare a considerare inutile punire con particolare acredine comportamenti che possono essere puniti in maniera più lieve o con pene di specie diversa. L’ultima corrente è quella propria di tutto il razionalismo settecentesco, che va sotto il nome di ideologia proporzionalistica. Secondo questa corrente, la pena deve sempre essere commisurata all’entità del comportamento antigiuridico. E dunque le pene devono essere certe e fisse, essendo prevista una specifica punizione (nel genus, nella species, e nel quantum) per ogni specifico comportamento antigiuridico. Queste tre teorie, pur contrastanti e di origini diverse, influenzano tutte il problema della punizione nel secolo diciottesimo, riuscendo a trovare applicazioni sinergiche in tutta l’Europa continentale, soprattutto in riferimento ai comportamenti meritevoli di pena, ai tipi di pena e a chi possieda la potestà punitiva.

Prima di passare ad analizzare il celebre pensiero di Beccaria, occorre accennare brevemente agli studi di colui che più di tutti ne segnò la formazione. Si tratta dell’opera di Montesquieu. L’Autore infatti, anche se più spesso viene ricordato per i suoi studi sull’organizzazione dello Stato e sui modelli da adottare, ha lasciato un’impronta molto profonda pure nell’ambito penalistico. Se si tralasciano le opere giovanili, nel più celebre Esprit des lois si vede come Montesquieu esamini differenti problematiche quali il fondamento della potestà punitiva, il rapporto tra comportamento antigiuridico e sanzione, la ragionevolezza della pena e il rapporto tra repressione e grado di libertà dell’uomo. Questi elementi ovviamente giustificano la grande considerazione per Montesquieu all’interno del movimento penalistico settecentesco. Peraltro, bisogna notare che l’Autore si distingue dalla teoria universalistica dominante, per portare avanti concezioni relativistiche, volte all’individuazione del diritto penale più idoneo alla conservazione di ciascun ordinamento giuridico. In rapporto alle tre ideologie penalistiche sopra esaminate, si può dire che Montesquieu aderisca soprattutto alla teoria proporzionalistica, utilizzando quella utilitaristica più che altro in funzione giustificatrice (e non critica e riformatrice) e mantenendo le distanze dalla teoria cosiddetta "umanitaria", quella che cioè sosteneva il "diritto mite". Il contributo più importante dato da Montesquieu all’organizzazione pubblica del sistema punitivo resta comunque quello di aver proposto una razionalizzazione basata su leggi precise e precostituite al giudizio, prodotte da organo diverso da quello giudicante. Peraltro l’opera dello studioso di Bordeaux fu utilizzata nel susseguirsi dei decenni in modo spesso travisante, tanto da trasmettere l’opinione di una sua valenza universalistica di cui, a ben guardare, non vi è traccia.

Tralasciando l’opera di noti studiosi quali Voltaire e Morelly, conviene concentrarsi subito sugli studi di Cesare Beccaria, forse il più importante studioso di pena e pubblico potere del diciottesimo secolo. Analizzando la sua opera più importante, Dei delitti e delle pene, si evince come le figure di reato sono quelle che la legge stabilisce, indipendentemente dalla natura del comportamento; peraltro una valida legislazione penale deve necessariamente conformarsi al criterio dell’utile sociale. Il criterio di proporzione tra reato e pena è dunque funzionalizzato al criterio di utilità, come si evince dallo stesso testo, dove l’Autore sostiene che "più forti devono essere gli ostacoli, che risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al bene pubblico, ed a misura delle spinte, che li portano ai delitti".

Il tentativo di razionalizzazione operato da Beccaria si tramuta in una classificazione dei crimini, imperniata sull’interesse leso, che pone le basi di quelli che saranno i codici penali illuministi: 1)crimini contro l’esistenza della società politica; 2)crimini contro i privati; 3)crimini contro la pubblica tranquillità. Una simile razionalizzazione porta con sé l’adesione alla tendenza depenalizzatrice di molte figure tradizionalmente classificate come reato. Questo sotto due distinti aspetti: per un verso viene prospettata la depenalizzazione dei comportamenti antigiuridici di cui non è identificabile il bene leso, o comunque non è riconducibile ai beni protetti da una delle categorie sopra elencate; per l’altro si inizia a teorizzare la depenalizzazione dei fatti antigiuridici che, pur sorretti da un elemento soggettivo volto a colpire uno dei beni tutelati, da un punto di vista oggettivo non si rivelano idonei a consumare l’intenzione.

In conclusione si può comunque dire che l’aspetto più importante nei progetti di depenalizzazione di Beccaria sia quello di considerare il diritto penale come accessorio, ovvero come uno strumento residuale al quale far riferimento solo in caso di una incapacità dello Stato a prevenire i comportamenti antigiuridici segnati da una particolare gravità. Beccaria insiste dunque sul ruolo che l’amministrazione deve avere in chiave preventiva, sia quanto agli sforzi per rendere conoscibile e certo il diritto penale, sia, ancor prima, quanto alla predisposizione di una serie di misure che scongiurino il ricorso alla pena in senso proprio.

Prima di chiudere l’analisi della "questione penale" tanto dibattuta nel diciottesimo secolo, non si può non fare un cenno (nell’ottica che a noi qui interessa) al codice penale austriaco di Giuseppe II, del 1787. Il codice giuseppino, sotto il profilo strutturale (con evidenti riflessi anche sotto il profilo funzional-sostanziale) si caratterizza come il primo codice penale moderno. Esso è diviso in due libri, riguardanti il primo i "delitti criminali" e il secondo i "delitti politici". Per delitti criminali si intendono quelli derivati dall’antico concetto di lesa maestà e le lesioni della vita e della proprietà. Delitti politici sono invece le violazioni delle norme di polizia, di quelle di diligenza nell’esercizio di professioni pericolose, di quelle a tutela del decoro morale e sociale e dell’ordine pubblico. Il risultato è che il numero di delitti criminali risulta piuttosto ristretto, in linea con la teoria illuministica, già abbozzata da Thomasius, di depenalizzare molti fatti antigiuridici considerati nella tradizione come maleficia, peccata o crimina, ma non necessariamente atti a ledere l’utile dello Stato. I delitti criminali sono dunque visti come trasgressioni del diritto naturale, mentre quelli politici sono considerati violazioni del diritto arbitrario. Questa distinzione è già premonitrice di quella che sarà la dicotomia tra diritto comune e diritto amministrativo. Inoltre questa distinzione porta come conseguenza quella di escludere i delitti colposi (in quanto tradizionalmente estranei al diritto naturale) dai delitti criminali, facendoli diventare illeciti depenalizzati.

A questa bipartizione nel campo del diritto sostanziale corrisponde anche una bipartizione sotto il profilo procedurale. E anche questo aspetto è di grande importanza: infatti i delitti politici vengono sanzionati con procedimenti svolti in fase istruttoria da Intendenze Politiche. Ed è un chiaro segno dell’origine di quella che, come vedremo, diventerà la sanzione amministrativa nel senso attuale del termine.

Questa coraggiosa riforma attuata da Giuseppe II d’Austria è da taluni criticata in quanto si fa risalire ad essa la mancanza di garanzie giurisdizionali per gli autori di "illeciti amministrativi" e, al tempo stesso, la progressiva inosservanza da parte dei consociati delle regole non sanzionate da pene di "diritto criminale". Affermazioni di questo tipo possono senz’altro avere una giustificazione; peraltro a noi sembra che, pur viziata dalla carenza di una struttura amministrativa forte e capace di un controllo penetrante, l’opera riformatrice di Giuseppe II segni una tappa importante e positiva alla quale far riferimento ancor oggi per combattere un’ipertrofia del diritto penale e un intasamento dei procedimenti giurisdizionali che assume sempre più proporzioni allarmanti. E, come si vedrà nel corso di questa ricerca, la via di fuga più sicura è senz’altro rappresentata dalla sanzione amministrativa, anche se fin d’ora bisogna affermare che l’attuale organizzazione delle sanzioni amministrative si rivela confusa, sovradimensionata e incerta; e che dunque avrebbe a nostro parere bisogno di interventi sistematici volti non tanto a superare l’urgenza del momento, quanto a dare un’armonia complessiva a quella che appunto si dimostra come l’unica auspicabile alternativa al ricorso indiscriminato al diritto penale.

Par. 4 – L’Ottocento e l’ipertrofia del diritto penale.

Quelli che abbiamo tratteggiato nel precedente paragrafo come caratteri di tutto interesse e incoraggianti una semplificazione del diritto penale, in realtà nell’Ottocento sono rimasti principi teorici e dichiarazioni d’intenti, in quanto paradossalmente il diciannovesimo secolo ha visto un arresto del cammino della depenalizzazione e, anzi, un sorprendente proliferare di disposizioni penali, tanto da causare –se si adotta la definizione di Frank- un’ipertrofia del diritto penale. Questa patologia si è diffusa soprattutto con le grandi codificazioni unitarie della seconda metà dell’ottocento, cioè proprio quando venivano proclamate tecniche razionalizzatrici di stampo illuministico, volte alla ricerca di un diritto essenziale, teso a superare il particolarismo giuridico e la conseguente confusione normativa. Si può cogliere la spiegazione di quest’antinomia se si considera l’attuazione di una vasta giurisdizionalizzazione, in omaggio al monopolio penale della magistratura, visto come uno dei principi-cardine dello Stato di diritto. Così il giudice criminale si è trovato a conoscere delle infrazioni minori, che prima erano di competenza di organi del potere esecutivo. Inoltre si è assistito ad un’alluvione di reati bagatellari, illeciti di polizia e trasgressioni amministrative che hanno impresso il "marchio d’origine" alle contravvenzioni nei codici penali europei.

Per quanto riguarda in particolare l’Italia, il cammino verso la penalizzazione era già in atto nei codici preunitari, anche se con forme diverse tra i differenti Stati. Alcuni codici infatti ricalcavano il modello francese della tripartizione, inserendo direttamente nel codice penale la nuova categoria delle contravvenzioni. Queste erano punite con pene di polizia ed affidate alla competenza di "giudici di mandamento". Altri codici invece preferirono ispirarsi ai modelli degli Stati tedeschi meridionali, collocando al di fuori del codice penale gli illeciti di polizia e le infrazioni meramente "politiche". La distinzione è però solo apparente: infatti anche l’applicazione di sanzioni per la violazione di tali disposizioni era del tutto sottratta alla competenza di organi promananti dal potere esecutivo, per essere anch’essa giurisdizionalizzata. Ma se si sposta l’attenzione al periodo postunitario, si può dire che il processo di giurisdizionalizzazione viene concluso dall’art. 2 della legge 20 marzo 1865, n.2248, allegato E, dove si prevede che siano "devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzione […]". Per la verità la disposizione in questione ebbe una portata piuttosto ristretta: infatti con essa vennero devolute al giudice ordinario solo le controversie per contravvenzioni in materia finanziaria e di polizia demaniale; le uniche, ormai, di competenza di giudici amministrativi. Rimane il fatto che, con la disposizione citata, si vive in Italia il culmine del processo di penalizzazione. In questo modo viene demandata al diritto penale la prevenzione e la repressione pressoché di tutti i comportamenti antigiuridici.

Una seconda fase di impressionante crescita del diritto penale è da individuare nella trasformazione dello Stato liberale di diritto in Stato sociale. Questo fenomeno è comprensibile piuttosto agevolmente se si pensa al marcato intervento pubblico dello Stato in campi tradizionalmente riservati all’autonomia dei privati e alla conseguente cospicua produzione di leggi volte a regolare tale intervento. Lo Stato sociale, e ancor più lo Stato sociale di diritto scelgono il mezzo legislativo per redistribuire la forza economica a favore dei soggetti più deboli. Allo stesso tempo, però, il principio di legalità dell’azione amministrativa, tipico dello Stato di diritto, postula che i pubblici interventi trovino fondamento in una legge formale. Si arriva così, per usare un’espressione un po’ cruda, a identificare lo Stato sociale liberaldemocratico in uno "Stato delle leggi".

Risulta dunque chiaro, al termine di questa breve ricostruzione storica (che pur non vuole avere carattere esaustivo, visti i molti aspetti tralasciati o appena accennati per carenza di spazio), come anche nei momenti più propizi a instaurare vasti e radicali programmi di depenalizzazione, ha sempre dominato il bisogno di leggi penali. E quindi, al di là dei pregevoli studi teorici, la depenalizzazione è sempre stata ai margini delle azioni inerenti alla potestà punitiva pubblica e, purtroppo, a timidi tentativi di ridurre gli illeciti penali sono sempre seguite (a volte anche nel giro di uno o due anni) opere di massiccia quanto inopportuna ripenalizzazione.

Par. 5 – L’illecito amministrativo come tertium genus rispetto al reato e al torto civile.

Nelle pagine seguenti si cercherà di evidenziare il ruolo di primo piano che hanno assunto nel nostro ordinamento gli illeciti amministrativi e le corrispettive forme sanzionatorie.

Nel nostro sistema si possono individuare tre grosse categorie di comportamenti antigiuridici: si hanno così da un lato le due forme più note e considerate dell’illecito penale e del torto civile. Dall’altro lato si è creata una terza figura, a nostro parere altrettanto importante, costituita dagli illeciti amministrativi.

Per quanto riguarda la prima categoria, ovvero quella degli illeciti penali, essi si riconducono essenzialmente ai reati, che sono suddivisi in delitti o contravvenzioni, consumati o tentati (quanto ai delitti). Senza addentrarci nello studio delle differenti teorie del reato, che esulano completamente dalla nostra ricerca, dobbiamo tuttavia dare atto delle più importanti correnti di pensiero razional-analitiche: bisogna quindi considerare la teoria "bipartita", secondo la quale il reato è costituito dal fatto materiale in tutti i suoi elementi costitutivi e dal diverso atteggiarsi della volontà nelle forme di dolo e colpa; la teoria "tripartita", che vede il reato costituito dal fatto tipico, dall’antigiuridicità oggettiva (indipendente dall’elemento psicologico) e dalla colpevolezza; la teoria "quadripartita" che, oltre agli elementi proposti dai sostenitori della teoria tripartita, aggiunge anche la punibilità del fatto antigiuridco e colpevole.

Se si passa alla problematica dell’illecito civilistico, bisogna sottolineare l’importante ruolo della colpa come criterio di imputazione della responsabilità civile. Con questo criterio si arriva a operare una bipartizione fra colpa contrattuale e colpa extracontrattuale o aquiliana, anche se detta bipartizione è oggi più che mai oggetto di critiche e perplessità per la grande importanza assunta da forme intermedie di responsabilità, che perlopiù si fanno rientrare nella categoria della responsabilità precontrattuale o della culpa in contrahendo. Senza addentrarci in ulteriori analisi e senza entrare nel merito di altre forme di responsabilità, come quella oggettiva e quella per dolo, possiamo dire che l’accertamento di una responsabilità di stampo civilistico (e soprattutto se di tipo aquiliana) è del tutto collegata con la problematica del risarcimento del danno e con la difficoltà di stabilire l’ingiustizia del danno.

Occupandoci infine della categoria degli illeciti amministrativi, dobbiamo subito premettere che non è in questa sede ipotizzabile una completa esposizione della tematica. Inoltre, poiché una più ricca trattazione verrà svolta nei prossimi capitoli, ci limitiamo per il momento ad inquadrare le linee essenziali della ricerca e alcune questioni "pregiudiziali" inerenti ai rapporti tra illegittimità amministrativa e illiceità penale.

Una tappa fondamentale nell’ottica che a noi qui interessa è rappresentata, secondo il concorde avviso della dottrina, dalla legge 24 novembre 1981, n. 689. In tale sede si tenta per la prima volta di dare un’organica sistemazione alla sanzione amministrativa pecuniaria, a quella sanzione, cioè, concorrente con la pena pecuniaria di diritto penale. E proprio i rapporti tra i due rami del diritto risultano di notevole interesse, alla luce dell’innovazione legislativa. L’articolo che tende a regolare i rapporti tra fattispecie colpite da sanzioni amministrative e fattispecie colpite da sanzioni penali è il numero 9. Per una chiara comprensione del peso delle problematiche poste da questa disposizione lo riportiamo integralmente di seguito: "Art. 9 – PRINCIPIO DI SPECIALITA’. Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale. / Tuttavia quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano che preveda una sanzione amministrativa, si applica in ogni caso la disposizione penale, salvo che quest’ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali. / Ai fatti puniti dagli articoli 5, 6, 9 e 13 della legge 30 aprile 1962, n. 283, modificata con legge 26 febbraio 1963, n. 441, sulla disciplina igienica degli alimenti, si applicano in ogni caso le disposizioni penali in tali articoli previste, anche quando i fatti stessi sono puniti da disposizioni amministrative che hanno sostituito disposizioni penali speciali".

Come appare già da una lettura superficiale, la disposizione in oggetto è di difficile interpretazione, anche se si può subito notare che la grossa innovazione ruota attorno al "principio di specialità". Questo principio è stato quello prediletto anche dal legislatore del codice penale per risolvere i cosiddetti concorsi apparenti di norme. L’art. 15 c.p. peraltro, nel regolare i conflitti tra differenti disposizioni penali a prima vista applicabili a una medesima fattispecie concreta, stabilisce che debba prevalere la norma speciale "salvo che sia altrimenti stabilito". Questo importante inciso lascia spazio anche a differenti criteri di soluzione dei conflitti, come, ad esempio, il principio di sussidiarietà e il principio di consunzione, basati sulla comparazione del rispettivo disvalore degli illeciti e non invece delle strutture delle rispettive disposizioni. L’assenza di una simile previsione nella legge sugli illeciti depenalizzati, sembra perciò necessariamente confermare che il raffronto tra norma comportante una sanzione penale e norma comportante una sanzione amministrativa debba essere fatto solo in virtù della fattispecie dotata del maggior numero di elementi specializzanti e non invece in rapporto al disvalore dei rispettivi illeciti.

Questa conclusione comporta un’importante considerazione di principio: risulta infatti evidente come il legislatore del 1981 abbia voluto in un certo senso "mettere sullo stesso piano" la sanzione penale e la sanzione amministrativa, nel senso di dare ad entrambe la stessa finalità. Se si ragiona a contrariis si può infatti dire che, se così non fosse, potrebbero trovare spazi applicativi entrambe le sanzioni, come avviene ad esempio nel caso di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in conseguenza di reati contro la Pubblica Amministrazione commessi da pubblici ufficiali o da incaricati di pubblico servizio.

Quanto ai commi 2 e 3 dell’articolo che si sta esaminando, bisogna dire che sono stati dettati da finalità diverse e poco interessanti sotto il profilo di principio. Il comma 2 risulta imperniato su preoccupazioni del legislatore di censure di costituzionalità; il comma 3 invece pare originato soprattutto dal "timore di scardinare l’intricato meccanismo di tutela penale nella materia degli alimenti". È dunque opportuno soffermarci ancora ed esclusivamente sul primo comma, veramente innovatore, che disegna sinergie tra sanzioni da sempre considerate come ontologicamente differenti. Questa modifica ha, com’è comprensibile, suscitato accesi dibattiti in dottrina e in giurisprudenza. A fugare buona parte dei dubbi è dovuta intervenire la Corte costituzionale che, con storica sentenza, ha fatto chiarezza nei rapporti tra illegittimità amministrativa e illiceità penale.

In primo luogo la Corte ha confermato l’omogeneità dei fini sanzionatori penali e amministrativi, affermando che "il comma 1 dell’art.9 della l. 689/1981 […] si rifà ai ben noti principi che disciplinano la risoluzione del concorso apparente di norme; quel che di particolare il predetto comma inserisce nel sistema è l’estensione dei sopraindicati principi (che, almeno di regola, erano riferiti al solo concorso apparente di norme e di leggi penali) anche al concorso apparente tra disposizioni penali e disposizioni prevedenti sanzioni amministrative o tra sanzioni amministrative". Inoltre la Corte ha provveduto a interpretare in maniera chiara i rapporti tra i tre commi dell’articolo in questione, evitando il possibile insorgere di antinomie e di vuoti normativi nella disciplina del rapporto tra norma penale, norma sanzionatoria amministrativa statale e norma sanzionatoria amministrativa regionale. Se si riassume la disciplina contenuta nell’art. 9, si può dunque dire che il primo comma concerne l’interferenza tra norma penale e norma sanzionatoria amministrativa statale, risolvendo il concorso apparente secondo il principio di specialità (che è un principio a soluzione aperta, in quanto di volta in volta bisognerà confrontare le due norme e stabilire quale contiene il maggior numero di elementi specializzanti). Il secondo comma tratta del concorso tra norme penali e norme sanzionatorie amministrative di fonte regionale, risolvendolo in base al principio della consunzione, per cui sarà sempre la norma penale a prevalere.

Si può notare come la disposizione in oggetto non affronti un problema molto importante, quello cioè dei rapporti tra norme sanzionatorie amministrative statali e regionali. Di fronte al silenzio della legge, sono stati seguiti i percorsi esegetici più disparati, fino alla citata sentenza della Corte costituzionale, che ha fatto luce con la propria autorità anche su questo punto. In linea di massima la Corte ha optato per il criterio di specialità anche in riferimento all’apparente conflitto tra norme sanzionatorie amministrative di differente grado, anche se ha esaminato una serie di possibili incroci tra i differenti tipi di norma di cui si discute. Per entrare nel dettaglio, bisogna analizzare il conflitto, in riferimento al medesimo fatto, di tutte e tre le fattispecie sanzionatorie: in partenza bisogna confrontare norma penale e norma sanzionatoria amministrativa statale: in caso di prevalenza della norma amministrativa, la norma penale esce definitivamente di scena e si deve effettuare un secondo confronto tra norma amministrativa statale (uscita "vincente" dal confronto con la norma penale) e norma amministrativa regionale. Anche in questo secondo confronto si avrà una soluzione imperniata sul principio di specialità. Qualora invece il primo confronto dovesse risolversi a vantaggio della norma penale, il secondo confronto (appunto tra norma penale e norma sanzionatoria amministrativa regionale) andrebbe chiuso alla luce del principio di consunzione operante a tutto vantaggio della norma penale.

In effetti, se non si seguisse questo percorso, le Regioni potrebbero incidere sull’ambito di applicazione delle norme penali, modificandone la validità. E così, in assenza di più specifiche norme sanzionatorie amministrative statali, si realizzerebbe una sorta di "depenalizzazione regionale". Invece in presenza di tale nucleo sanzionatorio, l’esercizio della potestà sanzionatoria da parte del legislatore di una Regione avrebbe un effetto "ripenalizzatore" rendendo applicabile nella regione ad una singola sottofattispecie concreta la più generica norma penale, nelle altre regioni invece esclusa, in base al principio di specialità, da norme amministrative statali di dettaglio. A provocare un simile effetto sarebbe sufficiente al legislatore regionale configurare una fattispecie sanzionatoria più specifica di quella prevista dalla legge sanzionatoria amministrativa statale.

A conclusione di quest’analisi sull’art. 9 della l. 689/1981, risulta chiara la portata profondamente innovatrice della disposizione. Le reazioni della dottrina sono state contrastanti e hanno visto, in particolare, lo scetticismo di molti penalisti e invece il prudente apprezzamento da parte dei (pochi) cultori di diritto amministrativo attenti ai rapporti con l’illecito penale. Sicuramente, quasi vent’anni dopo, possiamo esprimere un apprezzamento per le intenzioni riformiste del legislatore dell’81. Allo stesso tempo dobbiamo purtroppo constatare che non vi sono state grandi ripercussioni sull’organizzazione del sistema punitivo, per la scarsa capacità del legislatore sia di staccarsi da concezioni monopolistiche del diritto penale quale mezzo di repressione dei comportamenti antigiuridici, sia di creare un tertium genus organico, chiaro e coerente (quello amministrativo, appunto), capace di guadagnare credito come valida alternativa alla repressione penale. Nei capitoli che seguono cercheremo proprio di analizzare l’ambigua nozione di sanzione amministrativa (esaminando anche le specie differenti dalla sanzione pecuniaria derivata dalla pena) e di prospettare nuovi percorsi da seguire sul confine tra diritto penale e diritto amministrativo (ma pendendo più dalla parte di quest’ultimo) per dare efficienza al sistema punitivo dello Stato, che oggi sembra soffrire di gravi forme di congestione.

 

Par. 1 – Il concetto di sanzione amministrativa.

Dopo aver dato qualche cenno sui cardini della materia e sulla distinzione tra diritto penale e diritto amministrativo, si cercherà in questo secondo capitolo di riflettere sul concetto di sanzione amministrativa. Come si vedrà con evidenza, questa locuzione può avere differenti significati. Tale incertezza classificatoria porta, a nostro parere, a una sorta di confusione cronica sull’argomento, tanto che quasi si è indotti a pensare che un ragionamento organico sulla potestà punitiva non concretantesi in una pena "penalistica" sia per misterioso destino impraticabile e comunque presti il fianco a facili attacchi sia dai cavalieri del diritto penale, sia da quelli del diritto amministrativo.

Ebbene, l’obiettivo che ci si prefigge è proprio quello di provare a dimostrare che un discorso organico non solo è possibile, ma è urgente e necessario per dare una nuova credibilità al pubblico potere, che oggi –francamente- sembra appesantito da carichi biblici di processi e procedimenti arretrati e da sanzioni varie applicate in base a oscuri criteri che sfuggono al semplice cittadino e forse, a volte, anche alle stesse Autorità. Con umiltà dunque, si cercherà di privilegiare la sintesi rispetto all’analisi, per fare chiarezza in un settore tutt’altro che organico.

Per affrontare l’argomento ci sembra utile mostrare quale evoluzione abbiano avuto le sanzioni amministrative in Italia, per capire come si sia arrivati alla situazione attuale. Innanzitutto è opportuno rifarsi alla legislazione del periodo post-unitario, dove il potere sanzionatorio pecuniario della Pubblica amministrazione si risolveva principalmente in tre settori: ambito disciplinare, finanziario e oblazione amministrativa. Come si evince chiaramente dai più noti studi in materia, e soprattutto dal celebre studio di Zanobini, manca ancora una cornice complessiva che raccolga il diritto delle sanzioni di competenza dell’amministrazione. I tentativi di dare al settore una sistemazione organica, assenti nella volontà del legislatore, erano lasciati ad alcuni importanti tentativi della dottrina che, pressoché ignorati all’epoca (salvo che da qualche coraggiosa sentenza della Cassazione penale), dispiegarono il loro valore negli anni successivi.

Un primo tratto unificatore in tema di sanzioni amministrative pecuniarie venne tracciato in epoca di legislazione di guerra: nel 1917-1918 si disciplinò con particolare cura la figura dell’intendente di finanza, plasmandolo come modello anche per le sanzioni amministrative non di carattere meramente tributario. Emerse così un carattere differenziale specifico rispetto alle sanzioni pecuniarie irrogate dal giudice penale. Infatti si precisò che, pur in mancanza di una differenza sostanziale tra i due tipi di "pena", le sanzioni pecuniarie irrogate dall’intendente di finanza (e assimilati) non potevano essere suscettibili di conversione in pene "restrittive della libertà personale". Queste pur importanti affermazioni non riuscirono peraltro a imporsi in maniera organica nella legislazione italiana del dopoguerra e nemmeno nelle riflessioni dottrinali e giurisprudenziali. Infatti non sempre si accettò pacificamente l’impossibilità di conversione della sanzione pecuniaria amministrativa in pena detentiva e comunque mancò un organico quadro all’interno del quale inserire anche le altre manifestazioni sanzionatorie della Pubblica amministrazione differenti da quelle pecuniarie. Dopo gli approfonditi studi di Zanobini, che già abbiamo ricordato, una tappa fondamentale nell’evoluzione delle sanzioni amministrative in Italia è data senz’altro dalla legge 7 gennaio 1929, n° 4, recante "Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie". Per la verità bisogna dire che l’interesse suscitato a caldo da questa legge finì ben presto per essere smorzato da successivi interventi in altri settori della potestà punitiva amministrativa, che poco o nulla si legarono ai principi espressi nella legge sulle violazioni finanziarie. Tale legge evidenziò comunque la "pena pecuniaria" come strumento principale per la repressione in via amministrativa, collocandola a metà strada tra la misura di stampo penalistico e quella di stampo civilistico: l’impostazione globale rispecchiava infatti le assonanze con la sanzione penale proposte da Zanobini, anche se l’art. 3 precisava che l’obbligazione scaturente dall’irrogazione della sanzione era contraddistinta dal carattere "civile".

Il cammino per arrivare alla ben nota legge 689/1981 passa per due processi di depenalizzazione, rispettivamente intrapresi nel 1967 e nel 1975 che, pur non avendo portato ai radicali cambiamenti che forse si aspettavano, hanno innovato nel profondo la disciplina della sanzioni amministrative. Infatti, seppur bollate come leggi di carattere speciale da buona parte della dottrina amministrativistica, le due leggi in questione hanno portato nuovi principi che negli anni successivi hanno influenzato differenti categorie di illeciti-sanzioni amministrative e non solo quegli illeciti-sanzioni originati da un’attività di depenalizzazione.

Con queste due leggi si sono posti i caratteri fondamentali della sanzione pecuniaria amministrativa, e si sono superate le pur consolidate tesi di Zanobini. In particolare, non si può non segnalare l’introduzione di principi nuovi in tema di intrasmissibilità dell’obbligazione a corrispondere la sanzione pecuniaria, in tema di prescrizione e in tema di non discrezionalità (intesa come discrezionalità amministrativa in senso tecnico) del provvedimento di irrogazione della sanzione amministrativa. Così, negli anni successivi a questi interventi legislativi, si consolida l’idea di sanzione amministrativa intesa come "pena", anche se non di diritto penale. E le riflessioni originate da episodi di degradazione di reati a semplici illeciti amministrativi si estendono progressivamente a tutto il sistema sanzionatorio della Pubblica amministrazione, per sfociare nel 1981 in una legge contenente una disciplina organica e pressoché unitaria della materia.

Della legge 689 ci si occuperà nel paragrafo a venire. Ora è ancora il caso di sottolineare come fino ad adesso si sia parlato in via principale della sanzione amministrativa "pecuniaria". Eppure questo tipo di sanzione non è che uno fra molti, ponendosi a fianco, per esemplificare, di altre importantissime categorie come quella delle sanzioni disciplinari e interdittive. Ebbene, nella nostra indagine la sanzione pecuniaria (come risulterà più chiaro al termine) è inevitabilmente destinata ad avere un ruolo di primo piano, per non dire di preminenza assoluta. Infatti, salvo quanto si specificherà più oltre, è l’unica sanzione che viene comminata ai soggetti dell’ordinamento con criteri punitivi che sono svincolati in tutto e per tutto dalla natura dell’illecito commesso. In questo stanno molti dei contatti con la materia penale. Le differenze, che non si possono negare, vanno ricercate altrove: a cominciare dal procedimento applicativo.

 

Par. 2 – Le sanzioni pecuniarie: la legge 24 novembre 1981, n° 689.

Come già si è accennato, l’entrata in vigore della legge 24 novembre 1981, n° 689 ha portato un’innovazione radicale nel campo delle sanzioni amministrative pecuniarie. Per la prima volta infatti si sono raccolti in maniera espressa e in un unico testo i principi generali regolanti la materia, fissandone con una certa precisione i confini.

A questo punto della nostra ricerca utilizziamo ancora la locuzione "sanzione amministrativa" con una portata generale, ivi includendo, a fianco delle sanzioni pecuniarie appunto considerate dalla legge 689, anche altre fattispecie come le sanzioni ripristinatorie o quelle disciplinari, anche se in realtà si tratta di species diverse e pure di genera diversi. Infatti è uso comune chiamare sanzioni amministrative fattispecie che in realtà non sono tali. In fondo è principalmente una questione convenzionale di intesa sul significato che si vuol dare a siffatti vocaboli: la parte più attenta della dottrina riserva il nome di sanzioni amministrative solo a quei provvedimenti afflittivi che irroghino "pene in senso tecnico". Altra parte della dottrina, meno dedita all’analisi dei confini tra pena e sanzione amministrativa, chiama sanzioni amministrative pure fenomeni che non hanno tale carattere di afflittività: è appunto il caso delle cosiddette sanzioni interdittive (come si vedrà, di parte di esse), di quelle ripristinatorie, di quelle perequative, delle sanzioni disciplinari e così via.

A noi sembra di dover al momento conservare la validità di tale discussa locuzione tanto per le une quanto per le altre, limitandoci a precisare che le une sono sanzioni in senso stretto, mentre le altre lo sono in senso lato. In seguito si cercherà invece di far emergere con chiarezza l’eterogeneità dei vari fenomeni e, in un certo senso, la necessità di superare tale ambigua locuzione tanto per descrivere le une, quanto per riferirsi alle altre.

Quanto alla legge 689, bisogna innanzitutto rilevare come essa fissi in maniera espressa i confini delle sanzioni amministrative (evidentemente di quelle pecuniarie, le uniche di cui la legge in oggetto si occupi). Infatti l’art. 12 prevede: "Le disposizioni di questo capo si osservano, in quanto applicabili e salvo che non sia diversamente stabilito, per tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, anche quando questa sanzione non è prevista in sostituzione di una sanzione penale. Non si applicano alle violazioni disciplinari". Come appare in tutta chiarezza, la legge 689 non fa dunque riferimento a nessuna forma di reazione che si sostanzi in una misura non "afflittiva". Si tratta dunque di misure che molto hanno in comune con le sanzioni di stampo penalistico. Peraltro è bene notare che lo stesso articolo 12 non limita l’applicazione di tali sanzioni alle sole fattispecie in qualche modo derivate da una pena, ma allarga l’ambito di applicazione anche a provvedimenti che siano ab origine di natura amministrativa. A nostro avviso questo è un punto di grande importanza, in quanto le sanzioni amministrative così intese (cioè le sanzioni identificabili in una pena pecuniaria) sono sempre state legate a due diverse categorie di fattispecie: quelle penetranti nel diritto amministrativo in virtù di operazioni di depenalizzazione e quelle tout court amministrative. Il fatto di aver legato la disciplina di entrambe è stato a nostro parere un significativo passo in avanti verso una considerazione unitaria della materia che, come vedremo, risulta tutt’oggi, a quasi vent’anni di distanza, il problema più ostico da risolvere.

Tale vocazione della legge 689 risulta confermata anche da altri due fattori: innanzitutto dalla clausola di specialità contenuta nell’art. 9. Questa clausola, di cui si è già parlato in precedenza, col regolare il concorso apparente di norma penale e norma amministrativa, svolge anche il ruolo indiretto di qualificare la sanzione amministrativa come un fenomeno dello stesso tipo di quello penale.

In secondo luogo arriva conferma dall’aver escluso dall’ambito di applicazione della legge le violazioni disciplinari, che sono pur esse manifestazione della potestà punitiva della Pubblica amministrazione. Questa scelta rispecchia la considerazione della sanzione amministrativa come misura preventiva o di tutela indiretta di interessi, e quindi come pena in senso tecnico.

Se si procede all’analisi dei principi che la legge pone alla base della materia così delineata, ci si imbatte subito nell’enunciazione del principio di legalità (art.1). Bisogna per la verità dire che la sottomissione a una riserva di legge già si riteneva operante prima della legge in oggetto, poiché essa era desumibile dall’art. 23 della Costituzione, considerata una "norma generale esclusiva". Al principio di legalità fa inoltre da naturale corollario il noto principio di tassatività, per cui "le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati".

La novità consiste piuttosto nella previsione espressa che la sanzione amministrativa può essere applicata solo "in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione". Tale principio di irretroattività, infatti, era riservato solo alle sanzioni penali, per previsione dell’art. 25, c. 2 della Costituzione. Il fatto di averlo esteso, sia pure con fonte di rango ordinario, anche alla disciplina delle sanzioni amministrative, non fa che corroborare le tesi che vedono estremamente labili i confini tra i due tipi di sanzioni e tra le rispettive finalità.

Ancora di grande importanza è l’art. 2 della legge 689, il quale con spiccata analogia a quanto previsto in campo penale, pone come requisito-base dell’imputabilità il compimento della maggiore età e la capacità di intendere e di volere. Dunque, anche nel campo degli illeciti amministrativi puniti con sanzioni pecuniarie, viene a profilarsi come presupposto imprescindibile il compimento nella mente del soggetto di un procedimento di valutazione e scelta della propria condotta.

Strettamente connessa a tale disposizione è pure quella dell’articolo che segue, che mutua l’elemento soggettivo necessario, per subire sanzioni amministrative, da quello dell’art. 42 del Codice penale: in conformità a quanto previsto per le contravvenzioni, si richiede il dolo o la colpa. Bisogna a questo proposito ricordare che sono necessari indifferentemente l’uno o l’altro, ma che tanto basta per spogliare il campo delle sanzioni amministrative pecuniarie da forme più o meno occulte di responsabilità oggettiva, con il compimento di un indiscusso passo di civiltà giuridica che, paradossalmente, deve ancora essere portato a termine nel diritto stricto sensu penale.

L’art. 4 della legge in oggetto estende le cause di esclusione della responsabilità, oltre che allo stato di necessità (forma scriminante teorizzata già all’epoca dei citati studi di Zanobini), all’adempimento di un dovere, alla legittima difesa e all’esercizio di una facoltà legittima. Anche in questo caso è superfluo sottolineare le analogie e i numerosi punti di contatto con le scriminanti inserite nel Codice penale.

La breve analisi fin qui compiuta ha senz’altro evidenziato la volontà del legislatore di caratterizzare le sanzioni amministrative pecuniarie come vere e proprie "pene" (ricordiamo, sia quelle scaturenti da depenalizzazione, sia quelle già ab origine amministrative). Per contraddistinguere in tal modo questa forma repressiva ci si è ispirati in modo diretto al Codice penale, cercando di mutuarne i principi compatibili e, pure, di migliorarne alcune imperfezioni (come appunto l’eliminazione della responsabilità oggettiva). In senso parzialmente diverso va invece l’articolo 5 della legge in esame, che infatti ha suscitato nel quinquennio successivo all’entrata in vigore della legge notevoli perplessità e reazioni contrastanti. La caratteristica che colpisce maggiormente a una lettura superficiale è quella di aver preferito al noto principio di solidarietà quello della individualità della responsabilità amministrativa ("Quando più persone concorrono in una violazione amministrativa, ciascuna di esse soggiace alla pena per questa disposta"). A ben vedere però, tale innovazione trova margini applicativi nella clausola "salvo che sia diversamente stabilito dalla legge". E questo significa che in tema di responsabilità per illecito amministrativo i due alternativi principi di solidarietà e personalità trovano entrambi applicazione. In effetti, a giudicare dall’opera legislativa posteriore all’entrata in vigore della legge 689, si vede come, nonostante la formulazione della lettera dell’articolo, che lascerebbe presupporre quantomeno una preferenza per il principio individualistico, il legislatore abbia fatto uso di entrambe le possibili soluzioni, senza particolari vincoli dogmatici nella scelta dell’una piuttosto che dell’altra.

L’ultimo principio generale che ci pare opportuno richiamare in questo primo contatto con le sanzioni amministrative pecuniarie, è quello contenuto nell’articolo 7, che individua come causa estintiva della sanzione la morte del trasgressore. Anche questa norma è stata oggetto di vivace dibattito, in quanto con chiarezza forse ancora maggiore emerge la volontà di qualificare questo genus di rimedio come "pena in senso tecnico". Inoltre è significativo osservare come già anteriormente all’entrata in vigore della legge 689 fosse prevista tale forma estintiva, ma solo per gli illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione. Si può dire, in un certo senso, che tali ex-reati portavano con sé questa peculiarità anche una volta penetrati nella sfera di operatività del diritto amministrativo. Quanto agli illeciti ab origine amministrativi, invece, per la prevalente assimilazione con il torto civile, si configurava la trasmissibilità della sanzione agli eredi. Ebbene, con la legge 689 entra come principio generale la personalità della pena nel rapporto con gli eredi, in caso di eventuale morte del trasgressore. Questo a dimostrare, ancora una volta, il carattere eminentemente afflittivo della sanzione e la progressiva irrilevanza della fonte originaria degli illeciti amministrativi punibili con pena pecuniaria.

In conclusione di queste prime riflessioni sulle sanzioni amministrative pecuniarie, ci sembra di poter dire che la legge 689/1981 abbia senza dubbio segnato una tappa fondamentale per quanto riguarda lo studio della potestà punitiva della Pubblica amministrazione. Con la citata legge, infatti, cadono le teorie tramandate già dallo studio di Zanobini e diventa assai arduo cercare di contenere all’interno di un unico genus tutte le possibili species di sanzione amministrativa. Come abbiamo visto, le sanzioni pecuniarie ricevono una disciplina organica e per esse sole vengono fissati principi generali che, come si vedrà, di molto si differenziano da quelli, espressi o inespressi, ritenuti applicabili alle altre categorie di sanzioni amministrative. Certo, non è nemmeno possibile sostenere che la legge 689 abbia operato un appiattimento della sanzione pecuniaria sul modello penale; infatti le differenze permangono sia a livello di principi generali, sia a livello sistematico, ivi compreso il procedimento applicativo. Più avanti, dopo aver esaminato le peculiarità delle altre cosiddette sanzioni amministrative, si cercherà di trarre qualche conclusione in merito all’opera del legislatore (anche con riferimento agli interventi successivi alla legge del 1981, arrivando fino alla nuova legge di depenalizzazione del giugno 1999), per capire se è possibile, parlando di sanzioni amministrative, riferirsi ad una sola materia, o se invece –al di là dei formalismi terminologici- sarebbe più corretto porre da un lato le reazioni amministrative alle violazioni di interessi legittimi, dall’altro le reazioni in senso lato penalistiche alla lesione di diritti soggettivi.

Già possiamo accennare, senza che peraltro tale cenno voglia contenere anche valutazioni di merito, che la reazione della giurisprudenza all’entrata in vigore della legge 689 non ha certamente agevolato una considerazione organica della materia. Senza rifarsi a risalenti pronunce del Consiglio di Stato, che già ricusavano la giurisdizione del giudice amministrativo per alcune tipologie di sanzioni di carattere pecuniario, ci si può soffermare sulla costante giurisprudenza della Cassazione che, già dal 1977 e ancor più dal 1981, teorizza la netta distinzione tra sanzioni "ripristinatorie" da un lato (sarebbero secondo l’interpretazione della Corte le sanzioni amministrative la cui applicazione coinvolgerebbe questioni di interesse legittimo) e sanzioni "punitive" dall’altro (queste sarebbero, sempre secondo gli schemi adottati dalla Suprema Corte, le sanzioni amministrative la cui applicazione coinvolgerebbe solo questioni di diritti soggettivi, di competenza del giudice ordinario). Bisogna sottolineare come questa distinzione non si limiterebbe ad una mera funzione utilitaristica di riparto fra le giurisdizioni, ma corrisponderebbe a fenomeni in radice eterogenei: in base alle parole stesse della Corte, le sanzioni dell’ultimo genere avrebbero "un ruolo meramente punitivo, soltanto indirettamente ordinato alla realizzazione dell’interesse pubblico curato dalla funzione sussidiaria, e si risolverebbe quindi nella compressione, autonoma e originaria, della sfera di libertà del cittadino". Al contrario, per quanto attiene alla potestà sanzionatoria delle sanzioni cosiddette ripristinatorie, questa sarebbe "accessoria a specifiche funzioni amministrative di cura e governo di determinate aree di pubblico interesse, ma non sarebbe essa stessa funzione, e cioè cura e governo in via autonoma di pubblici interessi particolari".

 

Par. 3 – Le sanzioni interdittive.

 

Il discorso sulle misure interdittive è di non facile soluzione. Infatti bisogna subito dire che alcune di esse possono essere considerate come vere e proprie sanzioni; altre, ovviamente, no. Inoltre bisogna subito premettere che le sanzioni interdittive trovano in parte disciplina nella già citata legge 689/1981. Peraltro tale disciplina sembra dettata soprattutto da specifiche esigenze inerenti alla depenalizzazione. Quindi non si può dire che nella legge disciplinante le sanzioni amministrative pecuniarie trovi una disciplina generale anche il settore delle sanzioni interdittive.

Se si comincia a segnare alcune caratteristiche delle sanzioni in oggetto, si può dire che solitamente queste sono divise in due categorie: da un lato vengono collocate le sanzioni che incidono in maniera diretta sull’esercizio di una facoltà o di un diritto da parte del trasgressore, dall’altro, invece, trovano spazio le sanzioni che incidono direttamente su provvedimenti amministrativi che attribuiscono facoltà, benefici, diritti. Inoltre è forse opportuno richiamare una dottrina ormai superata che comprendeva le sanzioni interdittive nell’ambito delle sanzioni amministrative personali, come tali contrapposte alle sanzioni amministrative reali, che invece comprendevano la confisca e, in certi casi, la pena pecuniaria.

Se adesso si vogliono approfondire i rapporti che intercorrono tra sanzioni interdittive e legge 689/1981, bisogna soffermarsi sull’art. 20. Tale articolo è infatti il primo riferimento positivo che permette di considerare alcune misure interdittive come vere e proprie sanzioni: prima dell’entrata in vigore della legge, infatti, tale questione era piuttosto controversa e trovava applicazioni spesso discordi, ad eccezione di alcuni settori, fra cui, soprattutto, quello disciplinare. Quanto all’articolo 20 della legge citata, questo prevede la possibilità di applicare, come sanzioni amministrative accessorie, delle misure interdittive originariamente penali previste dalle leggi speciali e consistenti "nella privazione o sospensione di facoltà e diritti derivanti da provvedimenti dell’amministrazione". Bisogna anche considerare l’articolo 11, che sembra riferirsi solamente alle sanzioni accessorie facoltative (questo si evince dalla lettera della disposizione), ma che per diffusa opinione esprime invece un principio più generale. L’articolo stabilisce, quanto alla commisurazione della sanzione, che si abbia riguardo "alla gravità della violazione, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche". Come appare in maniera evidente, questi criteri di commisurazione sono gli stessi che la legge prevede anche per la commisurazione della sanzione amministrativa pecuniaria (che, come abbiamo già visto, è il tipo di sanzione centrale, nell’ottica della legge 689). Questo non può che portare a concludere per la configurabilità anche di simili misure interdittive come sanzioni e, ancor più, deve far riflettere come tali sanzioni siano qualificabili in maniera uniforme rispetto alle sanzioni amministrative pecuniarie.

Come però si è già accennato in inizio di paragrafo, non bisogna sottovalutare le esigenze contingenti che hanno portato a tale disciplina specifica all’interno della legge 689/1981. Così bisogna rilevare che non ci si trova di fronte ad una vera e propria disciplina-cornice in tema di sanzioni amministrative interdittive, e che rimangono invariati alcuni problemi preesistenti, primo fra tutti quello concernente l’individuazione di criteri distintivi tra sanzioni interdittive e misure interdittive non sanzionatorie. I criteri individuati dalla dottrina si sono susseguiti numerosi, e mai si è riuscito ad individuarne uno che godesse di consensi diffusi e di applicazione durevole. Qui si vogliono segnalare solamente quelli di maggior importanza, premettendo che la trattazione non sarà esaustiva e che altri criteri, anche profondamente differenti, trovano talvolta una certa eco in dottrina.

Il primo criterio identifica nella distinzione tra sanzioni interdittive e misure interdittive non sanzionatorie l’esercizio di potestà differenti, che si manifestano con presupposti, caratteri e interessi diversi. Ad esempio, riguardo all’istituto della revoca, si è notato come quando costituisce sanzione interdittiva tutela un interesse primario differente rispetto a quello tutelato con l’emanazione del provvedimento revocato. Un secondo ordine classificatorio identifica come sanzioni le misure amministrative interdittive che si pongono in rapporto di accessorietà e di complementarità con le sanzioni amministrative pecuniarie: infatti, l’identità dei presupposti che stanno alla base dell’esplicarsi della potestà amministrativa ha come conseguenza l’attribuzione del carattere sanzionatorio anche a tali misure interdittive. Un terzo importante criterio è quello che riconosce come sanzioni amministrative quelle misure interdittive che siano graduate in funzione della gravità della violazione (criterio, questo, che caratterizza tipicamente il genus delle sanzioni amministrative in senso stretto). In ultimo va considerato un ulteriore criterio che distingue tra revoca e sanzioni interdittive. L’esercizio della prima sarebbe contraddistinto da una tecnica valutativa relazionata agli svolgimenti futuri dell’attività legittimata dal provvedimento revocabile. Al contrario, l’esercizio della potestà di infliggere sanzioni interdittive trova parametro di riferimento solo nelle condotte pregresse che appunto possano giustificare l’irrogazione di una sanzione.

A noi sembra che tutti i criteri distintivi sopra enunciati possano vantare un certo fondamento e che risultino applicabili, a seconda dei casi, disgiunti o congiunti. Peraltro, come già si era detto, manca una uniformità e una univocità nella prospettiva di identificare sanzioni amministrative interdittive e altre misure interdittive della Pubblica amministrazione, che sanzioni non sono.

Bisogna dire che nemmeno aiuta un’attenta esegesi del diritto positivo: infatti un problema, da sempre considerato, delle misure interdittive è quello che il carattere sanzionatorio non è facilmente desumibile dal testo della disposizione. Spesso infatti sono disciplinate allo stesso modo misure interdittive con caratteri sanzionatori e misure di diverso genere. E la distinzione riesce comprensibile solo a seguito di un’attenta attività interpretativa; solo, in pratica, dopo aver operato la trasformazione della disposizione in norma. Tale problematica è stata utilizzata fin da tempi piuttosto lontani per negare che il profilo sanzionatorio sia effettivamente un elemento differenziale di alcune misure interdittive. A prospettare simili conclusioni si può giungere anche analizzando la fattispecie della sospensione della patente di guida: questa si qualifica in alcune circostanze come provvedimento sanzionatorio di un pregresso comportamento illecito; altre volte è invece una sorta di misura cautelare che precede o addirittura prescinde dall’accertamento di comportamenti contra ius. Peraltro la normativa in tema di sospensione della patente di guida non distingue con chiarezza tra le due ipotesi e non prevede procedure di applicazione differenti per la sospensione-sanzione e per la sospensione priva di carattere sanzionatorio (si pensi ad esempio alla sospensione per mancanza dei requisiti di idoneità alla guida).

Da queste riflessioni scaturisce come facile conclusione la mancata tipizzazione delle sanzioni amministrative interdittive. Questo perché la legge, nel disporre misure interdittive (pur con carattere sanzionatorio), non evidenzia mai gli elementi specializzanti della disposizione sanzionatoria rispetto a quella non sanzionatoria. Una simile incertezza classificatoria riguardo alle misure interdittive appare ancora più grave a seguito dell’entrata in vigore della legge 689/1981. Infatti risulta difficile stabilire se e quali misure interdittive di carattere sanzionatorio debbano rientrare nella disciplina generale stabilita dalla legge; risulta inoltre ancora più difficile fissare un criterio certo per operare la distinzione tra provvedimenti con o senza caratteri di sanzione. Si può dire che tale incertezza sia stata recepita dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore della legge 689, ha cercato di estendere alcune garanzie (soprattutto circa il rispetto del contraddittorio) anche alle sanzioni interdittive, facendo peraltro ricorso non direttamente alla legge citata, bensì ai principi generali del giusto procedimento.

A voler trarre qualche conclusione in ordine ai problemi sopra prospettati, sembrerebbe assai agevole concludere che a poco o a nulla rileva operare a tutti i costi una distinzione tra sanzioni amministrative interdittive e altre misure interdittive che non possiedono caratteristiche sanzionatorie. In effetti vi è chi sostiene che la sanzione interdittiva si risolverebbe in una garanzia per l’interesse della Pubblica amministrazione, piuttosto che in una pena. In sostanza, attraverso il provvedimento sanzionatorio, l’amministrazione otterrebbe il vantaggioso risultato di ostacolare un soggetto inidoneo. In questa prospettiva, il fatto illecito altro non sarebbe che un metro per misurare l’inidoneità di un determinato soggetto a svolgere un certo tipo di attività o ad essere parte di un determinato rapporto. Si mettono così in luce non le finalità punitive, ma il più importante fine dell’amministrazione di proteggere direttamente gli interessi pubblici. Ad accogliere una simile tesi, bisognerebbe arrendersi di fronte alla sostanziale omogeneità delle fattispecie interdittive con o senza carattere sanzionatorio. E una simile conclusione non appare neppure in contrasto con la disciplina tracciata dalla legge 689/1981, in quanto, come specificato più sopra, tale legge tratta delle sanzioni amministrative interdittive nei limiti in cui si presentino come sanzioni accessorie alle "principali" sanzioni amministrative pecuniarie. A noi peraltro sembra che una simile conclusione, che pur avrebbe il pregio di eliminare alcuni problemi classificatori di difficile soluzione, violerebbe lo spirito della riforma operata dal legislatore del 1981. Infatti a noi sembra che, al di là del dettato letterale, tale legge voglia porre dei principi generali per tutti i provvedimenti sanzionatori della Pubblica amministrazione che si possano qualificare, per rifarci alla definizione di Zanobini, come "pene in senso tecnico". Certo queste affermazioni portano con sé rischi non indifferenti: accettando una simile prospettazione bisogna far fronte a tutte le difficoltà interpretative di cui già si è detto per comprendere quando veramente le misure interdittive abbiano una vocazione sanzionatoria in senso stretto. A noi sembra che si possano utilizzare gli stessi criteri contenuti nella legge 689 per le sanzioni amministrative pecuniarie. In sostanza bisogna verificare quando la misura assolva a funzioni di prevenzione generale (quando cioè abbia una finalità intimidatrice e dissuasiva nei confronti di possibili trasgressori) e di prevenzione speciale (quando cioè miri a neutralizzare il soggetto responsabile di comportamenti illeciti pregressi). La figura che così deriva, a ben guardare, avrebbe omogenee finalità con le pene accessorie di diritto penale a contenuto interdittivo, anch’esse infatti volte alla realizzazione di una funzione special-preventiva e al contempo general-preventiva.

Ci sembra necessario, in conclusione di queste riflessioni sulle misure interdittive, precisare che qualunque delle due strade prospettate si voglia seguire, un nucleo, pur piuttosto ristretto, di misure interdittive sanzionatorie, rientra senza dubbio sotto i principi generali delineati dalla legge 689. Si tratta cioè delle "sanzioni accessorie facoltative, alludendosi non solo alle ipotesi in cui l’organo irrogante può applicare o non applicare la sanzione accessoria, ma anche a quei casi in cui la durata della misura interdittiva va determinata in concreto all’interno di un minimo e un massimo fissati per legge".

 

Par. 4 – Le sanzioni ripristinatorie.

 

Il rapporto tra autorità e libertà, nel nostro ordinamento, deve essere definito dalla legge. Ed è appunto sulla base delle disposizioni legislative che si devono analizzare le sanzioni amministrative, nella ricerca di una classificazione dei vari elementi che compongono il relativo potere della pubblica amministrazione.

Le tipologie di sanzioni amministrative fin qui esaminate, cioè quelle pecuniarie e quelle interdittive, senza prescindere dalle distinzioni operate nei precedenti paragrafi, rientrano, secondo l’orientamento della dottrina prevalente, nell’alveo delle sanzioni afflittive, sanzioni cioè che colpiscono direttamente l’autore dell’illecito. Solo queste sono da considerare sanzioni in senso proprio, nel senso già espresso nei precedenti paragrafi, con le vistose analogie rispetto alla cosiddetta pena criminale.

Come si è già accennato, esistono però anche altre fattispecie che nel linguaggio comune della dottrina vengono denominate sanzioni. Si tratta di quelle misure che non hanno carattere in senso stretto afflittivo e che sono caratterizzate dal fatto di incidere sul patrimonio dell’autore dell’illecito. Si potrebbe obiettare che anche e soprattutto le sanzioni amministrative pecuniarie incidono sul patrimonio del trasgressore. A ben vedere però, non è casuale l’utilizzo da parte nostra del vocabolo "trasgressore" anziché della locuzione "autore dell’illecito". È ben evidente che le due espressioni, astratte dal presente contesto, hanno il medesimo significato. Se peraltro si tratta di distinzione fra tipi di sanzioni amministrative, ci sembra che la prima evidenzi come l’attenzione della pubblica amministrazione, nel manifestare la sua potestà punitiva, si incentri sul dato di fatto di una violazione (accertata, qualunque essa sia) che peraltro si pone come semplice presupposto, non necessitante di alcuna attività valutativa, per irrogare una sanzione alla persona (fisica o giuridica che sia). Dunque il presupposto della violazione perde totalmente di importanza nel momento in cui la pubblica amministrazione decide di comminare una sanzione. Nel secondo caso invece, è proprio il tipo di violazione che costituisce, nella fase dell’accertamento come nella fase dell’irrogazione, il centro attorno al quale ruotano gli interessi della pubblica amministrazione. Forse questa particolare situazione può risultare più chiara se si fa riferimento agli illeciti in materia edilizia. La demolizione del fabbricato abusivo, infatti, evidenzia come proprio la riduzione in pristino sia l’unico oggetto cui tende l’attività dell’amministrazione. In sostanza, non si ha più, in questo caso, una volontà afflittiva che ha come destinatario ultimo il cittadino, bensì si ha una volontà in senso lato afflittiva che però è strumento, per la pubblica amministrazione, per perseguire i suoi fini (come ad esempio la tutela del paesaggio, etc.).

Le fattispecie sanzionatorie delineate in tal modo sono principalmente quelle cosiddette "ripristinatorie". Sanzioni cioè che colpiscono direttamente la res e che hanno come fine la reintegrazione dell’interesse pubblico leso.

Ci sembra opportuno aprire una breve parentesi per specificare che caratteri analoghi a queste forme sanzionatorie sono propri anche delle misure che colpiscono beni provenienti da attività illecite. Anch’esse sono infatti estranee alla definizione di sanzione amministrativa in senso stretto e si risolvono soprattutto nella confisca di diritto amministrativo, di cui si parlerà diffusamente più avanti.

Se adesso proviamo a confrontare i tratti che abbiamo delineato circa le misure sanzionatorie con carattere ripristinatorio, possiamo accorgerci che essi sembrano contrastare con il concetto di sanzione amministrativa accettato dalla maggior parte della giurisprudenza e da una parte della dottrina. A noi sembra peraltro che vero contrasto non vi sia e che, in realtà, si voglia esprimere lo stesso concetto, pur prendendo le mosse da differenti punti di vista. L’orientamento cui si fa cenno comprende all’interno della locuzione "sanzione amministrativa" tutte le situazioni caratterizzate dai due seguenti elementi: da un lato, un contenuto incidente in maniera sfavorevole su una posizione giuridica del destinatario; dall’altro, la relazione del provvedimento sanzionatorio con la violazione di un precetto da parte del agente. Inoltre, secondo tale teoria, la violazione può rilevare in modo diretto (e costituisce così l’unico presupposto per l’esercizio del potere), oppure in modo indiretto, cioè, per esempio, può rappresentare solo il criterio per la determinazione in concreto dell’inidoneità del soggetto ad essere parte in un certo rapporto con la pubblica amministrazione, oppure può costituire solamente un antecedente di fatto dell’esercizio del potere, avendo creato una situazione non conforme al diritto, cui l’amministrazione è tenuta a porre rimedio.

Le sanzioni ripristinatorie dunque, secondo la teoria che abbiamo appena riportato, sarebbero innanzitutto sanzioni vere e proprie (partendo dal presupposto che si accetti come definizione di sanzione amministrativa quella molto generica e poco caratterizzante sopra riportata). Inoltre, ma qui appunto ci pare principalmente una questione solo terminologica, l’illecito si risolverebbe in "mero antecedente di fatto" rispetto all’irrogazione della sanzione, quando a noi invece sembra che, in questo genere di misure, l’infrazione sia il centro attorno al quale muove l’intera azione di ripristino posta in essere dalla pubblica amministrazione.

Altra recente dottrina ha invece trovato maggior seguito, anche se pure da simili argomentazioni a nostro parere si deve in qualche modo prendere le distanze. Secondo tale ricostruzione, le misure ripristinatorie (o riparatorie) sono da contrapporre alle sanzioni afflittive, quelle cioè aventi carattere punitivo. Ci si troverebbe così di fronte, nel parlare di sanzioni amministrative, solamente a queste due grosse categorie. In realtà tale distinzione, recepita dalla dottrina maggioritaria, è di creazione giurisprudenziale e ha la sua motivazione nella ricerca di un netto confine tra la competenza del giudice ordinario e la competenza del giudice amministrativo. Così, sarebbero sanzioni di tipo afflittivo quelle irrogate per reagire alla lesione di un diritto soggettivo, mentre sarebbero sanzioni ripristinatorie quelle giustificate dalla reazione alla lesione di interessi legittimi. Risulta evidente che tale distinzione rigida si rifà alla disciplina di riparto delle giurisdizioni tracciata dalla l. 2248/1865, all. E. Peraltro, non possiamo non accennare alle difficoltà che una simile teoria ha incontrato a seguito dell’evoluzione legislativa soprattutto in tema di abusi edilizi; evoluzione che ha di molto incrinato la rigida distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi (si pensi principalmente alle cosiddette sanzioni patrimoniali "per equivalente", di cui si parlerà in seguito).

Questo breve esame delle misure amministrative ripristinatorie ci sembra utile per mettere in luce quali siano i contrasti principali in tema di sanzioni amministrative. Come si vedrà meglio in seguito, le strade a nostro giudizio percorribili sono sostanzialmente due, e non necessariamente alternative: ci si può porre dal punto di vista settoriale del diritto amministrativo e operare distinzioni o unificazioni all’interno di tale sistema; oppure, se si vuol essere attenzione agli aspetti interdisciplinari, ci si può concentrare su tutto quanto è afflittivo (evidenziando quindi i tratti comuni tra provvedimenti di natura amministrativa, di natura penale e ibridi), e distinguere quanto così individuato da altre forme di reazione a situazioni antigiuridiche che non abbiano i caratteri dell’afflittività in senso stretto.

Circa il problema delle misure amministrative ripristinatorie, si cercherà di chiarire quanto finora detto con un’analisi esemplificativa tratta dal settore urbanistico-edilizio e ambientale. Nel paragrafo che segue, invece, si daranno alcuni cenni sulla confisca di diritto amministrativo in rapporto alla più nota confisca del sistema penale, al fine di evidenziare i caratteri comuni con le misure di cui si è trattato in questa sede.

Se quindi volgiamo la nostra attenzione al settore della repressione degli illeciti edilizi, dobbiamo notare come l’intreccio fra misure sanzionatorie amministrative e penali appaia qui con particolare evidenza e in termini esemplari.

La disciplina urbanistica, e conseguentemente edilizia, mira a proteggere e tutelare situazioni giuridiche diverse la cui rilevanza porta, se c’è violazione, a compromettere interessi diversi.

In effetti vengono o possono venire in conflitto interessi diversi. Da un lato l’antico jus aedificandi, che è un diritto perfetto collegato all’espansione del diritto di proprietà. Chi ha la proprietà del suolo ha il potere, direttamente protetto dall’ordinamento, di costruire fino a dove gli è consentito dalla tecnica. In qualche modo potrebbe riprendersi la concezione romanistica dell’espansione del diritto usque ad sidera, che se assiste la sovranità dello Stato sul proprio territorio, con le limitazioni riconosciute anche da convenzioni internazionali, tutela anche la posizione di vantaggio del proprietario del fondo, titolare del "dominio utile", come si è scritto spesso, sicché la sua facoltà edificatoria non può essere limitata che da considerazioni oggettive. In qualche misura, potrebbe farsi riferimento all’articolo 42 della Costituzione, in materia di proprietà, che in buona parte riecheggia l’articolo 832 del codice civile.

Ma proprio questo riferimento, che riprende l’antica concezione dello jus utendi et abutendi riconosciuto al proprietario, vincolando invece la proprietà alla sua "funzione sociale", sottolinea la relatività del diritto (o dei diritti) del proprietario attenuando la concezione quiritaria del diritto, che può affievolirsi quando sia avviato un procedimento espropriativo o trasformarsi in interesse legittimo quando i vincoli fissati dalla legge ne limitino le capacità espansive, astrattamente incomprimibili.

Sorge qui, allora, l’interesse pubblico alla utilizzazione del diritto edificatorio, secondo le regole fissate dalle leggi che mirano a proteggere l’utilizzazione del territorio contemperando l’interesse del singolo (proprietario) con le esigenze della comunità, o anche con altri interessi meritevoli di tutela.

La disciplina urbanistica, dai primi timidi cenni del 1865, alla legge 1150 del 1942, alle successive normative, non sempre di agevole decifrazione, si radica in questa duplicità di situazioni giuridiche da garantire e da qui scaturiscono gli strumenti repressivi, sanzionatori, sia in campo amministrativo che in campo penale, per ristabilire un ordine che si assume violato.

All’inizio, l’intervento sanzionatorio si limita all’aspetto amministrativo e per taluni aspetti civili, la violazione urbanistica o edilizia configurandosi quale inosservanza di prescrizioni amministrative (tipica la costruzione senza licenza) o quale limitazione dei diritti soggettivi di terzi (per esempio il mancato rispetto delle distanze o di servitù di vario genere).

Ma l’aumento dell’abusivismo edilizio e la difficile capacità dissuasiva delle misure sanzionatorie amministrative (rese anche più incerte dalle varie sanatorie susseguitesi), hanno convinto e costretto il legislatore a identificare una condotta penalmente rilevante nella trasgressione di norme urbanistiche, con la configurazione di ipotesi di reati, come tali suscettibili di sanzioni penali, ben al di là delle blande prescrizioni (contravvenzionali) dell’articolo 41 della legge urbanistica 1150/1942.

Ad oggi, dopo la legge 1902/1952, dopo la legge 64/1974, dopo la legge 10/1977 sono previste ammenda e arresto per l’esecuzione di opere in assenza o in difformità dalla concessione edilizia e a tali pene non sono applicabili sanzioni sostitutive ai sensi della legge 689/1981.

Com’è evidente, queste sanzioni, sulle quali si è formata una cospicua giurisprudenza, sono dirette a tutelare un interesse generale e a reprimere violazioni di norme imperative della pubblica amministrazione.

Ma questo, se pure può avere un effetto deterrente sul costruttore abusivo, non è sufficiente ad impedire che la violazione dell’ordine edilizio sia portata a compimento e dispieghi i suoi effetti dannosi per quegli interessi pubblici che sono affidati alle cure della pubblica amministrazione.

A questo servono, e con maggiore efficacia, le sanzioni amministrative (che peraltro abbiamo visto non sono sanzioni in senso stretto), che si radicano su un interesse giuridico parzialmente diverso e che incidono direttamente sia sull’attività costruttiva, sia sulla posizione del responsabile dell’abuso o del proprietario della costruzione. Anzi, a questo proposito può rilevarsi che mentre la sanzione penale colpisce chi ha commesso il reato, per il principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, la sanzione (in senso lato) amministrativa può anche coinvolgere chi non ha responsabilità, per il solo fatto di essere proprietario del bene oggetto o causa dell’abuso edilizio.

Certamente la sanzione più radicale è la demolizione della costruzione abusiva, il cui carattere ripristinatorio non richiede ulteriori illustrazioni.

Accanto ad essa si pongono sanzioni pecuniarie, sanzioni ablatorie, sanzioni fiscali.

Particolare attenzione esercitano le sanzioni ablatorie, per le quali le opere abusive, se non sono tempestivamente demolite, vengono gratuitamente acquisite al patrimonio indisponibile del Comune, insieme con "l’area su cui insistono", realizzandosi una fattispecie di notevole interesse anche perché il proprietario dell’area può non essere il costruttore abusivo, ma viene egualmente sanzionato nella presunzione -che sembra assoluta- che sia stato a conoscenza dell’abuso, tollerandolo, o che comunque non abbia esercitato una sufficiente vigilanza.

Un altro settore nel quale interessi privati ed interessi pubblici si intrecciano con possibile duplicazione di interventi sanzionatori in caso di violazioni, è quello della tutela dell’ambiente.

Si tratta di un tema in larga misura nuovo, la cui disciplina potrebbe trovare fondamento negli articoli 9 e 32 della Costituzione, in parte attenendo alla tutela del paesaggio, in parte riferendosi alla protezione della salute.

In effetti, superata la discussione sulla stessa identificazione del concetto di ambiente, e limitandoci, per quanto qui interessa, alle acque, all’atmosfera e all’acustica, appare di immediata evidenza che la protezione di tali beni dall’inquinamento derivante da interventi dell’uomo corrisponde a un interesse generale che può concretarsi in procedimenti amministrativi e in conseguenti misure sanzionatorie in caso di violazione, ma anche in pene criminali quando l’intervento inquinante abbia posto o ponga in pericolo beni fondamentali dei singoli o della collettività.

Soprattutto la disciplina delle acque, nelle molteplici configurazioni che possono assumere (pubbliche e private; potabili e industriali; minerali e termali; marine e fluviali, e si potrebbe continuare) hanno dato origine a una legislazione complessa che ben può considerarsi emblematica dei diversi interventi possibili anche in sede sanzionatoria per la tutela dei beni ambientali e del loro corretto utilizzo. Si tratta di materia già di per sé di difficile sistemazione che ha trovato anche ulteriori aspetti di difficoltà con i trasferimenti di competenze amministrative dallo Stato alle Regioni (la cui potestà in materia di acque sembrerebbe limitata a quelle minerali e termali) operata prima con gli articoli 90 e 101 del d. lgs., 24 luglio 1977, n°616 e, da ultimo, con d. lgs. 31 marzo 1998, n°112, attuativo della delega contenuta nella legge 15 marzo 1997, n° 59.

Anche nell’antichità vigeva una disciplina delle acque con conseguente regime sanzionatorio per la violazione delle regole e i passi di Ulpiano ripresi nel Digesto (si vedano, per esempio, D. 43. 12. 1. 1 – 3; 43. 12. 1. 12; 43. 13. 1. 2) disegnano uno ius aquarum che si fondava su un regime centralizzato delle acque, con una protezione che trovava in numerosi "interdetti" una tutela che nell’ottica odierna si potrebbe definire in parte amministrativa e in parte penale, con notevoli risvolti civilistici, quando l’utilizzazione dell’acqua si fondava su una situazione giuridica direttamente protetta (per esempio una servitù).

Più di recente il regime delle acque pubbliche ha dato origine a provvedimenti concessori di utilizzazione con la previsione di sanzioni talvolta amministrative (revoca della concessione), ma spesso penali, per reati contravvenzionali commessi in violazione delle norme di polizia idraulica.

Ma è con la legge 319 del 10 maggio 1976 (legge Merli), attuativa di numerose direttive comunitarie, secondo una diffusa opinione, che il problema delle acque acquista una nuova rilevanza, in relazione all’esigenza di protezione delle acque medesime da possibili inquinamenti, con una disciplina assistita da sanzioni amministrative e penali in relazione alle possibili violazioni dei parametri e delle procedure previste dalla legge riguardo alla diversa tipologia degli scarichi.

La regolamentazione di tali scarichi prevede la richiesta e il rilascio di un’autorizzazione amministrativa (articolo 9, ultimo comma, legge 319) e la mancanza di tale autorizzazione configura una contravvenzione punita con l’arresto.

Può peraltro accadere che gli scarichi o già esistenti o nuovi non corrispondano, ab origine o successivamente, ai limiti di accettabilità previsti dalla legge, o comunque non siano stati adeguati a tali limiti nei tempi previsti dalla legge.

In tali ipotesi l’autorizzazione viene negata e, se già concessa, viene revocata, sicché si configura una fattispecie di scarico non autorizzato con le conseguenze di carattere penale di cui si è già detto.

Anche l’inquinamento atmosferico è oggetto di normativa, principalmente risalente alla legge 615 del 13 luglio 1966, poi variamente modificata e integrata, per controllare l’introduzione nell’atmosfera da parte dell’uomo, direttamente o indirettamente, di sostanze o di energia con effetti nocivi tali da mettere in pericolo la salute dell’uomo, danneggiare le risorse biologiche e gli ecosistemi, deteriorare i beni materiali e nuocere ai valori ricreativi e agli altri usi legittimi dell’ambiente.

La legge 615 prevede rigorose misure per garantire che gli impianti che causano emissioni nell’atmosfera siano conformi a parametri che limitino o evitino inquinamenti e prescrive l’approvazione degli impianti da parte dell’autorità amministrativa.

La mancata approvazione, che in sede amministrativa blocca l’installazione dell’impianto, qualora non venga rispettata costituisce un reato punito con l’ammenda ai sensi di legge.

Può essere interessante rilevare che nella sua sentenza n° 3589, depositata il 16 aprile 1996, la Corte di cassazione ha sottolineato che nel settore ambientale l’autorizzazione svolge non solo una funzione abilitativa, cioè di rimozione di un ostacolo all’esercizio di talune facoltà, ma assume anche un ruolo di controllo del rispetto della normativa e dei correlati standards e consente il cosiddetto monitoraggio ecologico, sicché la mancanza di detto provvedimento incide su alcuni interessi protetti dal precetto penale.

Come si vede, l’intreccio tra attività amministrativa che in sede di controllo può concludersi con la misura sanzionatoria del diniego di autorizzazione (o approvazione del progetto), in sede penale può fondare una sanzione per violazione di una norma che integra un comportamento contravvenzionale.

D’altra parte, come ricorda ancora la Cassazione, l’omessa valutazione della pubblica amministrazione impedisce quella conoscenza ed informazione ambientale e quel controllo nell’attività cui sono deputati il procedimento autorizzatorio e le relative sanzioni in caso di disobbedienza ai precetti penali, comportano per ciò solo un’effettiva conseguenza pericolosa, in quanto conoscenza ed informazione sono strumenti necessari per la prevenzione.

Considerazioni analoghe potrebbero proporsi per gli altri aspetti della tutela ambientale, poiché è costante l’intreccio tra sanzione amministrativa, che può appunto consistere nella misura negativa conseguente al controllo, tanto in fase preventiva quanto in fase repressiva, e sanzione penale che invece colpisce un comportamento posto in essere in violazione di regole procedimentali o sostanziali stabilite dalla legge a tutela di interessi collettivi.

Questo vale anche per l’inquinamento acustico, e correttamente il T.A.R. Lombardia, sez. III, Milano, con sentenza n° 2235 del 29 dicembre 1997, ha stabilito che un corretto procedimento di azzonamento acustico deve necessariamente muovere dalla considerazione che la qualificazione e il dimensionamento delle zone in cui il territorio viene suddiviso sono condizionati in misura determinante dalla tipologia delle sorgenti sonore presenti nelle zone stesse, dai livelli di rumore prodotti da quelle e quindi anche dallo spazio occorrente per garantirne un adeguato abbattimento.

Anche in questo caso, se trascuriamo le varie soglie di tollerabilità del rumore, oggetto anche di numerose direttive comunitarie, dobbiamo rilevare da un lato la competenza del Ministero dell’ambiente a determinare i limiti massimi di tollerabilità delle emissioni sonore, da recepirsi in un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, dall’altro la sanzione prevista dall’articolo 659 del codice penale (arresto e ammenda) per l’ipotesi di comportamento che rechi disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone, nel che si fanno correttamente rientrare anche le ipotesi di inquinamento acustico.

 

 

 

Par. 5 – La confisca amministrativa.

 

Riguardo alla confisca, la dottrina più antica concordava nel ritenere quella amministrativa e quella penale come due aspetti di un unico istituto di diritto sostanziale. Tale teoria è stata peraltro ben presto abbandonata, per distinguere nettamente le due figure: così la confisca penale viene caratterizzata per la sua finalità spiccatamente special-preventiva; la confisca amministrativa, invece, viene considerata una misura dalle connotazioni eminentemente repressive.

L’evoluzione normativa ha però messo in luce i limiti anche di questa rigida impostazione. E, allo stato attuale, risulta quanto mai necessario, nell’analisi dell’istituto, tenere conto sia delle innovazioni apportate in campo penalistico (si fa riferimento a tutti i casi di confisca diversi da quelli ricompresi nell’art. 240 del codice penale), sia di quelle apportate in campo amministrativo dall’entrata in vigore della legge 689/1981 e da numerose leggi speciali.

La legge 689, contenente "Modifiche al sistema penale", ha portato profonde innovazioni nel sistema della confisca amministrativa, mutuando alcuni principi già previsti dal codice penale. Vengono infatti trasferiti anche in campo amministrativo il "finalismo special-preventivo e l’eventuale rifrangenza soggettiva della pericolosità che sono tipiche della confisca-misura di sicurezza". Di centrale importanza a questo proposito è la previsione contenuta nell’art. 20, che sancisce il criterio personalistico anche nell’applicazione della confisca, con l’espresso divieto di confiscare beni appartenenti a terzi.

Questo tentativo di delineare i principi fondamentali della confisca amministrativa, operato dalla legge 689, non trova peraltro corrispondenza nel panorama offerto dall’insieme della legislazione in materia: come si vedrà qui di seguito, infatti, la confisca amministrativa si caratterizza tuttora come un istituto comprendente fattispecie in sostanza differenti.

Un primo tipo di confisca sul quale è opportuno soffermarsi è quello previsto dalla recente legislazione urbanistica. In tale sede infatti sono previste delle ipotesi di confisca ex lege. In particolare è prevista l’acquisizione gratuita delle opere abusive come automatica conseguenza dell’inottemperanza dell’ordine di demolizione. Emerge chiaramente come in tale figura sia predominante il carattere oggettivo (a scapito del principio di "personalità"), in quanto si colpisce con tale confisca il proprietario, e si prescindere da una sua diretta responsabilità nella fattispecie abusiva.

Altra forma di confisca da segnalare per le sue peculiarità rispetto alla disciplina tracciata dalla legge 689, è quella conseguente di diritto allo scioglimento delle associazioni fasciste e delle associazioni segrete. L’anomalia che distingue questa confisca è duplice: innanzitutto non riguarda solo uno o più beni determinati, ma si configura tout court come "confisca dei beni". In secondo luogo non si pone né come sanzione autonoma, né come sanzione accessoria, risolvendosi in una conseguenza automatica allo scioglimento dell’associazione (in sostanza è una misura che ha come esclusiva finalità quella di rendere effettivo lo scioglimento dell’associazione).

Un terzo genere piuttosto ampio è quello della confisca utilizzata come strumento di prevenzione. Si pensi ad esempio alle numerose disposizioni circa il ritiro dal commercio di prodotti alimentari pericolosi. In tal caso, come nel primo che abbiamo esaminato, non vi è più alcun legame personalistico, ma su basi obiettive la pubblica amministrazione mira a prevenire i danni potenzialmente derivanti dal commercio di tali prodotti. Inoltre è da notarsi come sia prevista la confisca dei soli generi alimentari nocivi, e non anche dei relativi mezzi di produzione. Anche questo aspetto conferma come l’unico interesse della pubblica amministrazione sia proprio quello di impedire una situazione potenzialmente pericolosa.

Per ultimo, rimane da far riferimento al modello generale tracciato dalla legge 689/1981 e ripreso da numerose leggi speciali. In queste ipotesi, la confisca si configura, riprendendo una definizione già utilizzata precedentemente, come pena in senso tecnico. Sembra dunque netta (limitatamente a queste ipotesi) la sua collocazione all’interno delle sanzioni amministrative in senso stretto, sia in via principale (anche se piuttosto raramente), sia, più spesso, con veste di sanzione amministrativa accessoria. In ogni caso, si configura come sanzione volta sia alla general-prevenzione che alla special-prevenzione. Ma soprattutto, come già si accennava, questo tipo di confisca si caratterizza per il principio di "responsabilità personale" con cui viene applicata.

Come è emerso dall’analisi, le fattispecie riunite sotto il nomen juris di confisca amministrativa sono in realtà profondamente differenziate fra di loro e non tutte possono essere ricomprese nel genere delle sanzioni amministrative in senso stretto. Con maggior precisione, possiamo ricomprendere in tale categoria solamente le ultime due trattate, ovvero la confisca intesa come una sorta di misura di sicurezza e la confisca come pena in senso tecnico. E, se si valuta l’evoluzione legislativa successiva all’entrata in vigore della legge 689, si può senz’altro affermare che la tendenza prevalente è quella di incrementare proprio la confisca disciplinata da tale legge. Quanto invece alle altre fattispecie pure denominate "confisca", per i motivi che più sopra abbiamo esaminato, non possono essere ricomprese fra i provvedimenti sanzionatori della pubblica amministrazione in senso stretto, e dunque si risolvono in altre prospettazioni del concetto di sanzione amministrativa in senso ampio.

 

Par. 6 – Le sanzioni c.d. alternative o perequative.

 

Se si vuole riportare l’attenzione sulle sanzioni ripristinatorie, ci si rende conto che emerge un nuovo problema, di cui non si può tacere. È il problema delle cosiddette sanzioni alternative (o sanzioni di natura perequativa). Tali misure della pubblica amministrazione risultano applicabili, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, solo nel momento in cui non sia possibile il ripristino in forma specifica di una situazione di legalità (violata). Le sanzioni alternative sarebbero dunque mezzi sussidiari rispetto alle principali sanzioni ripristinatorie. E ad esse si uniformerebbero quanto a presupposti applicativi e ad interessi sostanziali tutelati. Dunque, in sintesi, una stessa situazione di fatto porterebbe la pubblica amministrazione a scegliere l’una o l’altra misura (ovviamente in via alternativa) solo in rapporto alla possibilità concreta o meno di ristabilire la legalità violata con l’illecito. Come appare chiaro, in tale ottica l’applicazione di una sanzione alternativa troverebbe la propria ratio giustificatrice nello scongiurare che l’inapplicabilità di una sanzione ripristinatoria possa risolversi in un vantaggio per il soggetto avente la disponibilità del bene realizzato contra legem.

Da simile ricostruzione si può dedurre agevolmente che anche a tale tipologia di sanzioni (in senso lato) siano applicabili i principi che già abbiamo analizzato occupandoci di sanzioni (rectius, misure) ripristinatorie. E così, anche in questo caso, si avrebbe la caduta del principio di personalità (in quanto viene colpito il soggetto in diretto rapporto col bene abusivo, senza alcun accertamento di una sua propria responsabilità nella realizzazione dell’abuso) e l’assenza di una finalità afflittiva nell’azione della pubblica amministrazione, essendo invece tale azione volta a riparare (in questo caso senza una vera e propria riduzione in pristino), per equità, il danno cagionato con il fatto dell’abuso.

Tale orientamento prevalente nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, trova omologa eco anche nella Corte di cassazione, in relazione alle pronunce sul riparto delle giurisdizioni. La Corte infatti, mostra la tendenza a considerare questo genere di misure come species di sanzione amministrativa, inerente a situazioni di interesse legittimo.

Come già si è messo in luce in altri punti della nostra ricerca, non ci pare accettabile una simile unificazione di tutte le fattispecie che vanno sotto la locuzione di "sanzione amministrativa". Infatti abbiamo evidenziato come sia profonda la differenza tra misure che hanno quale principale peculiarità l’afflizione e misure prive di tale carattere di "pena in senso tecnico".

Inoltre, risulta opportuna qualche ulteriore precisazione in ordine ai rapporti tra sanzioni ripristinatorie e sanzioni alternative. Anche in questo contesto bisogna considerare come punto di riferimento l’entrata in vigore della legge 689/1981. A seguito di tale legge infatti, se si considerano le sanzioni alternative come sanzioni amministrative in senso stretto, bisognerà sottoporle a un regime (quello proprio delle sanzioni amministrative pecuniarie, così come delineate dalla legge 689) differente, e di molto, da quello che abbiamo individuato per le sanzioni ripristinatorie "principali". Se si vuole evitare di accettare acriticamente una simile distinzione tra due misure che, come abbiamo visto, sono spesso considerate due facce della medesima potestà sanzionatoria (in senso lato), bisogna a nostro parere esaminare le misure alternative più nel dettaglio.

Come è agevole notare, le previsioni di sanzioni alternative si esauriscono quasi completamente nella legislazione urbanistica statale (spesso ripresa anche da quella regionale). Ad un’attenta analisi di tali fattispecie, si possono formulare due distinte argomentazioni, entrambe –a nostro giudizio- sostenibili con una certa convinzione.

Da un lato si può seguire la strada già accennata, tracciata dalla prevalente giurisprudenza, che sottolinea il carattere di sussidiarietà delle sanzioni alternative rispetto alle misure ripristinatorie. In quest’ottica, alle sanzioni alternative ben si attaglia la finalità perequativa, in quanto verrebbero irrogate solo in caso di impossibilità di irrogare le seconde. Ulteriore conseguenza è quella di sottoporre le due previsioni sanzionatorie alla medesima disciplina. Non sarebbe dunque possibile considerarle sanzioni amministrative in senso stretto, non sarebbero ad esse applicabili i principi contenuti nella legge 689/1981 e soprattutto verrebbe meno il legame diretto con il soggetto autore dell’abuso.

Altra dottrina invece individua nelle sanzioni alternative caratteri differenti rispetto a quelli che si sono individuati per le misure ripristinatorie. Si avrebbe dunque un’assimilazione, quanto alla disciplina generale, tra sanzioni alternative e sanzioni amministrative pecuniarie. Sarebbero infatti entrambe sanzioni in senso stretto. Tale argomentazione si basa sul presupposto che la alternatività rispetto alle misure ripristinatorie non implica necessariamente con queste una unitarietà di disciplina. E tramite l’analisi delle previsioni normative a riguardo, si sostiene che, anzi, le sanzioni amministrative cosiddette alternative avrebbero come presupposto necessario il rapporto diretto con l’autore materiale dell’illecito. Non sarebbero dunque irrogabili nei confronti di chiunque, dopo la perpetrazione del fatto antigiuridico, si sia trovato in relazione con il bene abusivo, ma solo nei confronti dell’autore, anche qualora questi non abbia più, al momento dell’irrogazione della misura sanzionatoria, alcun rapporto col bene in oggetto.

Altra conseguenza significativa di tale inclusione delle sanzioni alternative nel più ampio genere delle sanzioni amministrative in senso stretto, è quella di non poter quantificare la misura in relazione a circostanze esterne. Al contrario si potrà imputare al soggetto autore dell’abuso solo una sanzione quantitativamente commisurata al valore del bene all’epoca della trasgressione, senza poter tenere in conto incrementi di valore maturati in epoca successiva o in maniera consequenziale.

Come appare da questa breve analisi, ci paiono accettabili in qualche misura entrambe le teorie sopra riportate. Il pregio della prima è quello di proporre una classificazione unitaria per due forme di reazione della pubblica amministrazione (le misure ripristinatorie e quelle alternative) che presentano sicuramente molti punti in comune. La seconda teoria invece ha il merito di cercare di armonizzare l’intero sistema delle sanzioni amministrative, facendo rientrare il numero maggiore possibile di fattispecie (e, appunto, ivi comprese le sanzioni alternative) sotto i principi generali della legge 689/1981.

 

Par. 7 – Le sanzioni disciplinari.

 

Il tema oggetto del presente paragrafo è senz’altro uno dei più spinosi nel campo delle sanzioni. Peraltro, già d’ora bisogna dire che lo si affronterà solamente nella parte in cui esso inerisce alle problematiche poste dalla nostra ricerca. In sostanza, si cercherà di vedere se, ed entro quali limiti, le sanzioni disciplinari rientrino nel novero delle sanzioni amministrative, in uno dei due significati fino ad ora emersi. Per fare questo è prima necessario tracciare in sintesi gli elementi caratteristici di tali misure.

Occorre in primo luogo precisare che le sanzioni cui possono essere soggetti gli agenti degli enti pubblici in caso di inosservanza dei propri doveri, sono di tre generi diversi. In primo luogo si parla di sanzioni civili: sono quelle sanzioni che incidono sulla sfera patrimoniale del soggetto colpito, imponendo l’obbligo di risarcire il danno patrimoniale causato all’ente dalla trasgressione. Peraltro, un’attenta dottrina ha messo in dubbio il carattere sanzionatorio di tali misure, preferendo farle rientrare nell’ambito privatistico del regolamento dei rapporti patrimoniali tra le parti.

Un altro tipo di sanzione cui può essere soggetto l’agente è, ovviamente, quella penale. Tali sanzioni sono irrogate nel caso in cui la violazione posta in essere dal soggetto si sostanzi in una violazione dell’ordine sociale generale, espressamente prevista dalla legge come reato. Le sanzioni sono previste dunque non a tutela della sola amministrazione, ma dell’intera collettività.

Data la finalità del presente lavoro, bisogna tralasciare le due fattispecie sanzionatorie sopra individuate, per concentrarsi invece sul terzo tipo di sanzioni accennato più sopra, ovvero le sanzioni amministrative disciplinari.

Le sanzioni disciplinari riguardano il concetto di responsabilità amministrativa: esse vengono cioè applicate quando il soggetto, titolare di un particolare rapporto all’interno dell’ordinamento amministrativo, si renda autore di una violazione, contro la quale la pubblica amministrazione possa reagire in modo diretto (prescindendo dunque dal ricorso ad un’autorità giurisdizionale) per autotutelare il proprio ordinamento particolare.

Senza entrare nel dettaglio delle differenti tipologie di sanzioni disciplinari, si può comunque in questa sede evidenziare come il presupposto comune sia quello di uno speciale rapporto di soggezione in cui si trovano determinati soggetti, nei confronti della pubblica amministrazione da cui dipendono. Come abbiamo già ricordato in altra parte della presente ricerca, tale rapporto di soggezione può avere delle intensità variabili e può essere più o meno stabile (si pensi ancora, ad esempio, ai pubblici impiegati, agli studenti di una scuola, ai militari, ai detenuti, ai soggetti ricoverati in un luogo di cura, e così via).

Il presupposto giustificatore di una sanzione disciplinare (oltre al vincolo di soggezione di cui si è appena detto) consiste, a seconda dei casi, nella violazione da parte del soggetto del dovere di diligenza (e questo è il caso più frequente), di legalità, di rettitudine, di fedeltà o di subordinazione. Si può peraltro notare come in realtà non scatti sempre una sanzione disciplinare, quando ci si trovi in presenza dei due requisiti che abbiamo individuato. Infatti non tutte le categorie di servizio sono assoggettate al potere della pubblica amministrazione di comminare misure sanzionatorie disciplinari. Inoltre, in alcune ipotesi di servizio, vi è una potestà sanzionatoria in ambito disciplinare limitata solo ad alcune precise mancanze. Nel cosiddetto rapporto di servizio di fatto, ad esempio, le sanzioni disciplinari non solo non sono previste, ma nemmeno sono concepibili. Inoltre tali sanzioni sono assenti anche in relazione ad alcuni servizi obbligatori, che non creano un forte vincolo di soggezione tra il soggetto agente e la pubblica amministrazione.

Il settore, invece, in cui tradizionalmente trovano applicazioni le sanzioni amministrative disciplinari è quello del pubblico impiego. Senza entrare, in questa sede, nel dettaglio delle numerose forme sanzionatorie previste come reazione a illeciti disciplinari, ci si limiterà a qualche considerazione generale sui principi della materia e sulle varie sanzioni.

Il rapporto di lavoro all’interno della pubblica amministrazione è stato oggetto, nel corso dell’ultimo decennio, di profonde innovazioni. Le ultime sostanziali modifiche sono state apportate due anni orsono con le cosiddette "leggi Bassanini". Quanto all’aspetto che a noi qui interessa, però, cioè quello delle sanzioni disciplinari, le innovazioni hanno portata marginale e non hanno realmente modificato il sistema creato con la legislazione previgente e, in particolare, con la legge quadro sul pubblico impiego.

Dunque il principio cardine circa le sanzioni disciplinari in ambito di pubblico impiego è quello di legalità. Non possono essere così comminate sanzioni se non nei limiti di una previsione legislativa espressa. Come naturale corollario, tale principio porta con sé anche il principio di tassatività e il principio di determinatezza delle sanzioni disciplinari (le sanzioni devono esser previste dalla legge e devono essere puniti fatti che rientrino in categorie determinate dalla legge).

Con riferimento alle sole sanzioni previste per gli impiegati civili dello Stato, si possono ricordare la censura, consistente in una motivata dichiarazione di biasimo, prevista per le trasgressioni di lieve entità; la riduzione dello stipendio, non superiore a un quinto e non inferiore a un decimo, che viene inflitta per negligenze gravi, come, ad esempio, un contegno scorretto nei confronti del pubblico; la sospensione dalla qualifica, consistente nell’allontanamento dal servizio senza stipendio, per un periodo compreso tra uno e sei mesi; la destituzione, forma più grave, consistente nella definitiva rimozione dall’impiego.

Se cerchiamo di trarre qualche breve conclusione in materia di sanzioni amministrative disciplinari, possiamo senz’altro affermare che caratteri di somiglianza con le sanzioni amministrative in senso stretto vi sono. Basta pensare, ad esempio, al principio di riserva di legge e a quello di tassatività, per rendersi conto come l’analogia si ponga addirittura in modo diretto con le sanzioni penali. Fuori di dubbio dunque il carattere afflittivo e personale di tali misure sanzionatorie, bisogna però concludere che la loro peculiarità di fondo è da individuare nel particolare vincolo di soggezione del soggetto passivo nei confronti della pubblica amministrazione. Questo è il vero elemento differenziale di tali misure ed è a nostro parere sufficiente per tenerle nettamente distinte dalle sanzioni amministrative in senso stretto (nel senso cioè che abbiamo individuato nei paragrafi precedenti), pur dovendosi segnalare, accettato tale singolare presupposto, numerose assonanze con la sanzione amministrativa come "pena in senso tecnico".

 

Par. 8 – L’oblazione amministrativa.

 

A conclusione della nostra analisi sulle diverse fattispecie di sanzioni amministrative e dopo aver fatto emergere le differenti accezioni con cui tale locuzione viene tuttora utilizzata dalla dottrina, ci sembra opportuno accennare ad un istituto previsto dal codice penale, che peraltro presenta alcuni punti di contatto con il sistema sanzionatorio amministrativo di cui abbiamo trattato. Tale istituto è l’oblazione, profondamente innovata dalla legge 689/1981. Se in questa sede si tiene presente la distinzione operata nel capitolo precedente tra illecito penale e illecito amministrativo, possiamo specificare che l’istituto dell’oblazione è previsto in via generale per le contravvenzioni punibili con la sola ammenda, e a discrezione del giudice (ovviamente si tratta del giudice penale, che deve aver riguardo "alla gravità del fatto"), per le contravvenzioni punibili con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda. Senza entrare nel dettaglio dei casi e delle forme di oblazione (si rimanda eventualmente ai testi di legge citati in nota), si deve dire che l’oblazione consiste nel pagamento volontario di una somma di denaro alla pubblica amministrazione. Anche se in dottrina permangono notevoli incertezze riguardo al titolo con cui tale somma viene pagata, possiamo fondatamente ricondurlo al genere delle pene amministrative. La diretta conseguenza del pagamento è l’estinzione del reato (o, secondo alcuni, la condizione risolutiva della fattispecie penale). Il fatto che peraltro a noi più interessa, è che la controversia, altrimenti destinata a trovare una sua soluzione in ambito giurisdizionale penale, si sposta così invece all’interno del sotto-ordinamento amministrativo. Si ha dunque un importante passaggio dall’ordinamento generale a un ordinamento particolare. Tale spostamento è stato da una parte della dottrina paragonato a quanto succede quando "le controversie tra privato e amministrazione vengono risolte in sede di ricorso amministrativo".

Il meccanismo che può concludersi con l’oblazione e la conseguente estinzione del reato, si apre con la contestazione della contravvenzione da parte di un agente, in linea con l’esercizio della prerogativa di autotutela amministrativa già ricordata. A questo punto possono, per il soggetto passivo, prospettarsi due differenti soluzioni: o il pagamento immediato nelle mani dello stesso agente (ed è il caso delle contravvenzioni di minore gravità), oppure il pagamento presso gli uffici dell’amministrazione (e questo sia nel caso in cui il soggetto passivo non si sia voluto avvalere dell’oblazione in via breve, sia nel caso in cui tale pagamento non sia ab origine previsto, per la particolare entità della contravvenzione). Bisogna inoltre ricordare che, mentre nel caso di pagamento in via breve la somma da pagare è sempre stabilita in modo tassativo dalla legge, qualora si opti per il pagamento presso gli uffici vi è sovente un potere discrezionale della pubblica amministrazione quanto all’individuazione della somma (anche in questo caso ci si trova di fronte a un’espressione del potere di autotutela amministrativa).

Da ultimo, bisogna ricordare che sono previste forme analoghe all’oblazione anche per alcuni delitti (anche se in via del tutto eccezionale). Una forma di "conciliazione amministrativa" è prevista per i casi di contrabbando (e reati affini) punibili con la sola pena della multa. In tal caso si ha l’estinzione del reato a seguito del pagamento di una somma di denaro fissata con decisione dell’autorità amministrativa, sempre che il soggetto passivo chieda di risolvere in tal modo la controversia prima che la competente autorità abbia trasmesso il verbale di accertamento del reato all’autorità giurisdizionale.

 

Par. 9 – Le sanzioni comunitarie.

 

Il progressivo e ormai irreversibile sviluppo delle istituzioni comunitarie ci porta ad affrontare un problema ancora poco approfondito ma che, a nostro parere, avrà negli anni a venire una indiscussa centralità in tema di provvedimenti sanzionatori di natura amministrativa. Si tratta appunto del potere sanzionatorio dell’Unione europea. Le problematiche connesse alla definizione di tale potere meriterebbero sicuramente un capitolo a parte e non si nega che un maggior approfondimento avrebbe certo uno stimolante interesse. Peraltro, per non sviare troppo l’attenzione dalla finalità ultima della nostra ricerca, proveremo a sintetizzare (senza pretesa di completezza) tali complesse problematiche in un unico, denso paragrafo.

Il generale problema della potestà sanzionatoria degli organi comunitari ha assunto importanza sempre maggiore con il nascere in capo all’Unione di interessi qualificabili come propri, e cioè differenti da quelli degli Stati membri. Questo postulato ha ovviamente portato con sé il problema della protezione di tali interessi, protezione che è apparsa perseguibile in via autonoma e con strumenti autonomi rispetto a quanto previsto per la protezione degli interessi dei singoli Stati.

Peraltro, accanto alla presenza di simili incisivi interessi (soprattutto si pensi al campo finanziario), non vi è traccia (almeno, non ancora) di una potestà penale volta alla loro tutela e alla loro salvaguardia. È infatti ben noto che l’autonomia dell’Unione è relativa, nel senso che sono gli Stati membri che hanno il potere di modificare i Trattati istitutivi e solo gli Stati membri possono conferire poteri all’Unione. Da ciò deriva che quest’ultima non potrà mai imporre (al di fuori di quanto previsto dai Trattati) la propria autorità a danno della volontà sovrana dei singoli Stati membri. Inoltre, secondo autorevole dottrina, all’attribuzione all’Unione di competenze penali osta anche il cosiddetto "deficit democratico". Quest’espressione significa che il principio di legalità, nel significato storico fatto proprio da tutti gli Stati membri, non potrebbe trovare applicazione, per l’assenza di uno stretto legame tra l’esercizio del potere penale e la rappresentatività dell’organo competente ad esercitare tale potere.

L’unica strada percorribile dunque dagli organi dell’Unione per tutelare i propri interessi è parsa quella della potestà sanzionatoria amministrativa. Simile cammino, pressoché sprovvisto di riferimenti normativi comunitari espressi, ha trovato applicazione soprattutto in via di prassi, peraltro avvallata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.

È senza dubbio da segnalare come il percorso per una definitiva legittimazione del potere sanzionatorio comunitario si sia dispiegato in varie fasi, ognuna caratterizzata da soluzioni differenti, legate al diverso rapporto creatosi nel tempo tra Unione e Stati membri.

Una prima fase vede, in via generale, la netta separazione tra l’ordinamento comunitario e i singoli ordinamenti degli Stati membri. In questo sistema la tutela degli interessi propri dell’ordinamento comunitario prende le forme del cosiddetto "principio di assimilazione". Secondo tale principio, la Comunità si avvale delle varie fattispecie sanzionatorie previste all’interno dei singoli ordinamenti statuali, e la tutela si risolve nell’imporre (con interventi dunque di carattere negativo) ai singoli Stati di adottare a difesa degli interessi comunitari le proprie misure sanzionatorie, in forme e gradazioni non inferiori a quelle poste in essere per la tutela degli interessi interni al singolo Stato. Le due tappe fondamentali per arrivare a simili conclusioni, sono state senz’altro i celebri casi "Amsterdam Bulb" e "Mais Greco", rispettivamente del 1977 e del 1988. Senza volersi addentrare nelle complesse distinzioni fra i due leading cases, possiamo ricordare che, con la seconda pronuncia, la Corte di giustizia arriva ad affermare che "qualora una disciplina comunitaria non contenga una specifica norma sanzionatoria di una violazione o che rinvii in merito alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative nazionali, l’articolo 5 del Trattato impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte a garantire la portata e l’efficacia del diritto comunitario. A tale fine, pur conservando la scelta delle sanzioni, essi devono segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere di effettività, di proporzionalità, e di capacità dissuasiva".

L’adozione di un simile principio mostra però ben presto i suoi limiti. Infatti, anche a livello istituzionale, la concezione rigidamente dualistica lascia spazio a quella monistica che, a tutt’oggi, sembra destinata a sempre maggiore consolidazione. In campo sanzionatorio, uno schema come quello che abbiamo illustrato porta con sé il rischio di disparità di trattamento tra i vari Stati membri. Infatti, la stessa fattispecie poteva essere diversamente sanzionata a seconda del diverso grado di evoluzione dei singoli Stati in materia sanzionatoria amministrativa. È così che si addiviene alla seconda fase. L’unione, infatti, resasi conto dei rischi di disomogeneità derivanti dall’applicazione del principio di assimilazione, pone in essere, soprattutto a tutela dei propri interessi finanziari, una serie di regolamenti (cioè di fonti normative direttamente applicabili all’interno degli Stati membri) contenenti essi stessi la previsione di specifiche sanzioni in reazione a violazioni di norme comunitarie. Questo nuovo schema sanzionatorio mette quindi da parte l’azione attraverso le amministrazioni degli Stati membri e si rivolge direttamente ai soggetti comunitari, lasciando alle singole amministrazioni margini di discrezionalità molto ristretti. Tale nuovo orientamento è suggellato, a livello di giurisprudenza della Corte di giustizia, dal noto caso "Repubblica federale tedesca vs. Commissione delle Comunità europee". In questa pronuncia la Corte, oltre a soffermarsi su importanti questioni quali la ripartizione di competenze tra Consiglio e Commissione, esamina il problema più generale della competenza della Comunità ad emanare sanzioni, distinguendo ovviamente tra sanzioni amministrative e sanzioni penali. In tale sede, viene sancita la legittimazione dell’Unione di stabilire proprie forme sanzionatorie, che saranno poi demandate, quanto alle modalità applicative, alle amministrazioni dei singoli Stati membri. Altro discorso –è bene sottolinearlo- è quello che verrà successivamente in evidenza e che riguarda la possibilità da parte dell’Unione anche di applicare le sanzioni poste a tutela degli interessi suoi propri. Se esaminiamo le statuizioni contenute nel caso citato, ci possiamo rendere conto di come la Corte di giustizia non approfondisca con la dovuta precisione la fonte del potere sanzionatorio. A questo proposito sono state coniate diverse teorie, ma nessuna è riuscita a individuare una norma positiva che in maniera inequivoca statuisca un generale potere dell’Unione europea di porre sanzioni (amministrative e, tantopiù, penali). A noi sembra che un simile potere debba trovare spazio in un ordinamento come quello comunitario. Certo, a ben vedere qualche riferimento positivo è individuabile, sia nel già citato articolo 5 del Trattato (nella parte in cui prevede come necessaria l’efficacia del diritto comunitario), sia in alcune disposizioni riferite a specifiche discipline, dove sovente si ritrova la potestà in capo all’Unione di adottare "tutte le misure necessarie al raggiungimento degli obiettivi". Al di là comunque delle singole disposizioni del Trattato, non possiamo non rilevare come una tale esigenza sanzionatoria sia emersa con forza nella prassi e sia stata costantemente protetta e legittimata (anche se ex post) dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Inoltre, a noi sembra che non si debba tanto discutere sull’esistenza di un potere sanzionatorio (soprattutto se limitato al campo delle sanzioni amministrative), in quanto questo trova il fondamento nella creazione stessa di un ordinamento che ha, come principio cardine, il principio di effettività. Piuttosto bisognerebbe discutere (come del resto si sta facendo in questi ultimi tempi) sulle forme con le quali le intrinseche esigenze sanzionatorie dell’Unione europea debbano manifestarsi. Come abbiamo detto, queste problematiche sono solo da oggi all’attenzione degli studiosi delle istituzioni europee e stanno caratterizzando il periodo che andiamo ad esaminare nelle pagine seguenti.

Vi è infatti una terza fase, ancora in evoluzione, che contempla da parte dell’Unione europea la tutela diretta dei propri interessi. Per far ciò si prevede lo studio (e la diretta applicazione), in sede comunitaria, di specifiche sanzioni da porre a tutela degli specifici interessi propri dell’Unione e degni di protezione in sede amministrativa. Se guardiamo questa previsione da un punto di vista dell’organizzazione istituzionale, ci possiamo rendere conto di come siano chiari i riferimenti a una struttura federalista che vede affiancarsi due grossi gruppi di interessi da proteggere: da un lato quelli dei singoli Paesi membri, dall’altro quelli non subordinati dell’ordinamento unitario.

L’attuazione di questa terza fase non si presenta però affatto semplice. Infatti l’adozione di simili principi in sede comunitaria ha coinciso con un radicale mutamento, all’interno dei singoli Paesi membri, del concetto di sanzione amministrativa. Occorrono a questo proposito alcune precisazioni. Innanzitutto bisogna ancora ricordare come sia estraneo all’Unione europea un potere penale, per i motivi già ricordati. Quest’assenza di un modello penale dal quale mutuare i principi da applicare alle sanzioni amministrative comunitarie, ha indotto le istituzioni unitarie a rivolgere le proprie attenzioni ai modelli sanzionatori presenti nelle amministrazioni dei singoli Stati. E così sembrava potersi arrivare a tracciare una disciplina organica della sanzione amministrativa comunitaria, ricalcata dal modello diffuso in maniera pressoché omogenea in tutti gli Stati membri. Come peraltro abbiamo ampiamente visto, nell’ultimo ventennio (e soprattutto nell’ultimo decennio) si è passati da una concezione di misure sanzionatorie intese come strumenti in tutto e per tutto soggetti al diritto amministrativo, a una concezione che ha visto affiancarsi a tali modelli anche modelli di "pena in senso tecnico" con principi regolatori caratteristici del diritto penale e fino ad allora estranei all’agire della pubblica amministrazione. In Italia, come più volte sottolineato, questo passaggio si è avuto fondamentalmente con l’entrata in vigore della legge di "Modifica al sistema penale" 689/1981.

Un simile mutamento all’interno degli Stati membri ha in un certo senso disorientato il sistema sanzionatorio comunitario. Infatti, ricordiamo ancora, non è stato possibile trovare all’interno stesso della normativa comunitaria alcuni principi di origine para-penalistica da porre alla base di un sistema organico di sanzioni amministrative. La soluzione allora adottata è stata, come vedremo (e anche in questo caso sulla scia di quanto operato da alcuni Stati membri), la scelta di "codificare" alcuni principi regolatori. Tale indirizzo trova la prima testimonianza positiva nel regolamento n° 2988/1995, riguardante la tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee.

Bisogna soffermarsi ancora, per esigenze di completezza, sul percorso intrapreso dall’Unione in argomento di tipizzazione delle sanzioni. Senza dimenticare che a tutt’oggi non sono prospettabili sanzioni comunitarie penali (in senso stretto), possiamo notare una netta apertura, nel corso di questi ultimi anni, verso sanzioni amministrative dotate però di caratteristiche tipicamente proprie della pena. Sulla scia di quanto avvenuto in molti Paesi membri, che hanno vissuto nell’ultimo decennio fenomeni di depenalizzazione, gli organi comunitari (a cominciare dalla Corte di giustizia) hanno rielaborato il concetto di sanzione amministrativa, per concludere che tale non deve necessariamente essere il provvedimento emanato dall’amministrazione nell’esplicazione del potere di autotutela. Così si sono ricompresi nella locuzione di sanzione amministrativa comunitaria anche fenomeni caratterizzati da dissuasività e afflittività, e questo a sostegno e tutela degli obiettivi posti dal Trattato, con il pieno avvallo della giurisprudenza della Corte di giustizia.

Bisogna peraltro notare come quest’evoluzione verso principi in senso lato penalistici non abbia portato con sé uno sviluppo delle garanzie che solitamente sono connesse con tali fattispecie. E così, come già si è accennato in inizio di paragrafo, il principio di legalità non ha ancora trovato in sede comunitaria i suoi naturali corollari della tassatività e della tipicità. Inoltre, l’elemento soggettivo posto alla base della sanzione amministrativa (e cioè dolo o colpa) non ha trovato che sporadiche affermazioni, senza chiarire le conseguenze che da esso debbano derivare (si pensi a quanto detto in tema di trasmissibilità della sanzione) e soprattutto lasciando pericolosi e quantomai anacronistici rischi di responsabilità oggettiva.

D’altro canto possiamo notare un’insolita e a prima vista sorprendente applicazione, in sede comunitaria, del principio di proporzionalità tra sanzione e interesse violato. Come già si è detto, questo principio è del tutto estraneo al campo della sanzione come "pena in senso tecnico", in quanto il processo logico che si svolge nel comminare una sanzione afflittiva si risolve nella mera sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta. A ben vedere il motivo che ha portato ultimamente in sede comunitaria a una simile applicazione risiede nella mancanza –come più volte ricordato- di un corpo di norme penali dal quale derivare una disciplina organica per le sanzioni amministrative afflittive. Si è così quindi fatto riferimento alle previsioni del Trattato, nella parte in cui prevedono l’imposizione del minor sacrificio possibile per conseguire lo scopo perseguito.

Tale ibrido comunitario non ci può sembrare esente da critiche. A nostro parere infatti, proprio la relativa novità dell’ordinamento e l’assenza di stratificazioni normative di secoli –presente invece in molti degli Stati membri, tra i quali il nostro- dovrebbe portare ad una scelta netta, che sia in un certo senso esemplare anche per i singoli Stati. Inoltre, come proporremo de jure condendo in conclusione della ricerca, ci sembra ormai apertamente sostenibile l’adozione di un sistema penale comunitario, a tutela non solo degli interessi dell’Unione in senso stretto, ma pure degli interessi dei cittadini. Certo, questo comporterebbe un ulteriore e forse definitivo spoglio di sovranità da parte degli Stati membri, ma a noi sembra che la strada sia ormai quella e che negarlo diventi vieppiù anacronistico. Di simili problemi peraltro non è opportuno parlare in questo paragrafo, e dunque ci riserviamo di formulare più approfondite considerazioni in seguito.

A riflettere ancora un momento sull’approvazione del regolamento 2988/95 (CE) riguardante la tutela degli interessi finanziari della Comunità, possiamo forse trarre qualche elemento di conforto ai nostri auspici. Tale regolamento infatti, rappresenta la prima positivizzazione dei principi in tema di sanzioni amministrative comunitarie e ben può essere destinato, in un prossimo futuro, a svolgere lo stesso ruolo svolto in Italia dalla legge 689/1981. La conseguenza che a noi pare più importante è quella di aver posto fine a una ricostruzione quasi esclusivamente giurisprudenziale del concetto di sanzione amministrativa. Inoltre, se si guarda ai contenuti, di decisivo rilievo appare la netta distinzione operata tra "misure" e "sanzioni". Queste ultime risultano caratterizzate da un contenuto afflittivo (pressoché estraneo alle prime) derivato da principi penalistici e corroborato da una più rigida applicazione dei principi di legalità, tipicità, determinatezza e irretroattività. In questo modo quindi si superano i limiti di cui sopra abbiamo trattato e, soprattutto, verosimilmente, si arriva ad un superamento del principio di proporzionalità inteso come esercizio di autotutela e di discrezionalità amministrativa. In questa recente ottica infatti (e sempre che tali principi si impongano come generali) la proporzionalità deve avere il nuovo ruolo di rapporto organico tra elemento soggettivo (senza più margini di responsabilità oggettiva), elemento oggettivo ed entità della sanzione.

Par. 1 – Procedimento e garanzie.

 

Questo terzo capitolo avrà come suo motivo portante la ricerca di tutte quelle altre forme in cui si sostanzia la potestà punitiva della pubblica amministrazione. Cercheremo quindi di mostrare, più di quanto non abbiamo già fatto, il superamento del concetto di sanzione amministrativa. Finora infatti, abbiamo rivolto la nostra attenzione soprattutto all’interno del sistema stesso delle cosiddette sanzioni amministrative, mostrando come tale locuzione difetti di un univoco valore di senso e come facilmente si presti a mal comprendere o a comprendere solo parzialmente fenomeni fra loro ontologicamente differenti.

Ora cercheremo di guardare oltre a ciò che più o meno propriamente viene identificato come sanzione amministrativa, per dimostrare come la potestà punitiva della pubblica amministrazione non si manifesti solo in tali forme, ma coinvolga una serie di altri istituti, più o meno occulti, dove sovente latitano chiari principi regolatori.

Tale difficoltà di individuare principi unitari alla base dell’intervento dell’amministrazione nella sfera dei cittadini (o anche delle persone giuridiche) si riflette in maniera particolarmente pericolosa sulla materia delle garanzie offerte al soggetto passivo. E questa ricerca, nell’intento di fare chiarezza sul punto, si prefigge proprio il fine di mettere in luce i rischi e le scarse tutele che spesso vengono riconosciute al soggetto passivo nei suoi rapporti con la pubblica amministrazione.

Per questo motivo, ci sembra coerente inserire proprio all’interno di questo capitolo anche una sintetica analisi delle fasi pratiche che conseguono all’individuazione teorica del concetto di misure sanzionatorie amministrative. E così, innanzitutto, sembra necessario affrontare il problema del procedimento, del provvedimento e della tutela giurisdizionale.

Se facciamo riferimento alla legge 689/1981, possiamo notare come essa abbia individuato lo schema per un procedimento-tipo, basato su due momenti differenti: una prima fase consiste nell’attività degli organi di vigilanza ed è preordinata all’acquisizione degli elementi istruttori e alla contestazione dell’illecito da parte della competente autorità amministrativa; la seconda fase, invece, riguarda l’attività dell’autorità amministrativa titolare del potere di irrogare sanzioni. Tale attività si snoda in momenti contenziosi e decisori, per concludersi o con il provvedimento sanzionatorio, o con un’ordinanza di archiviazione.

Tale schema procedimentale non ha però una portata generale: vi è anzi da notare come una serie di previsioni normative successive si discostino dalla linea tracciata con la legge 689, anche in tema di sanzioni amministrative pecuniarie.

Inoltre, lo stesso schema previsto dalla legge 689 appare, in alcuni fondamentali punti, assai generico: soprattutto si deve far riferimento all’assenza di una previsione specifica dei contenuti essenziali dell’atto di contestazione dell’illecito. E si noti come tale atto assuma un’importanza centrale nella fase procedimentale, in quanto ne circoscrive l’oggetto e consente al soggetto incolpato di studiare la propria linea di difesa in sede amministrativa. Altra significativa ambiguità della legge riguarda la tutela del contraddittorio, tanto che neppure è previsto, in modo espresso, il diritto dell’incolpato di prendere visione degli atti procedimentali.

Occorre peraltro esaminare più nel dettaglio quanto (pur ambiguamente) previsto dalla legge 689 in tema di contraddittorio, poiché esso si risolve in una garanzia cardine per il cittadino; inoltre, dalla disciplina in materia contenuta nella legge 689, si possono trarre alcuni principi di portata generale. Bisogna innanzitutto notare come il contraddittorio nel procedimento sanzionatorio sia garantito solo riguardo al fatto rappresentativo dell’infrazione, cioè al fatto così come identificato nella contestazione (prevista dall’articolo 14). Tale garanzia invece non sussiste nelle altre fasi del procedimento e, soprattutto, nella fase degli adempimenti istruttori. Ad ogni modo, la forma di contraddittorio delineata dalla legge 689 sembra mutuare le sue caratteristiche dal sistema penalistico, differenziandosi dunque di molto dalla concezione di tale garanzia propria del diritto amministrativo. Si vuol dire che il contraddittorio è qui previsto a tutela del cittadino (già in sede di procedimento amministrativo), in quanto subisce una netta incisione dei propri interessi da parte dell’amministrazione. Il cittadino cioè, viene giudicato per la sua condotta, non per un interesse dell’amministrazione. Di conseguenza in questo settore non può trovare applicazione la concezione del contraddittorio come strumento previsto a tutela degli interessi della pubblica amministrazione (come si verificherebbe se l’intervento del soggetto avesse quale unico scopo quello di consentire all’autorità procedente di assumere nuovi elementi utili ai fini decisori).

Comunque lo si voglia interpretare, il principio del contraddittorio, che è pacificamente considerato principio generale dell’ordinamento, non trova sempre spazio in tema di applicazione di sanzioni amministrative: si pensi ancora, ad esempio, alla citata legge 47/1985. Tale possibile esclusione del contraddittorio è del resto conforme a quanto stabilito dalla Corte costituzionale in tema di giusto procedimento: esso non ha garanzia costituzionale e in un certo senso si "riduce" a principio generale dell’ordinamento. Di talché non risulta vincolante per il legislatore statale, ma solamente per quello regionale.

Le conseguenze di tale impostazione si sono manifestate in differenti modi: una certa parte della giurisprudenza amministrativa ha cercato di plasmare un "diritto vivente" capace di garantire quanto più possibile il contraddittorio in sede di procedimento sanzionatorio. Peraltro più seguito ha avuto altra giurisprudenza che, soprattutto a causa delle ambiguità classificatorie dei fenomeni sanzionatori, ha garantito il contraddittorio in maniera discontinua, secondo il già noto principio di tutela degli interessi dell’amministrazione e non di tutela del diritto di difesa del soggetto passivo.

Queste considerazioni sul contraddittorio nel procedimento sanzionatorio amministrativo, ci portano, a voler guardare il problema procedimentale da un più ampio punto di vista, verso una questione ancora più centrale: quella cioè della discrezionalità della funzione sanzionatoria amministrativa.

Soprattutto in tema di sanzioni disciplinari, ma con notevoli riflessi quanto alle sanzioni amministrative in generale, si è sostenuta la tesi della non obbligatorietà dell’attività sanzionatoria. La discrezionalità della pubblica amministrazione in questo campo sarebbe operante, secondo tale tesi, sia riguardo all’esercizio della funzione, sia quanto ai contenuti del provvedimento sanzionatorio (soprattutto quindi in riferimento alla determinazione della sanzione). A noi sembra che una tale impostazione sia senz’altro coerente con un concetto di sanzione amministrativa quale strumento nelle mani della pubblica amministrazione volto a realizzare i propri interessi. Se peraltro si tengono presenti le distinzioni fatte finora riguardo ai diversi modelli di sanzione, e se si considera quanto già detto in tema di contraddittorio, ci si rende conto di come –a nostro parere- in tutte queste ipotesi l’attività sanzionatoria della pubblica amministrazione non debba essere guardata nell’ottica di una funzione di autotutela in senso ampio, ma debba essere guardata dalla parte del cittadino-soggetto passivo. Certo, come si vedrà in seguito, le eccezioni a simile impostazione non sono poche e hanno una notevole importanza. Peraltro, già d’ora, ci sembra di poter affermare come in campo sanzionatorio (in senso stretto) la discrezionalità spetti solo al legislatore e non invece alle autorità amministrative competenti per la fase procedimentale.

Se si ha riguardo alla legge 689/1981, si vede come non solo non vi sia traccia di tale prospettata discrezionalità, ma anzi, dall’esame di alcune specifiche disposizioni, emerga chiaramente un principio di doverosità dell’esercizio della funzione sanzionatoria. Inoltre è stato sottolineato come tale doverosità trovi una sua conferma indiretta nella previsione dell’articolo 24, per cui, a certe condizioni, l’applicazione della sanzione amministrativa è di competenza del giudice penale, al quale di certo non spetta alcuna valutazione discrezionale.

Rimane a questo punto da considerare se l’assenza di discrezionalità sia una caratteristica peculiare solo delle sanzioni amministrative individuate dalla legge 689/1981 o se invece sia un principio generale proprio di tutte le sanzioni amministrative in senso stretto. È opportuno a questo proposito ricordare come la maggior parte della dottrina amministrativistica configuri la discrezionalità come un elemento caratteristico dell’attività amministrativa. Tale giusta considerazione non può peraltro –a nostro parere- essere portata alle estreme conseguenze per cui ogni singola funzione attribuita alla pubblica amministrazione debba avere caratteri più o meno marcatamente discrezionali. Risulta decisivo, anche per le valutazioni circa la discrezionalità, esaminare la configurazione del potere data dalla norma. E quanto alle norme sanzionatorie si deve concludere appunto nel senso di una totale assenza di discrezionalità e, anzi, di un’espressa configurazione dell’attività sanzionatoria in termini di doverosità.

Per criticare queste conclusioni si può obiettare che la legge individui fattispecie sanzionatorie in cui è lasciata all’amministrazione ampia discrezionalità in fase procedimentale sul quantum e pure sull’an. Senza entrare troppo nel dettaglio ci sembra peraltro che queste osservazioni non facciano che rispecchiare ancora una volta le incertezze di fondo su cosa sia in definitiva da considerarsi come "sanzione amministrativa". Le ipotesi che si adducono a sostegno della discrezionalità sono infatti ipotesi di sanzioni "in senso lato". Alla luce di questa distinzione si può certo concludere che varie forme di discrezionalità amministrativa sussistano quanto alle misure sanzionatorie sprovviste del carattere di afflittività. Ma a tale conclusione non si può invece arrivare nell’esaminare le sanzioni amministrative in senso stretto (che sono in fondo, nella linea seguita in questa ricerca, le uniche vere sanzioni).

Sempre sotto il profilo della discrezionalità, bisogna esprimere qualche considerazione anche in tema di commisurazione della sanzione. La disciplina tracciata dalla legge 689/1981 (soprattutto dall’articolo 11) permette di concludere che anche sotto questo profilo non vi siano margini valutativi discrezionali della pubblica amministrazione. Peraltro simile regola, in tema di commisurazione, è assurta a principio generale delle sanzioni amministrative. Questa tendenza è stata confermata sia dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, riguardo soprattutto alle sanzioni interdittive principali, sia dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, in tema di interpretazione delle disposizioni sanzionatorie sugli abusi edilizi (modello sanzionatorio che appare molto distante da quello individuato nella legge 689). Accettata dunque l’assenza di discrezionalità amministrativa, bisogna peraltro notare come la giurisprudenza prevalente (amministrativa) tenda a configurare il carattere "riservato" della commisurazione della sanzione da parte dell’amministrazione. Questa teoria riserva in sostanza all’autorità amministrativa un potere di ricercare e individuare i "valori" inerenti alla materia per la quale è prevista la fattispecie sanzionatoria. E in funzione di tali criteri deve successivamente essere commisurata la sanzione. Da un punto di vista negativo, inoltre, questa "riserva" esclude per il giudice la possibilità di esercitare un sindacato pieno. Tutto ciò comunque non si risolve in discrezionalità amministrativa, essendo l’autorità procedente legata, nella commisurazione della sanzione, a parametri già definiti.

A conclusione di tutte queste considerazioni, è opportuno ricordare e sottolineare come (nonostante le peculiarità), il procedimento sanzionatorio sia a tutti gli effetti un procedimento amministrativo. Si vuol dire, in sostanza, che la differenza tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in senso stretto non riguarda solo la diversità dell’autorità competente ad emanarle. Le sanzioni amministrative sono quindi soggette ai principi del diritto amministrativo e, se è vero che molte sono le somiglianze sostanziali con le contravvenzioni (penali) punite con l’ammenda, è tanto più vero, quanto alle sanzioni amministrative, che "l’illecito è accertabile con un procedimento amministrativo, da un’autorità amministrativa, la quale addotta un provvedimento amministrativo".

Tali considerazioni inducono a concludere che anche il provvedimento applicativo della sanzione sia soggetto al regime generale dei provvedimenti amministrativi. A noi qui interessa sottolineare il profilo dell’annullamento d’ufficio, istituto che coinvolge dunque anche il provvedimento sanzionatorio. Peraltro, riconoscere questo potere in capo all’amministrazione, non è tanto un segnale di discrezionalità, quanto piuttosto un’esigenza di conformità alle regole generali sui provvedimenti amministrativi. Se dunque si vuole definire il procedimento sanzionatorio come procedimento amministrativo, bisognerà coerentemente concludere che l’esito di tale procedimento sia condizionato dal regime formale dell’atto. Questa considerazione non deve però portare a operare una distinzione tra sanzione penale e sanzione amministrativa in termini di gerarchia di valori. A nostro parere infatti, le differenze procedimentali e provvedimentali attengono alla differenza ontologica delle funzioni esercitate, senza che sia possibile formulare alcun giudizio di valore.

Dopo aver esaminato i problemi concernenti la fase procedimentale ed il provvedimento sanzionatorio, dobbiamo ora spostare la nostra attenzione sulla tutela giurisdizionale accordata al soggetto passivo di una sanzione amministrativa. Come si vedrà, tale tutela giurisdizionale risulta disciplinata in maniera diversa a seconda della varie forme in cui si esplica l’attività sanzionatoria della pubblica amministrazione e non è pertanto possibile tracciare uno schema generale valido per ogni provvedimento sanzionatorio. L’evoluzione della dottrina ha individuato criteri diversi e ha focalizzato le problematiche che andiamo ad analizzare.

Se valutiamo le scelte compiute dal legislatore, possiamo notare come in materia urbanistica abbia optato per la tutela giurisdizionale in sede amministrativa. Al contrario, per quanto riguarda la sanzione amministrativa pecuniaria e le sanzioni accessorie previste dalla legge 689/1981, la competenza giurisdizionale spetta al giudice ordinario, in conferma con le altre esperienze di depenalizzazione. Proprio questa previsione ha portato le maggiori perplessità nella dottrina amministrativistica, in quanto sembra una deroga alla regola generale sulla competenza del giudice amministrativo. A noi sembra che gli orientamenti dominanti da segnalare siano sostanzialmente due: da un lato quello, legato a precedenti studi di Guicciardi, secondo cui tale attribuzione giurisdizionale troverebbe spiegazione nella mancanza di degradazione del diritto soggettivo a seguito del provvedimento sanzionatorio. Dall’altro quello di Sandulli, secondo cui, in tale ipotesi, il giudice ordinario sarebbe eccezionalmente competente anche per questioni relative a interessi legittimi (si configurerebbe così una giurisdizione esclusiva del giudice ordinario in tema di sanzioni amministrative pecuniarie). Senza entrare nel dettaglio, a noi sembra che le sanzioni amministrative previste dalla legge 689/1981 vadano a colpire diritti soggettivi, in linea anche con l’origine penale delle fattispecie sanzionate.

Nei primi anni ’80 la Corte di cassazione ha elaborato un’altra soluzione, che ha trovato un certo seguito in dottrina. La distinzione cui si accenna è quella già esaminata tra sanzioni di carattere punitivo e sanzioni di carattere ripristinatorio. Analizzata in chiave di tutela giurisdizionale, la distinzione porta a concludere che siano di competenza del giudice amministrativo le questioni inerenti alle sanzioni ripristinatorie (in quanto queste sanzioni incidono su interessi legittimi del cittadino) e che, al contrario, competano al giudice ordinario le controversie in tema di sanzioni amministrative punitive, in quanto queste inciderebbero su posizioni di libertà del cittadino svincolate dal perseguimento degli interessi propri della pubblica amministrazione, e per ciò stesso riconducibili a situazioni di diritto soggettivo. Se però guardiamo allo stato attuale dell’evoluzione delle sanzioni amministrative, ci rendiamo agevolmente conto di come simili distinzione non abbiano più possibilità di essere sorrette: con l’evolversi della produzione legislativa in tema di sanzioni, infatti, sono state introdotte delle sanzioni con carattere eminentemente "punitivo" anche in settori tipicamente "ripristinatori", arrivando ad aversi sanzioni inerenti a diritti soggettivi, le cui controversie sono demandate al giudice amministrativo (è il caso di alcune sanzioni in campo urbanistico).

Una terza linea interpretativa, in tema di riparto di giurisdizioni, si basa sulla distinzione tradizionale tra attività vincolata ed attività discrezionale. Se si segue questa traccia, si arriva a concludere che vi sia un interesse legittimo, e quindi una competenza del giudice amministrativo, ogniqualvolta l’amministrazione, con l’attività sanzionatoria, esplichi un proprio potere discrezionale. Si è già detto peraltro che non ci sembra accoglibile la configurazione di una discrezionalità amministrativa nell’esercizio della potestà sanzionatoria e, di conseguenza, questa tesi non può nemmeno essere presa in considerazione, nell’ottica qui prospettata. Si è inoltre fatto riferimento, per giustificare la competenza del giudice amministrativo, a una posizione di "supremazia" e di "autorità" della pubblica amministrazione. Se si accoglie tale ipotesi, però, ogni fattispecie sanzionatoria porterebbe con sé una posizione di interesse legittimo e, di conseguenza, almeno sulla carta, una competenza del giudice amministrativo. Si è invero dimostrato che non vi sono solo interessi legittimi e, comunque, questa tesi contrasta definitivamente con la disciplina positiva che vede un gran numero di fattispecie sanzionatorie attribuite, quanto alle controversie, al giudice ordinario.

Come si è visto dall’analisi di questi differenti orientamenti, non è affatto semplice individuare un criterio certo in base al quale operare il riparto di giurisdizioni. Anzi, possiamo dire che tale problema sia uno dei più complessi in tema di sanzioni amministrative. Inoltre, il problema presenta due differenti aspetti: da un lato vi è l’aspetto sostanziale che implica la classificazione di una situazione soggettiva nell’ambito del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo; dall’altro, vi è la problematica dell’attribuire le varie situazioni soggettive alla competenza del giudice ordinario o del giudice amministrativo. Come si è messo in luce, in tema di sanzioni amministrative non vi è, se si seguono le ricostruzioni sopra illustrate, piena corrispondenza tra diritti soggettivi e giudice ordinario da una parte, e interessi legittimi e giudice amministrativo dall’altra.

Per individuare un criterio di ripartizione allora, a noi sembra che l’unica strada rimasta sia quella empirica dell’analisi del testo delle singole disposizioni, vista sotto l’ottica non tanto processuale, quanto sostanziale. In sostanza, la strada forse destinata ad aver maggior successo è quella che identifica come parametro base per il riparto delle giurisdizioni il concetto di "valutazioni riservate" di cui si è detto più sopra. E così, laddove alla pubblica amministrazione è consentito identificare valori e porli come elementi di giudizio determinanti per la commisurazione della sanzione (fenomeno che, come già si è ricordato, ben si differenzia dalla discrezionalità amministrativa) si ha un interesse legittimo e la competenza del giudice amministrativo (è il caso delle sanzioni disciplinari, delle sanzioni interdittive, delle sanzioni in materia urbanistica). Dove invece questo potere è precluso all’autorità amministrativa (è il caso delle sanzioni amministrative pecuniarie), si ha una situazione soggettiva definita completamente ad opera della norma, non passibile di integrazione alcuna. E simile situazione, a nostro avviso, integra un diritto soggettivo e la conseguente competenza del giudice ordinario.

 

Par. 2 – Al di là della mera sanzione.

Fino ad ora ci si è occupati di sanzioni amministrative, con tutte le distinzioni in merito che abbiamo via via sottolineato. Peraltro, la nostra ricerca è volta ad un’indagine sulla potestà punitiva pubblica in un senso più ampio. Come abbiamo già chiarito, non si vuole in questa sede prendere in esame la cosiddetta pena criminale. Ma questo non vuol dire che la nostra indagine debba risolversi nel solo esame delle sanzioni amministrative. Infatti, come si vedrà nel seguito di questo capitolo, vi sono numerose altre forme in cui si fenomenizza la potestà punitiva pubblica e, in gran parte, sono forme che si collocano in una zona grigia a mezza strada tra il diritto penale e il diritto amministrativo. È anche ovvio che sia così, in quanto, a ben vedere, tali discipline sono entrambe branche del diritto pubblico ed è quindi inevitabile che vi siano punti di contatto e di interazione. Peraltro, una simile posizione di confine di alcune forme punitive, porta spesso ad una scarsa attenzione da parte della dottrina penalistica (che le considera proprie del diritto amministrativo) e della dottrina amministrativistica (che le considera proprie del diritto penale). In questo momento di profondi mutamenti sociali (cui fanno eco nuove politiche legislative e, soprattutto, nuove politiche criminali), ci sembra perciò opportuno, da questo punto in avanti, concentrare la nostra attenzione su tale "zona grigia", nella ricerca di dimostrarne la rilevanza essenziale per quanto attiene al rapporto tra cittadino e potestà punitiva pubblica.

Come primo passo, occorre delineare i concetti su cui si basa la nostra indagine, e sembra necessario cominciare proprio dal concetto di sanzione.

Le sanzioni giuridiche sono misure predisposte dai pubblici poteri per assicurare l’osservanza delle norme giuridiche. Il fondamento del potere sanzionatorio non può qui essere esaminato, e perciò si rimanda alle considerazioni introduttive su legalità e legittimità e sulle differenti concezioni di Stato e di ordinamento. Basti dire che la distinzione principale da operare nell’ambito delle sanzioni è quella tra sanzioni punitive e sanzioni premiali. All’interno delle prime (e senza dilungarci in analisi delle seconde, che hanno nel nostro ordinamento un ruolo marginale), si distingue inoltre tra sanzioni omogenee e sanzioni eterogenee, che cioè non partecipano della stessa natura della prestazione o del comportamento dovuti. Se si opera ancora un’ulteriore bipartizione, si può notare come tra sanzioni eterogenee si debbano individuare quelle afflittive, che cioè incidono su un bene giuridico dell’agente del tutto diverso da quello oggetto dell’obbligo, e quelle impeditive, che si riflettono sull’atto, incidendo sullo stesso bene giuridico oggetto dell’obbligo (ad esempio una nullità).

Ebbene, tipico esempio di sanzione giuridica, punitiva, eterogenea e afflittiva è la pena, che si sostanzia in una limitazione dei diritti di un soggetto a seguito della violazione di un obbligo. Il concetto di pena (pubblica) è di grande interesse ai fini della nostra ricerca, in quanto comprende tanto la pena criminale, quanto quella amministrativa. E, quali che siano il fondamento e la funzione della pena, ad essa è connaturato il carattere dell’afflittività, in quanto la pena si sostanzia sempre in una sofferenza che, a seconda dei tempi e degli ordinamenti, può andare dall’allontanamento definitivo del reo dal contesto sociale, alla privazione o diminuzione di un suo bene individuale.

Molto dibattuto e di indubbia rilevanza è anche il problema del fondamento della pena. Per esigenze di spazio, non potremo entrare nel dettaglio della questione e, perciò, ci si limita qui a ricordare come le principali teorie in argomento siano la teoria della retribuzione, la teoria dell’emenda, la teoria della prevenzione generale (o dell’intimidazione) e la teoria della prevenzione speciale.

Se cerchiamo di rintracciare le peculiarità principali della pena nel nostro ordinamento, dobbiamo necessariamente rivolgerci al dettato costituzionale: possiamo qui rinvenire il principio di necessità della pena, che vede tale strumento come cardine delle garanzie del sistema giuridico e, consequenzialmente, non sostituibile tout court con misure di difesa sociale. Inoltre, all’articolo 25, secondo comma, troviamo il ben noto principio di legalità della pena. Terzo principio è quello della proporzionalità della pena, seguito da quello di personalità della pena. In ultimo, è doveroso segnalare il principio dell’umanizzazione della pena e quello del suo finalismo rieducativo.

Su questi principi si tornerà diffusamente nel corso della trattazione; qui è opportuno segnalare come il dettato costituzionale non distingua espressamente tra pena criminale e pena amministrativa. Si pone così il già evidenziato problema dell’applicabilità o meno di tali principi anche alle sanzioni amministrative in senso stretto. A nostro parere il costituente, pur non avendo espressamente distinto, ha voluto riferirsi in via principale alla sola pena criminale. Peraltro vi è da dire che tale problema interpretativo ha perso di molto la sua importanza con l’adozione dei medesimi principi, in via di fonte di primo grado, ad opera della legge 689/1981. Allo stato attuale dunque, se vogliamo prescindere da un’analisi incentrata sulla gerarchia delle fonti, possiamo dire che i principi costituzionali in tema di pena pubblica devono trovare applicazione anche in tema di sanzioni amministrative (ovviamente qui si fa riferimento alle sole sanzioni amministrative dotate del carattere di afflittività; delle sanzioni, cioè, che sono "pene in senso tecnico").

Non bisogna dimenticare, inoltre, che il nostro sistema si configura come "sistema sanzionatorio differenziato", nel senso che, al di là delle forme repressive concretantisi in una pena (criminale o amministrativa), trovano (devono trovare) spazio anche pene alternative o sostitutive della pena pubblica.

Se focalizziamo la nostra attenzione sulla pena detentiva, appare chiaro come oggi sia uno strumento in piena (e secondo noi irreversibile) crisi. Questo non è che un inevitabile fenomeno dell’evoluzione sociale e giuridica. Non si dimentichi che la pena detentiva fu introdotta alla fine del diciottesimo secolo in sostituzione di forme repressive molto più rigide (si pensi al grado di diffusione delle pene capitali, delle pene corporali, della tortura, delle deportazioni, etc.). Entrò cioè essa stessa come un simbolo di civiltà e come un’indubbia forma di progresso sociale e legislativo. Al giorno d’oggi, peraltro, possiamo dire che stia venendo a mancare quanto di positivo ha sorretto per secoli l’idea stessa di pena detentiva. In primo luogo si deve riconoscere come (anche grazie all’evoluzione tecnologica) adesso lo Stato abbia un ventaglio piuttosto ampio di alternative tra cui scegliere, nella necessità di comminare una sanzione. Inoltre la pena detentiva ha subìto una progressiva involuzione quanto ai propri fini specialpreventivi (in quanto si sostanzia spesso in un peso troppo grande per il soggetto passivo e per la sua cerchia sociale; inoltre diventa vieppiù un peso insostenibile per la collettività, non foss’altro che sotto il profilo economico). In ultimo, come si vedrà meglio in seguito, la crisi della pena è stata segnata in modo determinante da una convulsa attività creatrice di illeciti penali, che ha avuto da tale punto di vista un duplice effetto: se infatti da un lato ha congestionato e quasi paralizzato l’attività giurisdizionale, rendendo poco più che affermazioni di principio la sicurezza della pena e la certezza della sua applicazione, d’altro lato vi è stato negli ultimi decenni un impressionante sovraffollamento delle strutture carcerarie, che ha determinato l’impossibilità dell’umanizzazione della pena e, ancor più, del rendere concreto il cosiddetto "finalismo rieducativo".

La crisi della pena detentiva è stata accompagnata da un’altrettanto pericolosa crisi delle cosiddette misure clemenziali. Se diamo qualche cenno sulle tre figure clemenziali tipiche, ci accorgiamo di come tutte quante siano state coinvolte in questa inesorabile involuzione: per quanto riguarda i provvedimenti di clemenza (amnistia, indulto e grazia), essi sembrano essere, al giorno d’oggi, niente più che un residuo dell’antica clemenza del sovrano e dunque appaiono disomogenei rispetto a tutte le teorie razionali della pena; per le misure sospensive condizionali (principalmente la liberazione condizionale e la sospensione condizionale della pena) bisogna notare come, pienamente apprezzabili da un punto di vista astratto, siano state soggette ad un automatismo applicativo abnorme; quanto infine alle forme prescrizionali (sia del reato che della pena), esse estinguono la punibilità per ragioni estranee alla personalità del reo e bisogna riconoscere come sovente premino chi sia maggiormente abile, ricco o fortunato, o altro comunque non sono che un risvolto negativo della lentezza della giustizia.

La crisi del sistema punitivo, è stata a nostro parere descritta con parole esemplari da Mantovani, tanto che ci sembra utile riportarle testualmente: "l’abnorme fuga dalla sanzione attraverso i clemenzialismi legislativi, gli indulgenzialismi giudiziari e i lunghi tempi della giustizia ha portato il sistema ad autocorreggersi in modo abnorme, trasformando la carcerazione preventiva […] in uno strumento di punizione anticipata e di diretto ed autonomo controllo sociale. In una spirale senza fine, che –come il mitico Saturno- si autoalimenta e si autodivora, poiché l’abnormità e la patologia giuridica generano altra abnormità e patologia. Alla fuga dalla pena e alla lentezza della giustizia, e al conseguente leso senso di giustizia, si è cercato di rimediare con l’espediente della carcerazione preventiva, che fatalmente porta al sovraffollamento e alla tensione del carcere, ai quali si cerca di rimediare con gli espedienti degli indulgenzialismi legislativi (periodiche amnistie ed indulti) e dei clemenzialismi giudiziari, che, accentuando la fuga dalla sanzione, portano ad un’ulteriore amplificazione dell’uso abnorme della carcerazione preventiva. E la politica criminale, da pacata politica della ragione diventa agitata politica dell’espediente, per cercare di sopravvivere giorno per giorno: e, pressoché sempre, male. Ed è una spirale che va rotta".

A tale crisi del sistema punitivo, si è cercato di porre un argine con il rinforzamento, da un lato, del sistema sanzionatorio-dissuasivo, dall’altro, del sistema premiale-promozionale. Il recupero del concreto carattere punitivo e afflittivo della sanzione penale si è perseguito tramite la riduzione delle previsioni di illecito penale (eseguita con le opere di depenalizzazione e decriminalizzazione che in questa ricerca stiamo analizzando) e tramite la riduzione dell’applicazione della pena detentiva (eseguita mediante la previsione, accanto alla pena detentiva, di una serie piuttosto ampia di pene alternative).

Abbiamo accennato alla progressiva considerazione di cui godono nel nostro sistema, come pressoché ovunque in Europa, le pene alternative. Esse infatti, oltre ad avere il pregio di ridurre l’applicazione della pena detentiva, riducono pure l’applicazione delle misure di clemenza di cui si è detto, e conservano allo stesso tempo la finalità generalpreventiva, in quanto sono pur sempre pene; si vuol dire che l’aggettivo alternative non significa alternative alla pena, ma alternative alla sola pena detentiva. Pur senza entrare troppo nel dettaglio, è opportuno analizzare le varie forme in cui si sostanziano le pene alternative, per poi vedere quali hanno trovato spazio nel nostro ordinamento e quali è auspicabile che tale spazio trovino in un prossimo futuro.

La prima tripartizione che occorre effettuare, in ambito di misure alternative, è quella tra misure sostitutive della pena detentiva, misure sospensive in prova e misure preparatorie alla liberazione.

Le misure sostitutive della pena detentiva, volte alla prevenzione generale e alla dissuasione, comprendono le misure patrimoniali, le pene paradetentive, la pena del lavoro libero di pubblica utilità, le misure cosiddette interdittive e le sanzioni morali.

Le misure patrimoniali comprendono principalmente la pena pecuniaria, le misure impeditive (cioè confisca e riduzione in pristino), e la cauzione di buona condotta. Se vogliamo dedicare qualche riflessione alla pena pecuniaria, che, come abbiamo più volte sottolineato, tante analogie ha con il sistema punitivo amministrativo, ci rendiamo conto di come, criticata ed abbandonata dagli illuministi (che ad essa preferirono la pena detentiva), trovi ai giorni nostri una nuova considerazione, proprio per i già analizzati problemi della pena detentiva. Pur rimanendo a considerazioni superficiali, possiamo dire che negli ordinamenti moderni la pena pecuniaria ha seguito fondamentalmente due strade evolutive, alle quali hanno fatto seguito due differenti metodi applicativi: da un lato si trova la tradizionale forma della "somma complessiva", per cui la pena è commisurata unicamente alla gravità del reato, senza alcuna considerazione per la situazione economica del reo. Dall’altro si ha il sistema "a tassi periodici" (utilizzato, ad esempio, in Germania, Austria e Svezia), per cui la pena viene commisurata alla situazione economica del soggetto passivo. Ci sembra che emerga con chiarezza come in linea astratta sia preferibile, in quanto volto ad una concreta realizzazione della specialprevenzione e della generalprevenzione, il secondo sistema. Nella pratica peraltro, tale coraggiosa forma applicativa trova difficoltà, spesso insuperate, dovute all’individuazione dei criteri per la valutazione della situazione economica e all’accertamento concreto della stessa (si pensi, ad esempio, agli evasori fiscali e ai nullatenenti).

Altra categoria, come si è detto, è quella delle pene paradetentive. Esse sono in realtà solo una variante della pena detentiva, e comportano una compressione della libertà personale che non si sostanzia però in una completa privazione. Possiamo dire che dunque, in sostanza, il genus sia lo stesso, anche se, quantomeno da un punto di vista teorico, tali forme repressive sono ben più apprezzabili della pena detentiva in senso stretto. Queste misure sono essenzialmente l’arresto saltuario, quello cioè attuato fuori dei giorni lavorativi; la semidetenzione, che è l’obbligo di trascorrere in carcere un certo numero di ore giornaliere (solitamente quelle notturne); gli arresti domiciliari, che limitano la possibilità del soggetto di allontanarsi dal proprio domicilio in certe ore del giorno o in certi giorni della settimana. Come appare evidente, i problemi connessi a queste misure alternative sono più che altro di ordine pratico. Se infatti fosse possibile avere un’organizzazione tale da poterne garantire la concreta attuazione, non osterebbero dubbi di ordine teorico per un loro sensibile incremento.

Di notevole interesse è la misura del lavoro libero di pubblica utilità (il cosiddetto community service). Come avremo modo di chiarire in seguito, questa forma sembra a noi una delle più indicate per far fronte a episodi diffusi di criminalità medio-piccola. Il lavoro di pubblica utilità ha avuto, negli ultimi anni, una considerazione sempre crescente, anche per gli influssi provenienti da Paesi esteri, nella specie quelli anglosassoni, dove tale forma di pena alternativa ha avuto uno sviluppo più veloce e più completo rispetto a quanto avvenuto nel nostro Paese. Le origini di una simile forma repressiva sono senz’altro risalenti nel tempo e possiamo affermare che non siano condivisibili i principi che erano sottesi ai cosiddetti lavori forzati del secolo passato. Oggi però, se si guarda questo strumento senza troppo semplicistici preconcetti ideologici, ci si deve rendere conto di come possa veramente rappresentare una via di fuga organica e ordinata per migliorare l’assetto della giustizia che, allo stato attuale, non può non apparire prossimo al collasso. Nei sistemi occidentali il community service ha trovato diverse applicazioni; generalmente il lavoro a favore della comunità non viene retribuito e consiste nella prestazione di opera non qualificata (ad esempio pulizia di strade, boschi, etc.). A seconda dei differenti ordinamenti, esso è previsto come surrogato della pena pecuniaria inesigibile (è il caso della Germania e della Svizzera), come conseguenza obbligatoria alla sospensione condizionale della pena (in Francia, Danimarca e Norvegia), o come pena sostitutiva di quella detentiva per reati di minore gravità (come avviene in Inghilterra, Olanda e Portogallo). Tale forma punitiva trova generalmente applicazione nel tempo libero del soggetto (non volendosi occupare con il lavoro obbligatorio tutto il tempo che il soggetto possa dedicare al suo reinserimento nel contesto sociale) e, a nostro parere, garantisce molte necessità connesse all’irrogazione di una misura sanzionatoria, proprio laddove invece si constata il fallimento della funzione della pena detentiva. Con il lavoro obbligatorio infatti, soprattutto se studiato come una sorta di dantesco contrappasso (si pensi al caso recente in cui un rapinatore è stato costretto a prestare servizio di vigilanza presso l’esercizio che ha tentato di rapinare), si realizza le prevenzione speciale, la prevenzione generale, la retribuzione e, a ben guardare, anche l’emenda. Trovano così possibilità di realizzazione concreta tutte le teorie della pena che abbiamo più sopra accennato. Inoltre, in questa forma di misura sostitutiva, trovano pure applicazione i principi posti dalla Costituzione. E ci sembra che sia soprattutto opportuno rivolgere un pensiero al finalismo rieducativo, che per nostra profonda convinzione non può trovare spazi nell’attuale sistema carcerario (al di là delle sconcertanti elaborazioni della Corte costituzionale in tema di comunità carceraria), che purtroppo si risolve in un mero veicolo per il cosiddetto "contagio criminale".

Altra categoria, come si è detto, è quella delle misure interdittive. Vi è subito da chiarire che con quest’espressione non si fa riferimento (quantomeno, non esclusivo), alle misure amministrative interdittive di cui si è diffusamente trattato nel capitolo precedente. Qui ci si riferisce soprattutto a quelle misure penali, sostitutive della pena detentiva, che peraltro con le misure amministrative già esaminate hanno più d’un punto di contatto. Infatti, le misure interdittive di cui si tratta in questa sede si risolvono principalmente in quelle pene accessorie di cui si è già accennato (interdizione, sospensione, revoca, ritiro). In molti Paesi europei (si pensi alla Francia, che ha attuato un’importante riforma nel 1975) tali misure sono assurte, da pene accessorie, a pene principali, pur sostitutive di altre forme sanzionatorie. Da noi il cammino è molto più lento e, allo stato attuale, possiamo configurare diverse ipotesi di applicazione di queste misure (in via amministrativa o penale, in quanto la sostanza della sanzione è sempre la medesima): possiamo avere tali sanzioni applicate solo in via amministrativa, a seguito di illeciti amministrativi (e di questa ipotesi si è già ampiamente trattato. Si pensi ad esempio alla revoca della patente di guida). A quest’ipotesi conseguono tutti i problemi già analizzati circa la natura sanzionatoria o meno di tali misure e circa la discussa presenza di una discrezionalità amministrativa (che, come si è detto, agisce in via di autotutela). Le misure di cui si tratta, inoltre, possono conseguire a un illecito penale: e come si è detto, sia in forma di pene accessorie (nella maggioranza dei casi), sia in forma di pene principali. Infine, possono esservi casi in cui uno stesso comportamento del soggetto integri illecito penale e amministrativo, con conseguente compresenza delle sanzioni illustrate, sia in via di funzione sanzionatoria amministrativa, sia in sede di repressione penale.

Solo un cenno va dedicato alle cosiddette sanzioni morali, che, negli ordinamenti contemporanei (ovviamente si parla di ordinamenti giuridici), trovano scarsissima applicazione. Esse consistono in una disapprovazione verbale del comportamento del soggetto. Tale manifestazione di rimprovero, trova spazio a seguito della condanna e costituisce la pena. È peraltro pacifico che questa forma non trovi in realtà alcun successo, mancando pressoché totalmente di efficacia intimidatrice. Vi è però da sottolineare che una sorta di sanzione morale trovi spazio in specifici settori dell’ordinamento punitivo italiano: si pensi ad esempio, al perdono giudiziale per i minori. Altra applicazione che presenta indubbia importanza ai fini della nostra ricerca al confine tra diritto penale e diritto amministrativo, è data dal testo unico sugli stupefacenti, adottato con d.P.R. 9 ottobre 1990, n° 309. In questa sede, senza entrare nel dettaglio, è attribuita al Prefetto una competenza particolare che si risolve nella previsione di un "colloquio" con finalità anche dissuasive nei confronti del soggetto passibile di sanzioni amministrative connesse all’uso di sostanze stupefacenti (si veda soprattutto l’articolo 75).

Non resta adesso che accennare alle altre forme di misure alternative (accanto alle misure sostitutive della pena detentiva), cioè alle misure sospensive in prova e alle misure preparatorie alla liberazione.

Le prime consistono nella rinuncia totale o parziale alla punizione detentiva, condizionata al buon esito di un periodo di prova, controllata ed assistita. Tali forme sanzionatorie, hanno come modelli i sistemi anglosassoni di probation e parole, e quelli continentali del sursis e della liberazione condizionale. L’applicazione di simili misure alternative si rende necessaria e praticabile quando più intensa si faccia la necessità di reinserimento sociale del reo. I requisiti essenziali delle misure sospensive in prova sono la rinuncia alla punizione, condizionata però al buon esito del periodo di prova; l’imposizione di regole di condotta, prevedendo la disciplina di alcuni aspetti della vita sociale del reo; l’affidamento del soggetto passivo a un’autorità che abbia compiti di vigilare sul suo comportamento, e che operi per garantire un effettivo reinserimento del reo nel contesto sociale (si pensi ai servizi sociali).

Rimangono in ultimo da considerare le misure preparatorie alla liberazione. Queste sono l’ammissione al lavoro all’esterno del carcere, il regime di semilibertà e le licenze preliberatorie. Come si può intuire, tali misure presuppongono una già avvenuta condanna a pena detentiva e sono applicabili solamente in fase di esecuzione della stessa. In questo caso quindi, la pena globalmente scontata ha il più alto tasso di afflittività (rispetto alle altre sanzioni sostitutive), anche se simili misure preparatorie risultano ispirate ad un’apprezzabile logica di "premialità progressiva". Si vuol dire cioè che, anche una volta intervenuta una pena detentiva, il condannato sa che può aspirare (ad esempio sulla base della sua condotta carceraria) a fruire di forme sostitutive che pur conservano caratteri di pena (e le finalità proprie della pena), ma che certo si risolvono in uno stato più vantaggioso per il soggetto stesso e, di conseguenza, per la collettività.

Non tutti i modelli illustrati in questo paragrafo trovano applicazione nel nostro ordinamento. Alcuni, come vedremo, sono totalmente estranei al nostro quadro normativo, altri invece sono da tempo parte del nostro sistema punitivo, o lo sono diventati in tempi recenti mediante innovazioni legislative. Come si vedrà, anche a questo proposito ha assunto un’importanza centrale la legge 689/1981, contenente "Modifiche al sistema penale".

Nel riservare una più attenta analisi delle misure sostitutive al prossimo paragrafo, possiamo già d’ora dire che le principali sono l’affidamento in prova al servizio sociale, il regime di semilibertà, la detenzione domiciliare, la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria.

 

Par. 3 – Le sanzioni sostitutive delle pene detentive.

 

Se prendiamo le mosse dalla concezione di Aldo Moro, che voleva la pena legata "alla natura morale dell’uomo", ben ci rendiamo conto del valore che possono e devono assumere nel nostro ordinamento le sanzioni sostitutive delle pene detentive.

Infatti, la previsione di un tale ordine di misure sanzionatorie risulta a nostro parere la scelta più idonea (in linea teorica) che il legislatore può effettuare verso la realizzazione dei principi costituzionali in materia di pena, con riferimento soprattutto all’umanizzazione della pena e al finalismo rieducativo di cui abbiamo già accennato.

Come si vedrà in conclusione della ricerca, risulta indispensabile portare avanti un discorso parallelo per quanto concerne pene criminali e pene amministrative, in quanto entrambe si risolvono in un concetto più ampio di punizione pubblica. Entrambe, cioè, comportano per il soggetto colpevole una situazione giuridica di sfavore e, in senso lato, di sofferenza. Abbiamo già in parte rilevato come nell’ordinamento odierno non manchino risvolti discutibili di pene (criminali o amministrative) svincolate da una piattaforma garantistica, che si risolvono in un’ingiusta sofferenza per il sanzionato.

A tal proposito si impone una riflessione su quell’aspetto della potestà punitiva pubblica che, con espressione giornalistica, viene spesso definito "giustizia ingiusta".

Già Platone (e tutti gli studiosi del diritto dopo di lui) e Gesù Cristo avevano rilevato come la giustizia terrena, la giustizia dell’uomo, non possa mai realizzarsi in forma perfetta, e come ogni tensione a tale perfezione risulti vana e, in fondo, venata di ipocrisia. Queste riflessioni appaiono ancor più nitide se analizzate in raffronto alla società contemporanea, dove, per le innumerevoli differenziazioni sociali, culturali ed etniche, risulta mera utopia la produzione di leggi che siano davvero generali ed astratte (secondo le migliori tradizioni illuministiche) e, al tempo stesso, giuste. Senza sbilanciarci qui in invettive verso la stupefacente attività di produzione, da parte del Parlamento, di leggi particolari e concrete, anche al di fuori di ogni necessità politica e di ogni possibilità di comprensione logica, dobbiamo realisticamente ammettere come non si possano evitare situazioni in cui l’applicazione di una norma (in astratto giusta e legittimata) si risolve nella perpetrazione di un’ingiustizia. Tale aspetto però è connaturato al tipo di ordinamento in cui viviamo e, pensiamo, è caratteristica peculiare di tutti gli ordinamenti giuridici contemporanei.

Dunque ogni riflessione sulla giustizia delle leggi appare destinata a una rassegnata constatazione delle intrinseche limitazioni dell’agire umano. Quello che deve essere invece stigmatizzato, e che riporta l’attenzione sul fine ultimo della nostra ricerca, è come tali disposizioni legislative vengono applicate. L’ingiustizia inaccettabile, infatti, si annida a nostro parere nei procedimenti applicativi, che vedono innanzitutto delle incongruenze e delle differenze nell’applicazione di una stessa misura sanzionatoria a differenti soggetti, e inoltre vedono troppo spesso un utilizzo strumentale della sanzione, come se fosse un bene disponibile nelle mani dell’autorità preposta al procedimento di irrogazione e di applicazione.

Senza voler assumere le vesti di censori, che non ci sono proprie, dobbiamo però già accennare (riservandoci ulteriori considerazioni in seguito) come il diritto positivo non sia altro che uno strumento e come qualunque applicazione delle leggi, e soprattutto delle misure sanzionatorie, sia destinata a produrre situazioni di concreta ingiustizia, se non è sorretta da un forte senso morale. Già il Manzoni, in una celebre pagina, aveva evidenziato quanto importante sia il ruolo di chi è preposto ad applicare le sanzioni, constatando come peraltro, in tale settore, manchino spesso garanzie e certezze: "Così eran riusciti a far confermare al Mora le congetture del birro, come al Piazza l’immaginazioni della donnicciola; ma in questo secondo caso con una tortura illegale, come nel primo con una legale impunità. L’armi eran prese dall’arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio, e a tradimento".

Se cerchiamo di correlare tali amare considerazioni al sistema punitivo positivo, ci rendiamo conto del ruolo fondamentale che sono chiamate a svolgere, in un’ottica di riforma della giustizia, le sanzioni sostitutive delle pene detentive.

Non potremo entrare particolarmente nel dettaglio, in quanto in questa sede non ci è dato di approfondire gli aspetti eminentemente penalistici. Cercheremo però di illustrare il quadro complessivo di tale materia, per comprendere come anche e soprattutto tali misure si leghino al nuovo bisogno di deflazione penalistica e, di conseguenza, al ruolo di primo piano che è chiamata a svolgere la pubblica amministrazione, nell’applicazione delle crescenti misure sanzionatorie amministrative.

Le tappe fondamentali del cammino verso un sistema sanzionatorio differenziato sono segnate dalla legge 354/1975 (modificata dalla legge 1/1977 e seguenti) e dalla legge 689/1981.

Le misure previste dalla legge del ’77, cosiddetta legge penitenziaria, sono l’affidamento in prova al servizio sociale, il regime di semilibertà e la detenzione domiciliare.

L’affidamento in prova al servizio sociale ha conosciuto nel corso degli ultimi vent’anni un sensibile ampliamento, rispetto alle previsioni contenute nell’articolo 47 della legge penitenziaria. Anche importanti sentenze della Corte costituzionale hanno contribuito a rendere tale sanzione applicabile al maggior numero possibile di situazioni. E così, ad oggi, il condannato può essere affidato al servizio sociale anche senza un previo periodo di detenzione, quando si possa ragionevolmente presumere che le prescrizioni alternative imposte siano sufficienti a promuovere la rieducazione del reo e ad evitare la commissione di nuovi reati. Tale affidamento consiste in una vigilanza sul condannato da parte delle suddette strutture, al di fuori dell’istituto carcerario, per un periodo uguale a quello della pena da scontare.

È da ricordare che una forma particolare di affidamento, definita come probation penitenziaria, è prevista per i soggetti tossicodipendenti o alcooldipendenti. Tale istituto, a differenza della probation di cui si è detto più sopra, non presuppone un’astensione dalla condanna, ma comporta solamente la sospensione dell’esecuzione della stessa.

La misura alternativa della semilibertà consiste nel permesso concesso al condannato di trascorrere parte della giornata all’esterno dell’istituto carcerario, esclusivamente per dedicarsi ad attività utili al reinserimento sociale (come, ad esempio, attività lavorative o istruttive). L’applicabilità di tale regime è prevista in diversi casi, ma il più importante rimane, a nostro parere, quello della condanna a pena detentiva di breve durata.

La semilibertà può essere revocata in ogni tempo, nel caso in cui il soggetto trasgredisca a taluna delle regole imposte o, comunque, dimostri la propria idoneità a fruire di tale regime.

La terza misura prevista dalla legge penitenziaria è quella della detenzione domiciliare, che consiste, secondo le previsioni dell’articolo 47 ter, nell’espiazione della pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora o in un luogo pubblico di cura o di assistenza.

I presupposti di applicazione di tale misura sono, com’è ovvio, simili a quelli previsti dal nuovo codice di procedura penale in tema di inapplicabilità della custodia cautelare in carcere. Si fa cioè riferimento a quelle particolari condizioni fisiche del soggetto che rendono preferibile la sua permanenza in un luogo diverso dal carcere (ad esempio, età avanzata, stato di gravidanza, gravi malattie, etc.).

Le misure più interessanti sono peraltro quelle previste dalla legge 689/1981, e questo non tanto per le loro caratteristiche intrinseche, quanto per la previsione generale, deducibile appunto dalla disciplina di tali misure, della cosiddetta "clausola dell’ultima ratio" delle pene detentive brevi.

Occorre adesso esaminare le tre figure di sanzioni sostitutive espressamente contemplate e disciplinate dalla legge 689/1981. La prima misura è la semidetenzione, che sostanzialmente consiste nell’obbligo per il condannato di trascorrere almeno dieci ore al giorno in appositi istituti (che poi sono gli stessi in cui sono ristretti i detenuti in regime di semilibertà). La determinazione dell’istituto e, soprattutto, delle ore da trascorrervi, deve essere effettuata, secondo l’articolo 55 comma1, in relazione alle comprovate esigenze di lavoro e di studio del condannato.

Come può apparire da questa sommaria presentazione, vi sono alcuni punti di contatto tra semidetenzione e semilibertà. Sono peraltro da mettere in rilievo le differenze che intercorrono fra i due istituti, onde evitare confusioni che non gioverebbero alla nostra sintetica esposizione.

Innanzitutto la semilibertà interviene solo in sede di esecuzione della pena detentiva, mentre la semidetenzione è in toto sostitutiva della pena detentiva ordinaria e dunque non presuppone una detenzione già in atto. Inoltre vi è differenza anche riguardo all’organo competente ad emettere le due misure, in quanto la semilibertà viene concessa dal magistrato di sorveglianza, mentre la semidetenzione è applicata dal giudice di cognizione, in sede di deliberazione della sentenza di condanna.

Quanto ai presupposti teorici alla base dei due istituti, si può notare come la semilibertà presuppone uno stato di detenzione e tende al reinserimento del condannato nella collettività, mentre la semidetenzione vuole ab origine evitare la detenzione e l’allontanamento del condannato dal contesto sociale.

Un’ultima distinzione merita, a nostro avviso, di essere richiamata. La semilibertà, che in sostanza si risolve in un modo di esecuzione della pena detentiva, implica che il tempo trascorso all’esterno della struttura carceraria sia impiegato con attività formative e lavorative, contenute in un dettagliato programma approvato preventivamente dal magistrato di sorveglianza. Il regime di semidetenzione invece, prevede il solo obbligo per il condannato di trascorrere parte della giornata all’interno di una casa circondariale o mandamentale, e dunque prescinde da ogni imposizione lavorativa o formativa nei confronti del condannato, durante il periodo che egli trascorre al di fuori del carcere.

Per la verità, è opportuno segnalare come i lavori preparatori della legge 689, prevedessero, nel trattare di semidetenzione, l’obbligo per il condannato di dedicarsi al cosiddetto lavoro obbligatorio. Tale logica e ragionevole previsione fu peraltro espunta dal testo definitivo in tema di semidetenzione, per i timori di un possibile contrasto con l’articolo 4, paragrafo 2, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata con legge n° 848/1955).

Anche l’iter di approvazione delle disposizioni in materia di libertà controllata (soprattutto si veda art. 56) ha visto succedersi ripetute modifiche. La differenza essenziale tra tale misura e la semidetenzione consiste nel fatto che al condannato in libertà controllata non è imposto alcun obbligo di trascorrere parte del suo tempo in una struttura carceraria. Sono invece previsti obblighi di altro genere e numerosi divieti (ad esempio, l’obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale ufficio di pubblica sicurezza, il ritiro della patente di guida, il divieto di espatrio, etc.), volti comunque a garantire alla libertà controllata i caratteri dell’afflittività. Sul rispetto di tali prescrizioni sono chiamati a vigilare (con una certa intensità) gli organi di polizia. È da sottolineare una forma "anomala" di libertà controllata prevista per i condannati minorenni. In tali ipotesi infatti, alla rigida serie di divieti e obblighi stabiliti in via ordinaria, sono sostituite le più elastiche disposizioni previste per l’affidamento in prova al servizio sociale. Si tratta, in sintesi, di un affidamento in prova extrapenitenziario, dal momento che è disposto dal giudice di cognizione e non dal magistrato di sorveglianza (che è il giudice della fase esecutiva).

Altra misura sostitutiva prevista dalla legge 689 è quella della pena pecuniaria (multa o ammenda) in sostituzione della pena detentiva (reclusione o arresto). Il nostro sistema risulta dunque caratterizzato da una pluralità di misure in sostituzione delle pene detentive di breve durata. Tale scelta è stata motivata da apprezzabili riflessioni sulle differenze esistenti in Italia fra le varie regioni e sulla grave crisi occupazionale; questa molteplicità di misure porta però problemi, a volte di incerta soluzione, circa il coordinamento fra le varie disposizioni e circa la scelta della misura in concreto da applicare.

Sotto questo profilo, ben si può dire che abbiano una disciplina più chiara quei Paesi nordici che hanno individuato nella pena pecuniaria l’unica sanzione sostitutiva alle pene detentive di breve durata.

Non è qui il caso però di addentrarci nella specifica disciplina della pena pecuniaria; dunque ci limitiamo ad accennare ad una misura ad essa collegata: si tratta del cosiddetto lavoro sostitutivo (di cui si è già detto in altre parti del paragrafo). Tale misura è applicabile, su espressa richiesta del condannato, solo nei casi di conversione di pena pecuniaria in pena detentiva, e consiste nella prestazione di attività lavorativa socialmente utile (ad esempio lavoro presso il Comune, attività di protezione civile, tutela dell’ambiente, etc.) per un giorno alla settimana, salvo che il condannato non faccia richiesta di un frequenza maggiore.

Solamente a scopo di completezza, ricordiamo che un altro esempio di "disponibilità" della pena si può rinvenire nella disciplina del cosiddetto patteggiamento (mutuato dal più noto plea bargaining anglosassone), introdotto dal nuovo codice di procedura penale (articolo 444 e seguenti).

 

Par. 4 – Le misure di prevenzione: cenni.

Senza analizzare la materia delle misure di sicurezza, in quanto non essenziale alla nostra indagine, risulta opportuno dedicare qualche cenno al problema delle misure di prevenzione.

Tali misure sono considerate misure specialpreventive ante o praeter delictum, in quanto sono applicabili ai soggetti pericolosi prima della commissione di reati o a prescindere dalla avvenuta commissione di altri reati.

Se si considerano tali caratteristiche, si può concludere che le misure di prevenzione sono istituti estranei al diritto penale in senso stretto e si avvicinano piuttosto al diritto amministrativo. Tale estrapolazione delle misure di prevenzione dal diritto penale è avvenuta a conclusione di un lungo processo evolutivo, che ha trasformato il diritto penale in diritto penale liberale. Fino al termine del secolo scorso, infatti, la scienza penale riteneva di occuparsi anche della pericolosità soggettiva degli individui, oltre che della pericolosità oggettiva delle condotte. Dopo la parentesi autoritaria del fascismo, il diritto penale cessa definitivamente di occuparsi di prevenzione, e lascia alla pubblica amministrazione lo studio e la disciplina delle misure relative.

Con l’entrata in vigore della Costituzione, si pone il difficile problema della compatibilità di un sistema di prevenzione ante delictum con i principi garantistici espressi nella Carta fondamentale. Le tesi che a questo riguardo si sono formate sono essenzialmente due: da un lato vi è la posizione di Elia, che esclude la possibilità di rintracciare nella Costituzione alcun principio legittimante le misure di prevenzione. Dall’altro vi è chi, come Nuvolone e Mortati, ravvisa il fondamento delle misure di prevenzione nello stesso articolo 2 della Costituzione e, comunque, ritiene che esse siano una derivazione necessaria del nostro sistema costituzionale.

Qualunque sia la corretta interpretazione, bisogna comunque prendere atto che, allo stato, il nostro ordinamento conosce numerose misure di prevenzione e che la Corte costituzionale, con costante giurisprudenza, non ha mai mosso censure nei confronti di tali istituti, purché garantiti da un’applicazione che esuli da ogni forma di arbitrarietà, nel rispetto quindi della riserva di legge e della riserva di giurisdizione.

L’attuale disciplina positiva delle misure ante delictum si incentra sulle previsioni della legge 27 dicembre 1956, n° 1423, modificata nel corso degli anni da numerose altre disposizioni (si fa riferimento soprattutto alla legge 31 maggio 1965, n° 575; alla legge 13 settembre 1982, n° 646; alla legge 3 agosto 1988, n° 327 e alla legge 19 marzo 1990, n° 55). Analizzando in modo sommario le previsioni di tali fonti normative, possiamo concludere che le categorie di destinatari sono i soggetti, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi, viventi abitualmente con i proventi di attività delittuose, dediti alla commissione di reati che ledano o mettano in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. Ovviamente, denominatore comune di tali fattispecie è l’accertamento della pericolosità, che sia basato su elementi di fatto e riferito ad attività delittuose.

Le misure di prevenzione principali, previste dalla normativa vigente, sono l’avviso orale del questore, il rimpatrio con foglio di via obbligatorio e la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Le integrazioni legislative di cui abbiamo fatto cenno hanno introdotto numerose altre ipotesi di applicazione delle misure di prevenzione. Qui peraltro non è possibile entrare nel dettaglio di tali previsioni ed è quindi sufficiente dire che non vi sono comunque state modifiche di fondamentale rilevanza. Altro punto che in questa sede non è possibile esaminare, ma che è comunque opportuno segnalare, è quello concernente le misure di prevenzione per i minori e per gli alienati mentali.

Abbiamo dunque visto, seppur in modo superficiale, quali sono i principi che stanno alla base di una scelta legislativa che opti per la prevenzione ante o praeter delictum e quali sono, nel nostro ordinamento, i dubbi di legittimità costituzionale che da tale scelta derivano.

Per quanto attiene alla situazione attuale, possiamo dire che le misure di prevenzione possono essere tollerate, ma che non possono comunque essere salutate come diretta applicazione di principi costituzionali. E comunque tale tolleranza è inscindibilmente legata a tre principi.

Innanzitutto dev’essere rispettato il principio di legalità che, se –come si è visto- è riconosciuto operante anche nei confronti delle sanzioni amministrative, a maggior ragione deve trovare applicazione concreta riguardo alle misure di prevenzione. E questo sia nel senso che la misura dev’essere espressamente prevista dalla legge, sia nel senso che l’applicazione dev’essere preceduta da un accertamento delle condizioni soggettive di pericolosità, determinate sulla base di parametri legali espressi.

In secondo luogo dev’essere assicurata la finalità preventiva di tali misure: si vuol dire che non devono trasformarsi in forme sanzionatorie anomale e in punizioni sostanziali di comportamenti invisi alla società; al contrario devono mirare a evitare la commissione di reati e devono quindi tendere ad una correzione, secondo i principi costituzionali, delle attitudini comportamentali del soggetto "pericoloso".

Come ultimo principio, è indispensabile che le misure di prevenzione siano demandate (eccezion fatta per l’avviso orale del questore), quanto all’applicazione, all’autorità giudiziaria ordinaria, sicché possano trovare spazio le garanzie giurisdizionali e di difesa proprie dei procedimenti penali.

Quest’ultima affermazione si rifà in un certo senso alla Magna Charta libertatum e al principio dell’habeas corpus. E, nel nostro ordinamento, possiamo dire che discende direttamente dall’articolo 13 della Costituzione, che prevede, in tema di libertà personale, accanto alla ben nota riserva assoluta di legge, l’altrettanto nota riserva di giurisdizione.

Tale tesi è stata inoltre suggellata dall’intervento della Corte costituzionale che, con sentenza 23 giugno 1956, n° 2, si pronunciò nettamente a sostegno dell’applicazione delle misure di prevenzione ad opera del giudice ordinario, eliminando (anche in occasione di successive pronunce) la possibilità che queste vengano applicate da autorità amministrative e, soprattutto, dall’autorità di pubblica sicurezza.

 

Par. 5 – Le norme penali in bianco: cenni.

 

Non si può, a nostro parere, concludere il discorso sulla potestà punitiva pubblica senza rivolgere un cenno alle cosiddette norme penali in bianco.

Come si vedrà nel corso del paragrafo, infatti, tale particolare categoria di norme risulta emblematica del rapporto tra diritto penale e diritto amministrativo, e, in un certo senso, rappresenta il punto di contatto più vistoso tra i due sistemi sanzionatori, con tutto quello che può conseguirne in termini di disciplina e garanzie.

Prima di addentrarci nell’esame di tale istituto, è opportuno ricordare che generalmente la norma penale (cioè, la norma penale vera e propria) è costituita da due elementi fondamentali. Da un lato vi è il precetto, che può consistere tanto in un divieto (ad esempio di tenere una determinata condotta), quanto in un comando (ad esempio di compiere un certo atto); dall’altro vi è la sanzione, che si risolve nella conseguenza giuridica (sfavorevole) che deve derivare dalla violazione del precetto. La sanzione è talvolta definita anche come precetto secondario, affiancato al precetto primario (cioè il precetto vero e proprio). In questo modo si vuole sottolineare come anche la sanzione contenga un comando, e cioè il comando ai competenti organi dello Stato di irrogare e applicare la sanzione quando si verifichi una violazione del precetto.

Tale seconda teoria ci porta ad accennare ad un altro problema, quello cioè dei destinatari della norma penale. Senza poterci addentrare nelle differenti prospettazioni elaborate dalla dottrina, possiamo dire che la soluzione più ragionevole sembra quella che vede la norma penale rivolgersi –nel suo complesso- tanto ai consociati, quanto agli organi dello Stato preposti all’applicazione delle sanzioni.

Ebbene, a differenza dello schema generale sopra illustrato, le norme penali in bianco "mancano" di precetto. Per chiarire, possiamo dire che sono norme penali in bianco quelle in cui è espressamente stabilita la sanzione che può derivare dalla violazione di un precetto "fantasma". Questa prima presentazione, volutamente posta in termini provocatori, fa chiaramente emergere, anche prima di raffinate riflessioni giuridiche, quali e quanti dubbi porti con sé un simile istituto.

Più correttamente, però, dobbiamo dire che il precetto delle norme penali in bianco c’è, anche se è un precetto generico, che dunque abbisogna innegabilmente di integrazioni da parte di fonti giuridiche di rango inferiore, come, ad esempio, i regolamenti e altri provvedimenti amministrativi. Risulta già più chiaro, pensiamo, quanto accennavamo poco sopra circa la sovrapposizione di problemi di diritto penale e problemi di diritto amministrativo.

Se torniamo a considerare le teorie interpretative dell’istituto della norma penale in bianco, vediamo come essa può essere considerata, da un lato, una norma senza precetto, dall’altro, una norma dal precetto completo. La prima soluzione è frutto di una concezione sanzionatoria del diritto penale (che ha le sue antiche origini nelle opere protoliberali e liberali di Hobbes, Bentham e Rousseau), che vede cioè tale ramo del diritto come uno strumento per sanzionare precetti stabiliti da altri rami del diritto. In quest’ottica è agevole comprendere come le norme penali in bianco altro non sarebbero che una conferma, pienamente legittima, della funzione meramente sanzionatoria del diritto penale.

La seconda soluzione, che vede nella norma penale in bianco una norma dal precetto completo, si riallaccia invece alla cosiddetta concezione costitutiva del diritto penale. Se si segue tale strada, diventa necessario vedere anche la norma penale in bianco come una norma costitutiva. Per arrivare a ciò, è quindi necessario ravvisarvi la volontà del legislatore di punire la disobbedienza come tale.

Se vogliamo cercare una terza strada che prescinda da concezioni aprioristiche e, ad oggi, superate, dobbiamo ravvisare sì un precetto, ma un precetto generico. Un precetto, cioè, che si limita a prescrivere un generale obbligo di ubbidienza, senza indicare le condotte contrarie a tale obbligo; le condotte, cioè, disubbidienti.

Prima di analizzare i problemi di legittimità costituzionale che da tale impostazione possono derivare, è opportuno rifarci alla distinzione tra disposizione e norma che abbiamo ricordato nei primi paragrafi della ricerca.

Come abbiamo visto, infatti, si parla di norma penale in bianco, senza riflettere sul fatto che tale definizione, ormai entrata negli usi del linguaggio, sia in realtà imprecisa. A nostro parere, la norma è definita. Quanto risulta "in bianco" è invece la disposizione stessa. È infatti, da un punto di vista logico, un controsenso affermare che una norma non esprime un contenuto di senso. Infatti, come abbiamo ricordato, norma significa proprio contenuto di senso, ovvero significato. Si vuol dire che nel momento in cui emerge la norma, e questo avviene esclusivamente tramite attività interpretativa, la disposizione assume un significato. Se applichiamo tali principi alle "norme" penali in bianco, possiamo individuare due differenti norme: da un lato l’interprete trarrà il ricordato obbligo generale di ubbidienza (e questo mediante interpretazione della sola disposizione legislativa penale), dall’altro trarrà il significato complessivo emergente dalla lettura in combinato disposto della disposizione penale "in bianco" e delle disposizioni secondarie integrative (come i regolamenti amministrativi).

È invece la disposizione, più propriamente, in bianco. Ha cioè bisogno di un’integrazione per poter assumere quella particolare combinazione di precetto e sanzione atta a trasformarla (appunto tramite interpretazione) in norma penale.

E il fatto che l’integrazione si operata con atti amministrativi è un problema di non poco conto. Come si vedrà, infatti, è stato proposto da autorevole dottrina di sottoporre al sindacato della Corte costituzionale sia la disposizione penale in bianco, sia le fonti integrative.

Apportato questo chiarimento, possiamo peraltro continuare, sulla linea degli usi consolidati della dottrina, a chiamare l’istituto in esame "norma penale in bianco", per evitare inutili prese di posizione che, forse, non gioverebbero alla chiarezza della trattazione.

Se escludiamo le tesi estreme della illegittimità e della legittimità piene delle norme penali in bianco, possiamo considerare tale istituto come una categoria a sé che, se appare giustificabile e necessaria da un punto di vista pratico, pone non pochi rischi circa la violazione del principio di riserva assoluta di legge che, come si è detto, risulta in questo campo pienamente applicabile.

La giurisprudenza della Corte costituzionale si è sempre mostrata, in questo campo, improntata al realismo. Si è infatti cercato di ammettere la conformità alla Costituzione di tale istituto, fissando però alcuni limiti, a garanzia del rispetto (quantomeno da un punto di vista sostanziale) della riserva di legge.

Anche in dottrina si cerca perlopiù di giustificare l’esistenza delle norme penali in bianco, e si individua un sistema di garanzie su due differenti livelli: da un lato si richiede che il precetto amministrativo, che integra la norma penale, trovi nella legge "determinazioni sufficienti" dei presupposti, del contenuto e dei limiti, in modo da risultare il completamento tecnico di una volontà già reperibile nel dettato legislativo; d’altro lato, come si è già accennato, è stato proposto di assoggettare al sindacato di legittimità costituzionale non solo la disposizione legislativa penale, ma anche le fonti amministrative che ne realizzano il completamento logico. Tali atti secondari, dunque, potrebbero rientrare sotto il controllo della Corte costituzionale non in sé e per sé, ma in quanto parte sostanziale del contenuto precettivo della norma penale.

Ci si limita, in questa sede, a prospettare una terza soluzione, che potrebbe risolvere in modo definitivo i problemi suscitati dall’esistenza di un tale ordine di norme. A nostro parere, ancora una volta, la via maestra è quella della decriminalizzazione. Così infatti, se l’ordinamento amministrativo riesce a dotarsi di sufficienti garanzie in ambito sanzionatorio, potrebbero essere perseguiti gli stessi interessi e essere raggiunti gli stessi risultati, senza avere una pericolosa e dubbia sovrapposizione tra disciplina penale e disciplina amministrativa.

È pressoché pacifico che la qualificazione dei comportamenti antigiuridici come illeciti penali o amministrativi sia rimessa alla volontà del legislatore. I vincoli che si impongono nell’effettuare tali scelte, sono solamente quello della ragionevolezza e del rispetto "delle specifiche tradizioni giuridiche e del sentimento morale medio del Paese". A noi sembra dunque che, in un clima che vede con favore gli interventi di snellimento del sistema penale e che progressivamente sembra dotare di garanzie il settore sanzionatorio amministrativo, ben possa operarsi l’amministrativizzazione di quelle previsioni che richiedono necessariamente un intervento della pubblica amministrazione e che, ad oggi, sono ancora ancorate, più che altro per tradizione, al sistema penale-criminale in senso stretto.

 

Par. 6 – Deflazione del diritto penale: fiscalizzazione, medicalizzazione, secolarizzazione, privatizzazione.

 

È usuale ripetere che la storia del diritto penale è la storia di una continua abolizione: con tale espressione ci si vuole soprattutto riferire alla progressiva scoperta e applicazione di pene miti e al progressivo passaggio da sistemi comportanti l’eliminazione dell’individuo dal contesto sociale, a sistemi volti alla reintegrazione e, anzi, quando possibile, al non distacco del soggetto dalla società.

Peraltro, l’idea di abolizione ci porta anche a considerare il fenomeno della depenalizzazione e della decriminalizzazione, che nei tempi recenti ha –come si è visto- trovato larghi consensi e interessi crescenti. È opportuno premettere che i due termini "depenalizzazione" e "decriminalizzazione" (accanto ad altri meno usati, quali "decarcerazione", "degiurisdizionalizzazione", "diversion") sono sovente fonte di incomprensione. In questa sede possiamo dire che la differenza di significato fra i due vocaboli è stata individuata in modo diverso dalle varie correnti dottrinali. A noi basti sapere che, stando alla lettera, decriminalizzare significa soprattutto eliminare la previsione di una pena criminale, per prevedere di conseguenza una pena non criminale (e cioè amministrativa); depenalizzare, invece, significa più propriamente eliminare la previsione di una pena, sia questa di carattere criminale o amministrativo.

Per evitare fuorvianti confusioni, peraltro, useremo tali termini in maniera pressoché ambivalente, poiché, comunque, l’oggetto di questa ricerca non riguarda tanto i fenomeni tout court abrogativi, bensì i fenomeni che comunque implicano un passaggio e una relazione tra diritto penale e diritto amministrativo.

Se cerchiamo di individuare le tendenze alla depenalizzazione presenti in questi ultimi anni in Europa, dobbiamo innanzitutto notare come esse siano state motivate, accanto alle ben note esigenze di "economia criminale", da vere e proprie spinte verso la realizzazione di una giustizia materiale, di una eguaglianza sostanziale e di una razionalizzazione all’interno del sistema penale.

Le principali correnti sviluppatesi in Europa, che noi ci proponiamo di analizzare, sono le seguenti: fiscalizzazione, medicalizzazione, secolarizzazione, privatizzazione.

La spinta verso una fiscalizzazione del diritto penale si deve soprattutto alla dottrina francese. A tal proposito è opportuno riportare le parole di Larguier, secondo cui "il diritto penale al giorno d’oggi è come conteso fra lo psichiatra e l’esattore; tende da un lato a medicalizzarsi, dall’altro a fiscalizzarsi […] ed ecco quelli che un tempo erano i rei, ripartiti in due campi distinti: da un lato i malati, dall’altro i contribuenti".

La fiscalizzazione del diritto penale, da alcuni indicata invece come amministrativizzazione, ha due ragioni giustificatrici di fondo. Da un lato vi è la diffusa opinione che il pagamento di una somma di denaro (in via penale o, soprattutto, amministrativa) sia la sanzione più efficace per quei comportamenti antigiuridici che non siano indotti dalla necessità o da pulsioni profonde, ma siano solamente frutto di razionali calcoli materiali. D’altro lato si ritiene necessario eliminare il controllo giurisdizionale in quei settori dove l’accertamento del fatto antigiuridico richieda competenze tecniche proprie del potere esecutivo.

Così, dunque, viene a configurarsi una monetizzazione della reazione dello Stato nei confronti dei fatti illeciti, e soprattutto di quelli di matrice economico-sociale. E a volte tale monetizzazione prende la forma di sanzioni penali pecuniarie, altre volte invece (più sovente e meglio) prende le forme di sanzioni pecuniarie amministrative (quelle, cioè, che abbiamo analizzato nel par. 2 del secondo capitolo).

È da notare come una simile forma di deflazione del carico penale comporti una netta tendenza alla "de-individualizzazione" della sanzione. Questo atteggiamento è dovuto, secondo la dottrina prevalente, al fatto che questi comportamenti illeciti non siano originati da un mancato inserimento del soggetto nella società, bensì, semmai, da un’eccessiva socializzazione. E quindi nessun rilievo può avere un "trattamento personalizzato", che solo si giustifica nella ricerca della rieducazione del soggetto, che qui appunto non è configurabile (proprio perché il soggetto è già "educato"). In tali ipotesi, dunque, le sole condizioni soggettive che devono essere prese in considerazione sono quelle concernenti la situazione economica del soggetto, poiché la sanzione pecuniaria deve comunque garantire, nella sua applicazione, la salvaguardia del principio di afflittività.

Una simile tendenza all’amministrativizzazione del diritto economico-sociale è presente, pur con sensibili oscillazioni, in tutta l’area europea. In questa sede non ci è possibile entrare nel dettaglio ed analizzare le riforme attuate dai singoli Paesi; per quanto concerne l’Italia, abbiamo già visto quale sia stato il percorso seguito. Basti qui ricordare come cardine della materia sia la legge 689/1981, alla quale peraltro hanno fatto seguito numerosi altri interventi legislativi. Inoltre, come si vedrà meglio nel capitolo conclusivo, potrà svolgere un ruolo importante anche la legge approvata in via definitiva dalla Camera dei deputati il 16 giugno 1999, contenente la delega al Governo per la depenalizzazione di molti reati, anche in materia fiscale.

In senso contrario rispetto alla fiscalizzazione, si muove la cosiddetta medicalizzazione del diritto penale. Diciamo in senso contrario non perché tale movimento tenda ad aumentare le fattispecie di reato, ma perché persegue finalità di depenalizzazione che, al contrario della fiscalizzazione, vedono un incremento nella individualizzazione delle forme sanzionatorie.

Il trattamento medico è previsto per quelle condotte che si risolvono in fenomeni di disadattamento personale e di disordine sociale piuttosto che in manifestazioni di un vero disvalore penale. Si ritiene, cioè, che lo Stato non possa arrogarsi il diritto di punire (penalisticamente parlando) tutti i comportamenti che in qualche modo deviino dallo standard perseguito. Al di là di tale impostazione ideologica, bisogna dire che rimettere all’amministrazione il controllo di simili condotte "deviate" risulti anche molto più utile, poiché si evita l’uso del carcere o di altre forme detentive laddove queste risulterebbero inutili al fine di un maggior inserimento sociale del reo e, invece, si seguono trattamenti medici o para-medici che, anche in virtù dei progressi della scienza, possono, con buona probabilità, attenuare la "difformità sociale" del soggetto. Ecco quindi apparire -in realtà- come lo Stato non rinunci a interessarsi dei comportamenti "deviati", ma semplicemente opti per un controllo che sia appunto amministrativo, individualizzato e che abbia come fine non quello di alienare dalla società il soggetto "difforme", ma, al contrario, di reinserirlo o inserirlo. Bisogna dire che a tale ricostruzione è stato obiettato come chi venga sottoposto a misure di cura e di controllo sia stigmatizzato ed emarginato forse ancor più di chi è sottoposto a pena detentiva. Si è parlato, cioè, di una sostituzione di comodo del "malato" al "criminale". A noi peraltro sembra che in una materia tanto delicata la posizione migliore sia quella di chi cerca di analizzare con obiettività il sistema predisposto dal legislatore, senza operare contaminazioni con riflessioni che, pur se interessanti, rischiano di risolversi nella mera polemica ideologica.

I primi settori in cui si è avuto uno sviluppo della teoria della medicalizzazione sono quelli dei reati che il puritanesimo di matrice anglosassone aveva definito come reati-obstacle. La criminalizzazione di simili reati, che comprendevano soprattutto il vagabondaggio e l’ubriachezza comune, era finalizzata (secondo il celebre studio di Kadish) a prevenire reati più gravi o a trattenere in carcere, con un escamotage criptoprocessuale, soggetti sospettati di più gravi reati.

Allo stato attuale, oltre al già accennato problema dell’alcooldipendenza, il settore che senza dubbio presenta i sintomi maggiori di medicalizzazione è quello del consumo degli stupefacenti.

Già in altri punti della nostra ricerca abbiamo ricordato il Testo unico 309/1990. Qui bisogna mettere in evidenza come vi sia una logica di doppio binario in materia di droghe: se da un lato sono state inasprite le pene per il traffico di sostanze stupefacenti, siano esse appartenenti alle tabelle I e III, o II e IV (cioè siano esse droghe "pesanti" o "leggere"), dall’altro lato è stato depenalizzato il consumo e la detenzione finalizzata ad uso personale. Questo risultato, senza voler entrare nel dettaglio del travagliato percorso che lo ha preceduto e delle perplessità che suscita in alcune parti, è a nostro avviso un passo in avanti ulteriore verso l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio (laddove tale scelta si impone) e non può, in linea di massima, che essere salutato con favore. Il trasferimento del consumo di droga dal settore penale al settore amministrativo, se attuato in modo rigido, porta in primo luogo a liberare le aule di tribunale da un impressionante numero di processi; in secondo luogo evita di punire con la reclusione o con altra sanzione penale soggetti che, per un verso (e ci si riferisce soprattutto a coloro che consumano droghe "pesanti") sono già vittime di ben più grave e dolorosa punizione, per un altro (e ci si riferisce a coloro che consumano droghe "leggere") sono in buona misura vittime del cambiamento di costume che vede il consumo di stupefacenti come una libera scelta. Scelta che, per quanto errata, non è più sentita nella coscienza popolare come passibile di pena detentiva. Se inoltre si volge l’attenzione ai trattamenti di riabilitazione, svolti in via amministrativa sotto la supervisione (tra gli altri) del Prefetto, si capisce ancor meglio come la strada della medicalizzazione possa essere un valido aiuto sia per il sistema penale, sia per i soggetti tossicodipendenti.

Un’altra tendenza deflazionistica è, come abbiamo segnalato, quella della secolarizzazione.

Tale tendenza a separare la morale dal diritto è, come abbiamo già accennato nei paragrafi introduttivi, già radicata nel pensiero illuministico e pre-illuministico. In quest’ottica, il diritto penale dei giorni nostri si risolve in una "costruzione temporale retta da principi suoi propri, autonoma rispetto a qualunque fede religiosa e non".

Su queste basi si è arrivati ad escludere dal diritto penale alcune fattispecie sorrette più che altro da argomentazioni di tipo morale. Si pensi alla nuova disciplina dei reati sessuali, si pensi all’omosessualità, si pensi anche all’aborto.

Ma questi fenomeni di depenalizzazione non hanno portato ad una completa "liceizzazione" delle fattispecie indicate. E così, anche nell’ambito delle spinte secolarizzatrici, ci si trova spesso di fronte a situazioni giuridiche che, se non integrano più ipotesi di reato, costituiscono tuttavia illecito amministrativo (soprattutto si pensi al settore delle misure sanzionatorie disciplinari) o torto civile.

L’ultima tendenza deflazionistica che si vuole qui ricordare è quella volta alla cosiddetta privatizzazione del diritto penale. Tale spinta, poiché vuole far passare direttamente alcune fattispecie dal diritto penale al diritto civile, risulta forse di minor importanza ai fini della nostra indagine, che è volta essenzialmente allo studio dei rapporti tra diritto penale e diritto amministrativo. Ci sembra tuttavia necessario segnalarla, in quanto, oltre che completare il quadro delle tendenze di depenalizzazione, risulta in realtà coinvolgere, anche se in maniera indiretta, l’autorità amministrativa.

Questo orientamento ha trovato le sue principali applicazioni soprattutto nel campo dei reati contro il patrimonio. Infatti, i codici europei nati sulla spinta degli ideali borghesi ottocenteschi, presentano una tutela molto forte della proprietà privata, che ormai merita di essere, con le dovute cautele, riconsiderata. E così, per i reati di minore entità, si ricerca una possibilità di composizione privatistica, con l’applicazione di istituti e sanzioni di natura civile.

Un’altra spinta alla privatizzazione è venuta dalla progressiva crescita della criminalità di massa, che, in alcuni settori, rende impraticabile e addirittura inutile la strada della repressione penale (si pensi, emblematicamente, ai furti nei grandi magazzini).

Abbiamo così analizzato le principali tendenze alla depenalizzazione che si alternano ai giorni nostri in Italia e nel resto d’Europa.

Come si è cercato di mostrare, non tutte le teorie sono originate dagli stessi presupposti, e non tutte portano agli stessi risultati.

Così, in alcuni casi si possono avere fattispecie che, da penalmente sanzionate, diventano in tutto e per tutto lecite. Altre volte, invece, l’uscita di una determinata situazione giuridica dal sistema penale si risolve nell’ingresso nel sistema sanzionatorio amministrativo o civile, con le differenze in tema di applicazione e di garanzie che, soprattutto quanto al settore amministrativo, abbiamo cercato di evidenziare nel corso della ricerca.

È alquanto difficile formulare un giudizio complessivo delle teorie esposte. Quanto ci sentiamo di dire è che la depenalizzazione, qualunque sia il presupposto filosofico e giuridico che la sorregge, può essere un’arma utile a risolvere molti problemi dell’ordinamento. Certo è che, se viene usata solo per "fare spazio" all’interno del codice penale, senza armonizzare il sistema penale di risulta con le nuove ipotesi sanzionatorie civili e, soprattutto, amministrative, allora è destinata a sicuro fallimento.

 

Par. 1 – Il diritto penale amministrativo: definizione.

Ben sappiamo che, d’abitudine, le definizioni vengono premesse alle trattazioni e che, anzi, sono la base dalla quale partire. Nel nostro caso, peraltro, riteniamo che sia più interessante proporre una definizione a questo punto dell’indagine, proprio perché solo adesso possono esser compresi con chiarezza i problemi legati alla ricerca di un significato preciso da attribuire alla locuzione "diritto penale amministrativo".

Con tale locuzione, infatti, si usano definire fenomeni fra loro assai diversi. Addirittura vi è chi considera come parte del diritto penale amministrativo il Titolo II, Libro II del codice penale, quello cioè concernente i delitti contro la pubblica amministrazione. La nostra critica a tale ricostruzione non può che essere netta, in quanto tali previsioni rientrano senz’alcun dubbio nel diritto penale in senso stretto e, anzi, ne costituiscono una delle parti più importanti e di più grave attualità.

Il fatto che in tale titolo si tratti in qualche forma di pubblica amministrazione, non significa nel modo più assoluto che si disciplini un aspetto del diritto penale amministrativo. Sarebbe come dire che in tale branca del diritto rientra tutto ciò che, in ogni modo, riguarda la pubblica amministrazione. E questo è, evidentemente, inaccettabile.

Come peraltro abbiamo mostrato nel corso della ricerca, vi sono alcuni momenti in cui entrano in gioco le previsioni contenute nei "Reati contro la pubblica amministrazione". Si fa riferimento a quelle ipotesi esaminate in cui uno stesso comportamento integra sia illecito amministrativo che illecito penale. È qui il caso di ricordare come l’esempio più ricorrente di tale ipotesi sia quello di reati quali l’abuso d’ufficio o la concussione, che integrano anche gravi sanzioni disciplinari (e, sia chiaro, pure torto civile, soprattutto sotto il profilo del risarcimento del danno ingiusto).

In ogni caso, comunque, si può ribadire che i reati contro la pubblica amministrazione non sono parte del diritto penale amministrativo. Se si prescinde da tale categoria, bisogna operare ulteriori delimitazioni per fissare i confini della materia che qui si esamina.

Noi pensiamo, senza voler riprendere le numerose definizioni elaborate dalla dottrina, che si possa effettuare una bipartizione tra diritto penale amministrativo in senso ampio e diritto penale amministrativo in senso stretto.

In senso ampio, possiamo ricomprendere all’interno del diritto penale amministrativo tutte quelle situazioni in cui la pubblica amministrazione esercita nei confronti di un soggetto una restrizione della sua posizione giuridica. Per essere più chiari, possiamo affermare che in quest’ottica sarebbe materia di diritto penale amministrativo sia la sanzione amministrativa pecuniaria (i cui principi sono disciplinati, nei modi che abbiamo visto, dalla legge 689/1981), sia tutte le altre forme sanzionatorie che non siano riconducibili alla cosiddetta "pena in senso tecnico" (si pensi innanzitutto alle misure amministrative ripristinatorie), per arrivare ad includervi anche il cosiddetto diritto amministrativo della prevenzione. In tutti questi casi, infatti, è ravvisabile un intervento dell’autorità amministrativa atto ad incidere in modo sfavorevole su diritti o interessi dei consociati.

Se per un verso tale impostazione può essere utile a una visione globale delle molte forme in cui si dispiegano gli interventi "afflittivi" della pubblica amministrazione, per un altro verso una simile classificazione ha lo svantaggio di riunire sotto lo stesso nome fenomeni che sono fra loro assai diversi, sia quanto ai presupposti, sia quanto alle modalità di applicazione (e relative garanzie), sia quanto alle finalità.

È quindi opportuno, accanto a questa definizione, cercare di individuarne un’altra che, com’è ovvio, non avrà i pregi della prima, ma cercherà di superarne i difetti.

Ci si vuole riferire, cioè, ad una visione più settoriale del diritto penale amministrativo, che forse, più correttamente, andrebbe denominato diritto amministrativo penale.

A questo proposito dobbiamo ricordare che la dottrina ha da sempre giocato su tale metatesi di posizione, senza peraltro arrivare a soluzioni univoche. Ancora una volta dobbiamo evidenziare come non ci sembri di grande interesse soffermarci e addentrarci in questioni meramente terminologiche e che più opportuno risulta, a nostro avviso, concentrarsi sugli aspetti concreti della questione. Questo anche perché, a voler essere precisi, nessuna delle due locuzioni appare etimologicamente soddisfacente. Il vocabolo "penale" infatti, comunque collocato, rischia di essere fonte di gravi confusioni, e a nostro parere, più che sulla ricerca della posizione, la dottrina a ciò dedita dovrebbe concentrarsi sulla ricerca di un nuovo vocabolo da affiancare a "diritto amministrativo". Noi potremmo suggerire, con riferimento alla materia di cui si tratta in senso stretto, l’aggettivo "afflittivo", oppure quello "punitivo".

E questo, anche se sembra solo un problema classificatorio, è un punto decisivo della nostra ricerca. Obiettivo imprescindibile risulta infatti, a nostro parere, quello di individuare con certezza un settore preciso in cui si esplica l’attività punitiva e afflittiva della pubblica amministrazione. Bisogna a questo fine cercare di superare sia le ricostruzioni operate dalla dottrina amministrativista, sia quelle operate dalla dottrina penalista.

Le prime, infatti, spesso concentrano la loro attenzione sul concetto di sanzione amministrativa, senza prendere in considerazione le sostanziali differenze che esistono all’interno della categoria e senza sottolineare quanto decisivo risulti il carattere di afflittività.

Le seconde, al contrario, prendono quasi sempre le mosse dalle situazioni giuridiche qualificate come reato, e si limitano a evidenziare gli episodi di depenalizzazione, senza addentrarsi nelle altre forme in senso stretto punitive che si dispiegano nel settore del diritto amministrativo.

La soluzione sta dunque nel mezzo e bisogna qui sforzarsi si unire quanto di valido rimane dall’analisi dei due filoni dottrinali suesposti.

A nostro parere, nell’alveo del diritto penale amministrativo in senso stretto (cioè in quel settore del diritto amministrativo che presenta spiccati caratteri di afflittività) vanno ricondotte innanzitutto le sanzioni pecuniarie, così come disciplinate dalla legge 689/1981. Oltre a tali sanzioni, i cui caratteri di "pena in senso tecnico" abbiamo già evidenziato, sono da considerare anche le sanzioni alternative e le sanzioni comunitarie.

Ci si rende conto peraltro che, se si ragiona solo in questi termini, si rischia di creare una categoria formata dalla somma di altre categorie. E questo è innanzitutto un controsenso logico. Infatti, secondo noi, alla base di una categoria giuridica devono esservi dei principi, non altre categorie. Se non si accetta tale punto di partenza, si finisce inevitabilmente per arrivare a definizioni simili a quelle di diritto penale amministrativo in senso ampio. Si vuol dire cioè, che, senza nemmeno poter vantare i pregi di una visione globale, ci si troverebbe di fronte ad un’artificiosa compattazione di fenomeni fra loro simili e differenti al tempo stesso.

Al di là quindi dell’enunciazione di "tipi sanzionatori" sopra effettuata, che va considerata come mera elencazione esemplificativa, bisogna creare la categoria del diritto amministrativo punitivo su basi di concetto.

A nostro parere dunque, come diremo anche nei paragrafi seguenti, la caratteristica principale che deve presentare la categoria è quella dell’afflittività e della finalità punitiva.

Ben più complesso è individuare il sistema delle garanzie che devono pervadere la punizione amministrativa. Di ciò si dirà più oltre: basti qui accennare che le valide basi poste dalla legge 689/1981 dovrebbero essere riconsiderate e, soprattutto, riorganizzate in un testo nuovo, e questo anche in vista di nuove riforme e di nuove esigenze di decriminalizzazione e, al tempo stesso, di potenziamento del settore punitivo della pubblica amministrazione.

 

Par. 2 – Nuovi confini del diritto punitivo amministrativo.

In questo paragrafo cercheremo di mettere in luce quelli che, a nostro parere, dovrebbero essere i principi-cardine del sistema punitivo della pubblica amministrazione. Molto si è già detto a riguardo della legge 689/1981. Essa infatti ha rappresentato, e tuttora rappresenta, il primo tentativo di dare alla materia della sanzioni punitive amministrative una disciplina organica, dotata quindi di principi generali, che in buona misura abbiamo già studiato. Si è anche visto come tali principi, in gran parte, possano trovare applicazione riguardo ad altre ipotesi sanzionatorie (sempre usando l’aggettivo nel suo significato di afflittività), non comprese nella legge stessa.

Peraltro, nella conclusione di questo lavoro, ci sembra emergere con una certa chiarezza come il sistema delle sanzioni amministrative avrebbe bisogno di una ristrutturazione. Si vuol dire che, a nostro parere, i tempi sono maturi per redigere un nuovo testo (che potrebbe -anche se non necessariamente- prendere le forme di un codice) contenente, con maggior chiarezza rispetto alla legge 689, i limiti della materia e i principi generali ad essa preposti.

Non si vuole in questa sede sostituirsi fittiziamente al legislatore e quindi non verranno proposte soluzioni certe, anche perché, come si è visto, differenti sono le opinioni dottrinali e giurisprudenziali e molte sono apprezzabili, anche se spesso portano a opposte conclusioni.

Quello che si cercherà di fare è dunque di riassumere i punti più delicati della materia, che dovrebbero trovare, de lege ferenda, maggiore attenzione e più accurate riflessioni. E una buona parte dei nostri sforzi sarà dedicata all’analisi del ben noto problema della responsabilità delle persone giuridiche.

Come si sa, l’articolo 27 della Costituzione delinea la responsabilità penale come "personale". Proprio alla luce di tale principio, bisogna inquadrare il problema della responsabilità delle persone giuridiche.

Se guardiamo alle lontane origini della responsabilità degli enti, possiamo individuare due distinti filoni: da un lato troviamo la tradizione romanistica, che ha sempre fatto proprio il principio individualistico per cui "societas delinquere non potest"; dall’altro, invece, si collocano il diritto germanico, il diritto canonico (si pensi ai capitoli, ai conventi, alle congregazioni) e il diritto medievale dei postglossatori (soprattutto di Bartolo) che scelsero il principio della responsabilità penale degli enti collettivi.

Di queste due distinte origini ha poi prevalso, nell’Europa continentale, la prima, quella cioè della responsabilità penale personale. E ancora oggi si tende a confermare questo principio (che nel nostro ordinamento ha addirittura rango costituzionale), anche se sempre più marcate si sentono le esigenze di introdurre dei correttivi per colpire la cosiddetta criminalità societaria.

Dobbiamo ora analizzare due diversi aspetti, e cioè se la responsabilità penale delle persone giuridiche sia effettivamente inammissibile (nel nostro ordinamento), e se il principio di personalità vigente in campo penale sia da applicarsi anche in sede di sanzioni amministrative.

Quanto al primo problema, possiamo notare come alla "teoria della finzione" elaborata dal Savigny (in base alla quale viene negata alla persona giuridica la soggettività penale in quanto "soggetto artificiale") sia stata opposta la "teoria organica o della realtà" di Gierke, secondo la quale la persona giuridica è un vero e proprio soggetto, naturale e reale al pari dell’uomo. Se accettiamo i principi di quest’ultima teoria, possiamo sostenere che le persone giuridiche, così come sono capaci di compiere illeciti extrapenali, sono anche capaci di macchiarsi di fatti penalmente rilevanti. Questo si può comprendere se si applica ai fatti penalmente illeciti la teoria sull’immedesimazione organica. Così, infatti, sarebbero direttamente imputabili alla persona giuridica i fatti compiuti da un suo organo.

Se si segue tale strada, si può anche sostenere che, se è vero che la persona giuridica non può, per sue intrinseche caratteristiche, essere sottoposta alla pena detentiva, è anche vero che le finalità afflittive e rieducativo-preventive possono essere perseguite con altri mezzi, primo fra i quali la pena pecuniaria. Queste considerazioni risultano ancor più interessanti se si guarda alla realtà contemporanea, in cui sempre più frequentemente si assiste a crimini societari che rimangono impuniti o, ancor peggio, mal-puniti. Si fa qui riferimento all’applicazione del principio di responsabilità personale, congiunta alle misure di stampo esclusivamente civilistico che gravano sulla persona giuridica. Sotto il profilo della responsabilità personale, si assiste sovente all’incriminazione di soggetti che spesso sono semplici "uomini di paglia". Altrimenti, a seguire la discutibile evoluzione della giurisprudenza, si assiste all’incriminazione dell’imprenditore in quanto "non può non sapere" e si richiedono, per l’efficacia della delega di funzioni, rigidi requisiti difficilmente dimostrabili.

Risulta dunque necessario sottolineare come l’attuale sistema non sia pienamente soddisfacente e come sarebbero auspicabili sensibili modifiche.

È ancora opportuno rifarsi all’origine storica del concetto di responsabilità personale, per vedere come esso sia stato sorretto nel tempo più da motivazioni utilitaristiche, che non da fondamenti logico-sistematici. Tale principio, infatti, è rinvenibile tanto nei paesi socialisti, quanto in quelli capitalisti. Nei primi è stato giustificato dalla presenza di imprese di Stato, dotate, in quanto tali, dei canoni della "infallibilità" e, quindi, dell’irresponsabilità penale. Nei secondi, invece, il principio personalista riflette la necessità connaturata all’impresa di poter liberamente agire nella ricerca di un massimo accumulo di capitale.

A riflettere sulle precedenti considerazioni, possiamo concludere così che, allo stato attuale, bisognerebbe riconsiderare il carattere assoluto del principio personalista. Per far questo, si può cominciare con l’affermare che l’articolo 27 della Costituzione, a nostro parere, è soprattutto volto ad evitare forme di responsabilità per fatto altrui. Qui non si tratta invece di addossare a soggetti incolpevoli le responsabilità dei colpevoli, quanto di considerare l’impresa come un soggetto. E, ad un’attenta riflessione, ci si accorge di come questi siano concetti fra loro ontologicamente diversi. Se infatti capovolgiamo l’angolo visuale, possiamo quasi concludere che si vuole attribuire una responsabilità penale all’impresa in sé proprio per evitare che singoli soggetti parte di essa siano vittime di sanzioni penali conseguenti a comportamenti tenuti dall’impresa. Provocatoriamente possiamo ipotizzare che la responsabilità penale dell’impresa, nell’attuale contesto sociale caratterizzato da un numero impressionantemente crescente di persone giuridiche, tutte improntate a criteri di spersonalizzazione, sia proprio un modo per salvaguardare il principio costituzionale della responsabilità personale.

Adesso bisogna occuparsi del secondo problema prospettato, cioè dell’applicabilità del principio personalista anche all’ambito delle sanzioni amministrative in senso stretto.

Com’è ovvio, se già non abbiamo potuto esimerci dal criticare la dottrina dominante nell’analisi del campo prettamente penale, ancor più radicale sarà la nostra posizione in sede di sanzioni amministrative. Anzi, la via della sanzione amministrativa punitiva può e deve rappresentare, a nostro avviso, il più sicuro strumento per combattere la cosiddetta criminalità d’impresa. Infatti, come abbiamo notato, le principali sanzioni in astratto comminabili a una persona giuridica sono quelle pecuniarie, cioè sanzioni dello stesso genus di quelle previste in campo amministrativo dalla legge 689/1981. E questo è un elemento in più a sostegno di un corpo di sanzioni amministrative pecuniarie che colpiscano la persona giuridica resasi colpevole di fatti antigiuridici. Anche in questo settore quindi non possiamo che propendere per una decriminalizzazione di alcune fattispecie (un esempio potrebbe essere il tanto discusso falso in bilancio previsto dall’articolo 2621 del codice civile) che, ove si realizzino, risultano più il frutto di una compatta volontà assembleare che di un iniziativa solitaria dell’imprenditore o dei soggetti da questo delegati.

Bisogna peraltro raffrontare queste teorie con la disciplina positiva che, ancora una volta, risulta racchiusa nella legge 689/1981.

E si deve così constatare, purtroppo, come la legge incentri anche il diritto penale amministrativo sul sistema della responsabilità personale, senza dare spazio a una "logica del doppio binario", consistente in una responsabilizzazione diretta anche dell’impresa. Tuttavia è da notarsi come nel campo delle sanzioni amministrative sia stato compiuto un primo passo per temperare il rigido criterio personalistico vigente in materia penale.

L’articolo 6 della legge 689 ha infatti introdotto l’obbligazione civile per la sanzione pecuniaria amministrativa. Secondo questa previsione, si viene a creare nei confronti (tra gli altri) della persona giuridica, dell’ente privo di personalità giuridica o, comunque, dell’imprenditore, una responsabilità solidale con l’autore dell’illecito amministrativo. Tale forma di responsabilità è appunto affiancata a quella del rappresentante o del dipendente che abbia effettivamente commesso l’illecito. Peraltro, a differenza dell’obbligazione civile per la sanzione penale pecuniaria, questa non ha carattere sussidiario, ma solidale. Ed è una differenza che, correttamente, comporta in capo al responsabile in solido, il diritto di regresso per l’intero ammontare della somma versata, nei confronti dell’autore materiale dell’illecito amministrativo.

A conclusione dell’analisi del problema della responsabilità delle persone giuridiche, appare dunque chiaro che, nel fissare i principi delle sanzioni amministrative pecuniarie, il legislatore, se pure ha compiuto un concreto passo avanti nella lotta alla criminalità societaria, non ha saputo cogliere un’occasione favorevole per risolvere il problema in maniera radicale. A tale soluzione, ci si augura, si possa arrivare con l’auspicato intervento legislativo di cui si è detto.

Se ora vogliamo esaminare gli altri problemi insoluti che concernono le sanzioni amministrative punitive, possiamo in sintesi dire che gli sforzi della legge 689/1981 sono stati, in tali settori, molto più intensi. Con essa infatti, si è cercato di dare alla materia un ordine ben definito, anche grazie al richiamo delle più importanti garanzie previste per la pena criminale.

Senza entrare nel dettaglio, non possiamo che sottolineare con grande favore la prevista applicazione in sede sanzionatoria amministrativa di principi quali la legalità, la tassatività, il divieto di analogia in malam partem, l’irretroattività e la riserva di legge (non solo statale, ma anche regionale).

Resta da ricordare come, anche a seguito dell’entrata in vigore della legge 689/1981, permangano alcuni problemi di ordine generale. È il caso dell’applicabilità dei principi ivi contenuti a tutte le fattispecie sanzionatorie amministrative e della desumibilità diretta di tali principi dalle norme costituzionali. Le risposte a questi interrogativi, come abbiamo diffusamente visto nel corso della ricerca, non sono individuabili se non sul piano interpretativo. E, come si sa, tale piano è incerto e può portare a differenti soluzioni, tutte in astratto accettabili. Anche per questo non si può che auspicare, nuovamente, un intervento del legislatore che definitivamente "codifichi" il sistema delle sanzioni amministrative e, per far ciò, si muova su due distinti piani: da un lato, infatti, appare necessario individuare con precisione le fattispecie appartenenti al comune genus della sanzione afflittiva in senso stretto; dall’altro, per tale categoria sanzionatoria, appare necessario fissare principi veramente generali, che vadano al di là di specifiche e particolari ipotesi applicative. In ultimo, nel perseguire quest’obiettivo, bisogna potenziare il sistema delle garanzie, poiché, allo stato attuale, non si può non prendere atto che la sanzione amministrativa punitiva è destinata a integrare e ad affiancare la repressione penale. Se quindi persegue le medesime finalità repressive, la sanzione amministrativa dev’essere inquadrata in una serie di pesi e contrappesi che impediscano inopportune manifestazioni di arbitrio amministrativo.

 

Par. 3 – Profili della nuova legge di depenalizzazione.

 

La recentissima legge-delga in tema di depenalizzazione -cioè la legge 25 giugno 1999, n° 205- va a nostro avviso inserita in un contesto più ampio, che, come si vedrà, è destinato (almeno sulla carta) a riformare buona parte del sistema della giustizia.

Il primo segno di una volontà di riforma si può individuare nel codice di procedura penale del 1988. Al giorno d’oggi da più parti vengono mosse critiche severe all’impianto processuale disegnato dal nuovo codice e, un po’ semplicisticamente, se ne decreta il fallimento. Queste considerazioni hanno forse un fondo di verità, e le statistiche processuali non sono certamente utilizzabili come prove a discarico. A ben vedere, però, il sistema quasi-accusatorio (detto anche sistema accusatorio "all’italiana"), costruito da attenti studiosi come Amodio e Pisapia e recepito dal legislatore, ha costituito un primo, fondamentale passo verso la riforma di cui oggi si discute e che comprende, in posizione protagonista, anche l’opera di depenalizzazione.

Come si diceva, il sistema processuale penale è improntato a principi quasi-accusatori. L’avverbio segnala la mancanza di un fondamentale elemento che, in quasi tutti i Paesi, caratterizza tale sistema: si tratta della discrezionalità dell’azione penale. È ben noto che in Italia vige al contrario il principio dell’obbligatorietà; di più, tale principio è espressamente sancito dalla Costituzione all’articolo 112.

E così il legislatore del 1988 non ha potuto (e voluto) fare altro che confermare l’obbligatorietà dell’azione penale in capo al Pubblico Ministero, con tutti i controlli endoprocessuali ed esoprocessuali che ne derivano. Peraltro, una simile impostazione si è ben presto rivelata poco realistica e, più che altro, poco utile al nuovo sistema processuale. Se guardiamo alla realtà quotidiana, possiamo in effetti notare come l’obbligatorietà sia rimasta una mera indicazione di principio e come, di fatto, viga in campo processual-penalistico una pericolosa arbitrarietà dell’azione penale. Proprio per far fronte a tali derivazioni anti-democratiche, che mettono in serio pericolo la stessa separazione fra i poteri, si suggerisce da più parti (ci si riferisce soprattutto alla proposta Carotti e alla proposta Zagrebelsky) di mettere mano allo stesso articolo 112 della Costituzione, per introdurre un principio positivo di discrezionalità dell’azione penale, che permetterebbe di creare una serie di norme (espresse) per determinare i parametri e le priorità con cui l’azione penale dev’essere esercitata, senza quindi lasciare spazio alcuno all’arbitrio delle Procure.

Un altro importante progresso compiuto dal legislatore del 1988 per semplificare il sistema processuale è senza dubbio rappresentato dalla previsione di numerosi "procedimenti speciali". Il sistema accusatorio, infatti, prevede che la parte centrale del procedimento penale sia il dibattimento, sede naturale in cui si forma la prova e in cui si accerta l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato. Tuttavia, per le esigenze temporali e strutturali che il dibattimento richiede, il legislatore ha ritenuto opportuno prevedere, per taluni casi meno gravi o comunque non necessitanti di complessi accertamenti, uno "snellimento" della fase processuale. Per far ciò ha individuato cinque riti alternativi, che si possono bipartire in procedimenti deflattivi del dibattimento e procedimenti deflattivi dell’udienza preliminare. Senza entrare nel dettaglio, ci basti sapere che i primi comprendono il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta (il cosiddetto patteggiamento) e il decreto penale di condanna (che, per la verità, è a volte deflattivo anche dell’udienza preliminare); i secondi, invece, comprendono il giudizio direttissimo e il giudizio immediato.

È inoltre da segnalare come, per incentivare il ricorso ad alcuni di tali riti (l’adozione di molti dei quali, infatti, è rimessa alla volontà dell’imputato), siano previste misure premiali, che arrivano, nel caso del giudizio abbreviato, alla riduzione secca di un terzo della pena applicabile in concreto.

A nostro parere, quindi, pur con tutte le (giuste) critiche che si possono muovere al nuovo codice di procedura penale, bisogna riconoscere che già in esso si ritrovano alcuni istituti e alcuni spunti che costituiscono tuttora la piattaforma di base della riforma della giustizia.

Altra tappa, di importanza anche maggiore, è rappresentata dalla riforma "del giudice unico". Ci si riferisce alla legge-delega (n° 254/1997) con la quale il Parlamento ha rimesso al Governo l’emanazione di un decreto legislativo mirante a riformare il sistema della giustizia civile e penale, con l’istituzione del giudice unico in primo grado.

Questa riforma è stata originata appunto dal constatato "fallimento" del codice di procedura penale, che, pur con le precisazioni che abbiamo sottolineato, non è riuscito a garantire uno svolgimento rapido e ordinato dei processi, con il risultato di una grave congestione in fase dibattimentale. Si è così trovato il modo di recuperare magistrati giudicanti e di moltiplicare l’organico. La conseguenza evidente di tale processo è la soppressione della millenaria figura del Pretore e della parallela Procura circondariale.

Si dovrebbe così avere (l’entrata in vigore è stata ulteriormente spostata al gennaio del 2000) una vastissima competenza per materia del Tribunale, chiamato a giudicare, a seconda dei reati, in composizione monocratica o in composizione collegiale (nel numero di tre giudici). Senza entrare in questioni troppo tecniche, possiamo limitarci a dire che un impressionante numero di reati è riservato al giudizio del Tribunale monocratico, e che sono competono al Tribunale in veste collegiale solamente i reati caratterizzati da una pena irrogabile particolarmente grave, da un particolare allarme sociale e da una rilevante difficoltà di accertamento.

Si intuisce a prima vista quale importanza sia destinata ad avere questa riforma. I profili più rilevanti riguardano però il campo strettamente penalistico e processual-penalistico, dunque non verranno in questa sede approfonditi. È qui sufficiente ricordare che all’abolizione della figura del Pretore si accompagnerà l’affidamento della giurisdizione penale anche al Giudice di pace. Nel corso di un breve periodo di tempo, dunque, l’impianto procedimentale della giurisdizione penale dovrebbe avere una struttura agile e organica, capace di fronteggiare con maggior successo le crescenti richieste di giustizia.

Gli aspetti sui quali deve incentrarsi la riforma della giustizia non possono peraltro essere solo di carattere strutturale. Risulta necessario accompagnare la trasformazione che abbiamo illustrato con interventi sostanziali, volti anch’essi a "snellire" il carico di processi penali. La via maestra è senz’altro quella della depenalizzazione e questa è la strada che ha seguito proprio nei giorni scorsi il Parlamento.

Il 16 giugno 1999 infatti, è stata definitivamente approvata dalla Camera dei deputati la legge n° 205/1999, promulgata il 25 giugno e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 28 giugno 1999. Non si può tacere come l’iter di approvazione della legge sia stato faticoso e travagliato, e che ben due anni siano occorsi per arrivare ad un’approvazione finale che ha lasciato sul campo alcune interessanti previsioni. Nonostante ciò, il nostro giudizio astratto su un intervento così importante non può essere che positivo (con tutte le precisazioni che metteremo in luce), anche perché, dopo la legge 689/1981, questa nuova legge rappresenta il tentativo più concreto di deflazione del diritto penale.

La legge in oggetto contiene una doppia delega al Governo che, nei sei-otto (otto, appunto, per le violazioni tributarie e per le sanzioni alternative alla pena detentiva) mesi successivi, dovrà adottare le misure necessarie per la "depenalizzazione dei reati minori e per la modifica del sistema penale e tributario". Si vedrà, in realtà, che l’intestazione della legge pecca di incompletezza e che in essa si rinvengono differenti previsioni non riconducibili a quelle riportate poco sopra.

Ci accingiamo adesso a esaminare più nel dettaglio le disposizioni della legge 205/1999, anche se è da tener ben presente che si tratta solo di legge-delega e che, quindi, il quadro completo della materia emergerà (se emergerà) solo dai decreti legislativi di prossima adozione. Qualunque riflessione e qualunque conclusione, dunque, non vuol essere rigida né certa, ma condizionata a una conferma che ancora non c’è.

A differenza di quanto abbiamo studiato circa la legge 689/1981, in questa legge-delega sono poche le dichiarazioni di principio. Peraltro, vi sono alcuni settori che destano maggiormente l’attenzione dell’interprete, poiché rappresentano sensibili innovazioni soprattutto del sistema sanzionatorio amministrativo. E così, qui di seguito, cercheremo di mettere in luce gli aspetti più significativi, senza invece addentrarci in questioni tecniche che poco hanno a che fare con l’oggetto della nostra indagine.

In primo luogo dobbiamo rivolgere la nostra attenzione alle disposizioni da subito efficaci (si legga: efficaci dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione, ovvero dal 13 luglio 1999), che, cioè, non sono soggette alla delega. Le due ipotesi più importanti sono i casi di abrogazione previsti dall’articolo 18 e la procedibilità a querela del furto, prevista dall’articolo 12.

Quanto all’abrogazione, anche se è la parte della legge che ha destato maggior scalpore nei mezzi d’informazione, ben poco possiamo dire che abbia a che vedere con la nostra ricerca. I reati espunti dal tessuto del codice penale, si risolvono quasi tutti in fattispecie di scarso rilievo (si pensi alla mendicità o alla sfida a duello). L’unica abrogazione che, più che altro per chiarezza, dobbiamo ricordare è quella del reato di oltraggio a pubblico ufficiale (previsto dall’articolo 341 c.p.). Se è vero che i pubblici ufficiali godevano di una tutela dell’onore ingiustificatamente intensa, è vero anche che adesso il soggetto attivo di tale fattispecie abrogata dovrà comunque rispondere (in sede penale) del reato di ingiuria.

Più rilevante è invece l’introduzione della procedibilità a querela del furto. La barriera della condizione di procedibilità è infatti un altro strumento che viene abitualmente utilizzato, nel nostro come in altri ordinamenti, per alleggerire il carico dei processi penali. In effetti, astrattamente, può ritenersi un’apprezzabile strada; nel caso specifico, però, la previsione lascia molti dubbi.

In linea di principio, si può condividere l’assoggettabilità a querela di parte di un reato che tocca beni disponibili. Peraltro sono opportune alcune precisazioni: innanzitutto è perseguibile a querela il solo furto "semplice". Così, se ricorrono le circostanze aggravanti previste dall’articolo 625 c. p. (ad esempio, furto con violazione di domicilio, furto con scasso, furto su bagaglio dei viaggiatori) o la circostanza aggravante comune del danno patrimoniale di rilevante entità (prevista dall’articolo 61, n° 7, c. p.), la perseguibilità rimane d’ufficio.

Soprattutto bisogna dire che l’onere della querela ci sembra che si risolva in un peso eccessivo ai danni della vittima del furto e che quindi si avrà verosimilmente una diminuzione dei procedimenti per furto, non corrispondente peraltro a una reale diminuzione dei furti.

Un altro aspetto perlomeno curioso è che la valutazione delle circostanze è di norma rimessa al prudente apprezzamento del giudice (a posteriori). Non si riesce a capire, quindi, come possa a priori stabilirsi quali siano i furti "semplici" e quali quelli circostanziati e, di conseguenza, quali siano i parametri empirici per disciplinare il regime di procedibilità.

Uno degli aspetti più interessanti toccati dalla nuova legge è quello della circolazione stradale. I criteri direttivi della legge-delega, infatti, impongono una vasta depenalizzazione del nuovo Codice della strada: così solo poche fattispecie di particolare gravità (come, ad esempio, la guida in stato d’ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, l’omissione di soccorso e la fuga in caso di incidente stradale con feriti) mantengono lo status di reati, mentre la maggior parte delle infrazioni assumono le forme dell’illecito sanzionato in via amministrativa.

Anche la guida senza patente e la guida con patente sospesa o ritirata diventano nel nuovo impianto semplici illeciti amministrativi. Bisogna notare che tali reati erano molto diffusi e che più di un dubbio ha accompagnato il varo di questa depenalizzazione. Così il legislatore, anche se in modo poco chiaro, ha previsto una serie di strumenti per non eliminare il carattere dissuasivo e generalpreventivo della sanzione, anche se amministrativa. Si fa riferimento alla previsione contenuta nell’articolo 5, lett. d). Il legislatore prevede, come "sanzione amministrativa accessoria, il sequestro del mezzo per un periodo non superiore a tre mesi, nonché, in caso di reiterazione delle condotte, la confisca del mezzo". È evidente come sia impreciso il linguaggio utilizzato. Ben sappiamo infatti che il sequestro non ha natura di sanzione accessoria, ma di misura cautelare prodromica alla confisca o alla restituzione del veicolo. Più corretto dunque sarebbe stato il richiamo al cosiddetto "fermo amministrativo", previsto dall’articolo 214 del codice della strada.

Bisogna pure notare come sia prevista un’ipotesi di confisca che ben si distanzia, almeno a nostro parere, dal modello generale tracciato dalla legge 689/1981. Come si è visto a suo tempo, infatti, tale modello si caratterizza come sanzione in senso stretto e, quindi, porta con sé il principio-cardine della personalità della sanzione, con l’espressa previsione della non confiscabilità di beni di soggetti terzi. Qui nulla si dice a riguardo, ma dal contesto sembra emergere che ben altre siano le finalità di tale forma di confisca. Ci sembra quindi che la previsione della legge 205/1999, pur conservando un’intrinseca dose di deterrenza, miri soprattutto alla prevenzione e possa quindi colpire anche veicoli di terzi. Dunque è una forma di confisca che si allontana dai principi della legge 689/1981 e, di conseguenza, dal concetto di sanzione amministrativa in senso stretto.

Un’altra previsione in materia di circolazione stradale che merita di essere ricordata, in quanto di notevole impatto sociale, è quella concernente la decriminalizzazione del cosiddetto "blocco stradale", previsto dall’articolo 1 del decreto legislativo 66/1948. La nuova disciplina prevede una sanzione amministrativa (e non più la reclusione da uno a sei anni) da 2 a 20 milioni. Possiamo dire, senza entrare nel dettaglio, che un simile intervento pare quantomeno azzardato, poiché non si può escludere (e, anzi, si può prevedere con una certa probabilità) un netto incremento degli atti dimostrativi, anche su grandi vie di comunicazione: con la nuova disciplina, infatti, si può sostanzialmente "acquistare" l’attenzione dei mezzi d’informazione e dell’opinione pubblica con il semplice pagamento (in via amministrativa) di una somma di denaro. E ci sembra un po’ poco.

Un altro settore dove è intervenuta in modo rilevante la legge 205/1999 è quello degli assegni "a vuoto", anch’essi sanzionati solo con misure amministrative. La nuova disciplina, peraltro, merita qualche cenno di approfondimento, sia perché riguarda anche altri mezzi di pagamento (come bancomat e carte di credito), sia perché prevede vari istituti da affiancarsi alla mera sanzione amministrativa pecuniaria, con funzioni generalpreventive e specialpreventive. E si può già dire come in questo campo il legislatore abbia forse compiuto lo sforzo maggiore e più corretto per arrivare ad una disciplina organica che non abbia come unico fine quello di sfoltire i processi penali.

I criteri direttivi della legge-delega, contenuti nell’articolo 8, prevedono che l’emissione di un assegno bancario o postale senza autorizzazione o senza provvista sia punito in via amministrativa con una sanzione pecuniaria compresa tra le trecentomila lire e i ventiquattro milioni. Inoltre, a tutela del settore creditizio, è prevista l’istituzione di un (da molti auspicato) "archivio informatizzato" presso la Banca d’Italia, in cui vengono inseriti, con le occorrenti informazioni, i nominativi di coloro che hanno emesso assegni senza autorizzazione o senza provvista ovvero ai quali è stata revocata l’autorizzazione all’utilizzo di carte di pagamento, nonché l’indicazione di assegni o carte di pagamento di cui sia stato denunciato il furto o lo smarrimento.

Bisogna aggiungere che, oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria di cui si è detto, i soggetti che emettono assegni a vuoto o senza autorizzazione vengono colpiti anche con sanzioni amministrative accessorie (di cui all’articolo 8, lett. b), tra cui il divieto di emettere assegni bancari e postali per un periodo da due a cinque anni nonché, nei casi più gravi, il divieto temporaneo di esercitare attività professionali od imprenditoriali e di assumere uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. E queste, previsioni, a nostro avviso, ben mostrano la loro portata afflittiva, tale da caratterizzarle come sanzioni amministrative in senso stretto.

La legge-delega disciplina anche l’ipotesi che tali previsioni sanzionatorie non vengano rispettate. Come si evince chiaramente dalla lettera c) dell’articolo in questione, chi non si attiene ai divieti di cui alla lettera b) si ritroverà sottoposto nuovamente a sanzione penale, e, precisamente, alla reclusione da sei mesi a tre anni e alle pene (criminali) accessorie della pubblicazione della sentenza e del divieto di emettere assegni bancari e postali per un periodo non inferiore a due anni.

Ci sembra dunque che lo sforzo del legislatore sia stato apprezzabile e che questa nuova disciplina riesca a contemperare le differenti esigenze dello sfoltimento dei carichi penali e della effettiva punizione dei soggetti emissari di assegni a vuoto. Anche apprezzabile è, a nostro parere, il mantenimento di una grave sanzione penale in caso di recidiva.

Il giudizio positivo è inoltre confermato dalla disposizione contenuta alla lettera f) dell’articolo 8: si tratta di una forma particolare di responsabilità della persona giuridica. Infatti, qualora un istituto di credito rilasci il libretto di assegni a un soggetto iscritto nel registro informatizzato di cui si è detto, e questo soggetto si renda autore di uno degli illeciti previsti, sarà la stessa banca a rispondere, in via solidale, della sanzione pecuniaria conseguente all’emissione illegittima di assegni. Al di là dei problemi e delle perplessità che abbiamo a lungo illustrato in tema di responsabilità delle persone giuridiche, possiamo dire che tale corresponsabilizzazione della banca trattaria è più che apprezzabile, poiché rende effettiva la prospettiva di pagamento della sanzione (altrimenti di difficile esigibilità) e chiama in causa un soggetto che si pone, a nostro parere, in posizione concorsuale (pur su base colposa) rispetto all’autore materiale dell’illecito.

È opportuno dedicare qualche cenno superficiale anche alle previsioni in tema di illeciti tributari e, a questo proposito, occorre far riferimento soprattutto all’articolo 9, rubricato "Reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto".

L’aspetto più significativo in tema di depenalizzazione riguarda l’eliminazione di tutte le fattispecie contravvenzionali di cui agli articoli 1, 2 e 3 della legge 516/1982. Si prevede, dunque, solo un numero ristretto di delitti, la cui individuazione è rimessa al Governo, e la punizione in via amministrativa di tutti gli altri comportamenti illeciti.

È proprio la delega al Governo in tema di individuazione delle fattispecie delittuose che crea non poche perplessità. Già le Commissioni Affari costituzionali e Finanze della Camera dei deputati avevano sottolineato l’imprecisa formulazione dell’articolo 9; infatti, i criteri direttivi enunciati sono senza dubbio viziati da un’eccessiva genericità. Si fa riferimento, in particolare, a concetti quali "la rilevante offensività per gli interessi dell’erario", gli "altri artifici idonei a fornire una falsa rappresentazione contabile", gli "illeciti economicamente significativi" e molti altri.

A nostro parere, quindi, il Governo dovrà eliminare tali espressioni generiche e introdurre ipotesi delittuose molto dettagliate riguardo agli elementi costitutivi. Dovrà, insomma, individuare fattispecie che oggi si usa definire "blindate", per non incorrere negli insidiosi rischi di illegittimità costituzionale che abbiamo già esaminato, soprattutto nel parlare di norme penali in bianco.

Un altro punto curioso è la previsione, in sede di legge-delega, di una pari pena per le ipotesi di "dichiarazione infedele" e di "dichiarazione fraudolenta". È di tutta evidenza come, in astratto, la fraudolenza, basata sulla produzione di documenti falsi ovvero su altri artifici o raggiri idonei a fornire una falsa rappresentazione contabile, sia un’ipotesi ben più grave dell’infedeltà. Peraltro, a giudicare dai criteri direttivi contenuti nella legge 205, il Governo altro non potrà fare che equiparare le due fattispecie (che, ricordiamo, devono essere sanzionate con egual pena), per evitare, anche in questo caso, le ricorrenti censure della Corte costituzionale.

In ultimo bisogna dedicarsi all’articolo 10, contenente principi in tema di sanzioni alternative alla detenzione. È subito da dirsi che un giudizio completo sulla materia potrà darsi solo scaduti gli otto mesi della delega al Governo; in questa sede, dunque, si esprimeranno solo pareri che speriamo trovino una successiva conferma.

La nuova disciplina contiene dei fondamentali passi in avanti sulla strada del progressivo abbandono (meglio, ridimensionamento) della pena detentiva. Infatti, per tutte le ipotesi contravvenzionali (previste dal libro terzo del codice penale e da leggi speciali) non ridotte a illeciti amministrativi, si prevedono sanzioni alternative (o sostitutive) alla detenzione, quali la prestazione di attività lavorativa non retribuita a favore della collettività, altre forme di lavoro sostitutivo, l’obbligo di permanenza in casa o misure prescrittive specifiche. Al di là della criticabile genericità di quest’ultima previsione, si può dire che finalmente il Parlamento abbia recepito gli inviti rivolti dalla più moderna dottrina a favore di un’individualizzazione (per quanto possibile) del trattamento sanzionatorio. E questa decisiva linea di tendenza è confermata dalla prevista attribuzione al giudice del potere di scegliere, per il caso concreto, la sanzione alternativa più adatta e eventuali "obblighi specifici" per il condannato, al fine di garantire tanto la generalprevenzione, quanto la specialprevenzione e la rieducazione.

Inoltre, parimenti apprezzabile è la disposizione della lettera c) che prevede uno specifico delitto punito con pena detentiva fino ad un anno (questa, correttamente, non sostituibile), integrante le ipotesi di inosservanza o di violazione reiterata degli obblighi connessi alle sanzioni alternative alla detenzione.

Se quindi il Governo saprà sfruttare in modo completo e organico l’occasione offerta dalla legge 205/1999, si potrà infine dire che anche il nostro ordinamento ha compiuto una scelta irreversibile verso una necessaria modernizzazione del sistema punitivo.

In chiusura di questa sommaria analisi delle altrettanto sommarie (per natura) previsioni della legge-delega, si può dire di aver due distinte impressioni. Da un lato sembra, in alcuni punti, che il legislatore non si sia spinto al di là del messaggio simbolico. Si pensi "ai reati in materia di duello, defunti da tempo per morte naturale; alle offese all’onore dei Capi di Stato esteri, reperti archeologici; alle grida o notizie atte a turbare la tranquillità, rottame preindustriale; all’omesso avviamento dei minori al lavoro, beffa tragicomica in un Paese col nostro tasso di disoccupazione; alla vendita di chiavi o di grimaldelli, scena della Vita di Bohème".

Se peraltro si cerca di andare oltre il naturale senso di inutilità che tali ipotesi fan sorgere, ci si può accorgere, a nostro parere, di come questa legge, se ben recepita e sfruttata dal Governo, possa costituire un’importante svolta nel sistema del sistema punitivo pubblico. Qui si rinvengono, infatti, al di là di importanti previsioni settoriali, le chiare linee di una tendenza a incrementare e garantire lo strumento sanzionatorio amministrativo e le ragionate conclusioni verso un "diritto penale minimo" in cui la detenzione risulti l’ultima, aborrita ratio.

 

Par. 4 – Considerazioni conclusive.

 

Si è maliziosamente affermato che la sanzione penale è l’unica misura di diritto pubblico adottabile senza sottostare all’obbligo costituzionale di indicare i mezzi per finanziarla. Anche così si suole sarcasticamente giustificare un ricorso tanto frequente alla pena criminale.

Nella presente ricerca abbiamo cercato di spiegare come, ai giorni nostri, debba essere riconsiderato l’intero sistema punitivo e come si debba tendere ad un progressivo abbandono della sanzione penale, a tutto privilegio della sanzione amministrativa. Ora, a conclusione del lavoro, non ci resta che esprimere qualche considerazione al tempo stesso riassuntiva e conclusiva, nella speranza di lasciare qualche segno che possa servire, innanzitutto, a riflettere ancora sul tema della giustizia.

In primo luogo dobbiamo rivolgere la nostra attenzione al diritto penale. Questo settore del nostro ordinamento ha, a nostro avviso, mostrato dei preoccupanti segni di cedimento, che si possono rinvenire –sulla base di dati statistici- tanto in un aumento nella commissione di reati, quanto in un aumento della previsione di fattispecie costituenti reato, quanto in una emiparesi processuale.

Dunque il sistema penale non funziona o, quantomeno, funziona solo a volte, e spesso male.

Molte sono le strade che si possono in astratto percorrere in un’ottica riformista. Noi abbiamo cercato di analizzare quelle più importanti, senza esimerci da alcune nette prese di posizione. E così, in sintesi, il cammino privilegiato ci sembra quello della decriminalizzazione, che però, com’è ovvio, dev’essere accompagnata da altre innovazioni concettuali e strutturali. Si parla spesso, e con sempre maggior insistenza, della stesura di un nuovo codice penale. È un buon segnale, speriamo di essere all’inizio di un cammino produttivo. A nostro avviso, tale nuovo codice dovrebbe contenere pochi reati. E questo non in omaggio di reminiscenze illuministiche; piuttosto in conseguenza di una preoccupata analisi del nostro sistema. Dal punto di vista procedurale, si è già detto come si faccia urgente il ricorso all’azione penale discrezionale e come ancor più necessario risulti l’incremento dei riti alternativi. Un’importante questione è anche quella della pena, e qui non si vuole di certo disegnare un sistema completo. Ci sia concesso, peraltro, di segnalare come l’evoluzione dei tempi e dei costumi renda progressivamente obsoleta la detenzione, soprattutto alla luce dell’esperienza concreta che vede il carcere come un luogo di contagio e non di cura. È forse utile precisare che, coerentemente con tale linea, ci sembrano maturi i tempi per una seria riflessione sulla pena dell’ergastolo. Le conclusioni non spettano a noi, ma in qualche modo ci sentiamo lontani dal comprendere le ragioni della carcerazione a vita.

Se ci si sofferma sul settore sanzionatorio amministrativo, le considerazioni da proporre sono in parte di apprezzamento e in parte di preoccupazione. Si è già diffusamente parlato del problema della sanzione amministrativa. Qui ci basti ricordare che è il concetto stesso a presentare lati oscuri e spesso disorganici. Quanto possiamo concludere è che la dottrina amministrativistica (incoraggiata da quella penalistica) dovrebbe concentrare i propri sforzi per mettere in luce una sostanziale differenza tra le sanzioni che presentano i caratteri tipici dell’afflittività (e che sono quindi da considerarsi pene in senso tecnico) e misure parasanzionatorie che tali caratteri non hanno (e che trovano la loro giustificazione soprattutto in esigenze di autotutela della pubblica amministrazione). Il legislatore, dal canto suo, dovrebbe preoccuparsi di esplicitare, con maggior chiarezza di quanto abbia fatto nel 1981 (e anche nel giugno 1999), i principi che governano la disciplina sanzionatoria amministrativa; su tutti, dovrebbe individuare procedimenti applicativi chiari ed efficaci garanzie per chi della sanzione è vittima.

Non si dimentichi, inoltre, che molto delicato può essere il rapporto tra sanzione penale e sanzione amministrativa. Possono infatti presentarsi casi di concorso apparente di norme che, come si è visto, vanno ormai risolti alla luce del mero principio di specialità contenuto nell’articolo 9 della legge 689/1981. Con buona pace dell’oltranzismo penalista, dunque, non è più prospettabile una primazia del diritto penale che, anzi, risulta oggi trovar miglior collocazione nelle vesti "minime" della sussidiarietà. È un cambiamento importante, forse è l’inizio di una nuova tendenza, ma proprio per questo non si può aprioristicamente rifiutarlo; anzi, a noi sembra che, con le dovute cautele e spogli di inutili entusiasmi, lo si debba accettare come una necessità storica e lo si debba sfruttare al meglio; senza dimenticare che la scienza giuridica non ha pretese di assolutezza, ma ha la funzione orgogliosamente utilitaristica di individuare regole.

Non si deve infine sottovalutare che un ruolo di primo piano sarà svolto dall’Unione europea. Come abbiamo chiarito, già oggi la potestà sanzionatoria amministrativa sovranazionale presenta segni di sviluppo. Senza assumere le vesti di Cassandra, possiamo prevedere che in un tempo ragionevolmente breve sarà demandata all’Unione anche una potestà punitiva penale. Non si può giudicare il futuro, ma anche questa strada presenta spunti di indubbio interesse, che verosimilmente occuperanno negli anni a venire un ruolo di primo piano nelle discussioni dottrinali.

Ci si lasci concludere con un pensiero sul crescente allarme sociale per l’aumento della criminalità. Di questi anni di studio ci rimane un insegnamento importante: il diritto può essere giusto o ingiusto, ma deve essere certo. Forse poco realisticamente, ma abbiamo affrontato la ricerca partendo da questo presupposto. È solo così, infatti, che si può parlare di sanzione amministrativa, di sanzioni sostitutive alla detenzione, di abolizione dell’ergastolo. Non lo si può invece fare se si ha come punto di partenza la vergogna di pene mai scontate, di sospensioni condizionali ossimoriche, di processi di revisione politici, di azioni penali arbitrarie, di sanzioni amministrative mai riscosse o irrogate a piacimento.

Lo ripetiamo: forse i nostri punti di partenza mal si attagliano alla realtà. Ma ci si voglia concedere, in quella che per noi è l’ultima occasione, ancora un po’ di illusione.