BASILICHE PALEOCRISTIANE, OSSERVAZIONI

khrs.gifLa basilica romana di S.Vitale, indagata dal Matthiae negli anni Cinquanta, fu da questi ritenuta edificio eccezionale nell'insieme delle antiche chiese di Roma. Una coppia di pentafore colonnate in facciata (tra loro in asse) gli sembrarono infatti dimostrare come, nella fase originaria, il tempio fosse volutamente lasciato aperto alla vista e all'accesso diretto dall'esterno. Matthiae riteneva, infatti, che la distanza di poco più di cinque metri interposta tra il filo esterno del portico di facciata della chiesa e l'antica sede stradale dell'antistante "vicus longus", fosse oltretutto troppo scarsa perchè altri manufatti antichi vi trovassero posto e che questo confermasse incontrovertibilmente la sua teoria per la conformazione dell'ingresso in antico. Egli allora si volse alla ricerca di elementi di sostegno per un'ipotesi di cronologia la più alta possibile se non proprio per S.Vitale, la cui data di dedica è nota come certamente pertinente al V secolo, almeno per una possibile fonte d'ispirazione rispetto ad una tipologia così singolare. Il modello, di cronologia costantiniana, per il sistema d'accesso che gli sembrava evidenziarsi in S.Vitale, lo indicò perciò nel supposto analogo arrangiamento di facciata dell'antica basilica vaticana, nonchè delle basiliche cimiteriali tipiche di Roma nel IV secolo. Quanto al perchè dell'adozione di tale modello per una chiesa urbana come S. Vitale, fece riferimento all'agire dell'influsso dell'architettura aulica su quella cristiana in epoca costantiniana e alla conseguente ricerca di effetti trionfalistici e propagandistici da parte dei committenti. Le cose furono poi ulteriormente complicate dallo stesso Matthiae quando volle stabilire confronti e possibili equivalenze tra la situazione da lui evidenziata a S. Vitale (che riteneva senza alcun dubbio una chiesa originariamente "aperta" sulla pubblica via) e quella di altre chiese romane per cui era già nota l'esistenza (o in qualche caso la sola possibilità dell'esistenza) di una polifora aperta nel muro di facciata quale accesso alla navata centrale; essendo però al contempo solo ipotizzato che tali polifore fossero precedute, in quei casi, da altre simili in asse e men che mai provato che il tutto fosse direttamente aperto verso l'esterno. tav_1.gif
Ho voluto soffermarmi sull'impostazione data da Matthiae al problema, da quarant'anni a questa parte in realtà mai confutata seriamente, poichè alcuni suoi aspetti ne risultarono fuorvianti; e ciò con buona pace dell'apparente avallo che ne veniva da parte di Prandi e stante la sostanziale accettazione acritica di essa da parte di Krautheimer, per esempio.
La prima cosa discutibile, in tale impostazione, è l'aver dato per assiomatica la ricostruzione della situazione originaria della facciata di S.Vitale proposta; la seconda è l'aver spostato l'ambito di riflessione critica, storica e tipologica, eminentemente sull'epoca costantiniana e addirittura su quella precedente; trascurando proprio quel V secolo (o poco tempo prima) cui si riferiscono le fonti disponibili e pertinenti; la terza (ma potremmo considerarla accessoria) l'aver chiamato in causa quella particolare classe di edifici, quali sono le basiliche circiformi, che le recenti ricerche consigliano di valutare con estrema prudenza rispetto a qualunque ipotesi di influenza su chiese urbane di qualsiasi genere, delineandosi sempre più fortemente (per le circiformi) la decisiva importanza del loro ruolo nell'ambito cimiteriale e le conseguenze di ciò sulla genesi e lo sviluppo dell'architettura del tipo.
Occorre allora ripartire da S.Vitale e provare a vedere perchè, per cominciare, potrebbe non essere affatto scontato che quella chiesa rimanesse in origine aperta sulla pubblica via, con un semplice portico con una polifora in facciata. Il portico anteriore mostra innanzitutto un macroscopico indizio interno a favore, quantomeno, della sua originaria organicità rispetto al complesso schema compositivo che presiedeva alla disposizione degli spazi della chiesa: esso era tripartito da due trifore, poste perpendicolarmente al muro di facciata e in asse con i colonnati interni della chiesa. Un particolare che già consentirebbe, da solo, di avviare una riflessione in ordine alla suddivisione degli spazi interni del tempio in rapporto alla fruibilità in senso gerarchico di navate laterali e navata centrale; oppure di riflettere sui percorsi stabiliti a priori per chi entrava nel tempio; senza contare che, strutturalmente, detto particolare serve a rafforzare la tesi di una copertura in piano, e praticabile, del portico di S.Vitale: altro elemento a favore di una "complessità" compositiva dell'insieme delle strutture anticamente presenti in facciata.
C'erano dunque due ambienti, probabilmente quadrangolari, (ad esso organici) ai lati del portico di S.Vitale; e detto portico si presentava centralmente quale spazio racchiuso da polifore sui quattro lati, nonchè separato da due bassi gradini lungo il lato tangente alla navata centrale. Questi due ambienti avevano evidentemente accessi proprii dallo spazio ora descritto e fungevano da raccordo con le navate laterali. Il tutto era verosimilmente coperto da un solaio praticabile che non sappiamo quale sviluppo avesse, ai lati di facciata, sulle navate laterali (vd. tav. 3 ). Un arrangiamento tuttaltro che semplice. Osservando inoltre il prospetto esterno della polifora anteriore di S.Vitale, quale è raffigurato in una fotografia che mostra i restauri del 1956 in corso d'opera (tav. 1 ), si vedono chiaramente quattro residui di ammorsature laterizie. Essi sono posti in corrispondenza di ciascuno dei punti di raccordo degli estradossi delle arcate: per i due centrali (i più grossi e soli a essere considerati allora) si ipotizzò potessero rappresentare i resti dell'attacco di un protiro, non escludendo che questo potesse far parte della versione originaria della facciata della chiesa. Ed effettivamente è molto probabile che il protiro ci fosse; così com' è fortemente possibile che sia stato inserito in una fase seriore. Non altrimenti si spiegherebbe l'essere capitelli e pulvini delle due colonne dell'arcata centrale della pentafora, scalpellati sul lato interno e precisamente a filo con l'intradosso dell'arco: evidentemente a seguito di un innesto traumatico (perciò posteriore) della struttura in quel punto.
Ma rimangono ancora da spiegare le altre tracce di ammorsatura ai lati di quelle esaminate per il protiro: cosa testimoniavano? Un intervento tardo? Magari collegato al protiro?
E se così fosse, perchè gli altri capitelli e pulvini della pentafora sarebbero stati lasciati intatti? E che tipo di conformazione ne sarebbe poi risultata insieme al protiro? Con quale confronto a Roma?...
Naturalmente è impossibile dare risposte certe. L'unica cosa certa è, semmai, che le superstiti tracce di ammorsatura più esterne ci parlano di un intervento non traumatico rispetto alle strutture portanti e decorative della pentafora. Che si possa quindi parlare di indizi a favore dell'esistenza di una qualche struttura risalente alla fase originaria e che là si appoggiava, è certamente solo un'ipotesi; ma da tener da conto. E' lecito ritenere, infatti, che questa struttura avesse agio di disporsi nello spazio di m 5,50, compreso tra la pentafora di facciata e la sede stradale dell'antico "vicus longus"? E ammesso che si trattasse di un semplice muro rettilineo provvisto di una o più porte, quali elementi, possibilmente di ambito romano e di cronologia confacente, si possono portare a confronto? C'è, infine, modo di inquadrare criticamente il tutto? Naturalmente le altre chiese romane con ingresso a polifora alla navata centrale, sono utili alla riflessione; ma lo sono ancora di più se prima ci soffermiamo su di una chiesa romana che per la sua specificità, ha forse conservato traccia decisiva di come fosse concepito dal punto di vista architettonico-compositivo il sistema di accesso che troviamo indiziato in S.Vitale: questa chiesa, per quanto strano possa apparire il confronto, è S.Stefano Rotondo.
Dedicata una quarantina d'anni dopo S.Vitale, in pieno V secolo, da papa Simplicio, la chiesa circolare del Celio ha rivelato una complessa vicenda costruttiva e l'adozione di uno schema di conformazione dell'accesso all'interno (ripetuto, identico e simmetricamente, per quattro volte) che è utile confrontare con quanto abbiamo in S.Vitale; esso, per di più, è stato curiosamente fatto oggetto di modifiche in corso d'opera tali da far pensare che gli artefici lo abbiano là stancamente applicato per l'ultima volta: proprio più o meno nello stesso periodo in cui le pentafore delle chiese del gruppo di cui ci occupiamo pare venissero anch'esse modificate o cadessero in disuso.
Ma ciò che si vede in S.Stefano Rotondo va considerato soprattutto perchè se si confronta il puro schema compositivo-architettonico e dei percorsi interni, che deriva da un singolo dispositivo d'accesso in quella chiesa, con quanto oggettivamente è stato possibile rilevare più sopra per S.Vitale, si ricevono lumi da un edificio per l'altro e viceversa (vd. tav. 3 ). Una sommaria analisi metrica degli spazi in giuoco nelle conformazioni originarie degli accessi adottate nelle due chiese; l'evidenza delle assonanze riscontrabili dal punto di vista tecnico e decorativo nelle membrature architettoniche impiegate, rappresentano, infine, altri elementi interessanti di valutazione.
A questo punto si può passare a notare come pure le altre chiese romane dall'ingresso a polifora non solo non si rivelino in contrasto con quanto si va delineando, ma servano ad ampliare le possibilità di confronti e forniscano altri significativi indizi e rimandi a cronologia più precisa (vd. infra), permettendo di approfondire l'argomento.

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La particolare disposizione del quadriportico antistante S.Sisto Vecchio, infatti, illumina in ordine a possibili varianti (quando, evidentemente, ce ne fosse stato lo spazio disponibile) del citato schema di accessi e percorsi dall'esterno all'interno del complesso sacro (vd. tav. 2 ); La provata esistenza di porte d'accesso indipendenti dalle estremità del portico di facciata alle navate laterali, in S.Pietro in Vincoli e SS.Giovanni e Paolo, precisa la volontà di gerarchicizzare gli accessi stessi all'interno di naòs e navate, configurando meglio la pentafora d'ingresso alla navata maggiore come accesso privilegiato e particolarmente enfatico, di probabile originaria destinazione d'uso esclusiva per il clero. La sicura esistenza di una galleria praticabile sopra il portico di facciata nella chiesa di SS.Giovanni e Paolo, inoltre, supporta gli indizi presenti in S.Vitale nello stesso senso (supra) anche se non è possibile precisarne in dettaglio un'ipotesi di utilizzo originario.
E' in definitiva lecito ragionare della conformazione di veri e propri narteci, parte integrante in pianta e in alzato dei sistemi compositivi delle rispettive chiese, che non di semplici portici giustapposti alle facciate. Ragionare di architetture che si rivelano comparabili a quelle di noti esempi orientali, coevi per di più (vd. infra), che Matthiae dichiarò espressamente di non voler considerare pertinenti al gruppo di chiese romane in oggetto, perchè trascurò le evidenze di cui sopra, muovendosi oltretutto sulla base di notazioni critiche frutto di rigidi schematismi. Quindi si devono citare le chiese tessalonicesi di S.Demetrio e dell'Acheiropoieta; quella costantinopolitana di S.Giovanni di Studios; la B di Lekaion; la A di Filippi e altre (vd. tav. 4 ). Ma persino la basilica del complesso di Alahan in Cilicia e quelle siriane di El Bara e B di Resafa si osservano pertinenti, in un giuoco di confronti con l'occhio rivolto alla disciplina dei percorsi nel tempio e alla suddivisione degli spazi che ne deriva, nell'ambito dell'architettura sacra dell'Orbe nel V secolo (tav. 4 ). E questo.al di là della banale constatazione che, per di più, l'accesso alla navata centrale in queste chiese avvenga a volte attraverso una polifora. Si deve precisare meglio, allora, proseguendo a riflettere su questi edifici di culto, romani e non solo, la cui architettura indizia intenti compositivi così significativi, il momento storico in cui essi si costruiscono.
tav_4.gif La cronologia relativa all'insieme degli edifici romani in questione porta più o meno alla prima metà del V secolo, ma con qualche precisazione da fare preliminarmente. Ciò che ad esempio non si è potuto mai stabilire con certezza per S.Pietro in Vincoli è stato il quando fu costruita la chiesa (che aveva la pentafora d'ingresso) precedente quella per cui si manifestò la volontà di un'intervento da parte di Teodosio II e dell'imperatrice Eudocia sua moglie. Anche spostando la data del successivo intervento di Sisto III-Eudossia fino al 450 (morte di Teodosio II) e teoricamente fino a quando Eudossia non fu portata via da Roma da Genserico nel 455, non si può daltronde fare risalire la costruzione della prima chiesa oltre la metà del IV secolo, epoca in cui il sito era occupato da quell'aula privata cui si volle addirittura annettere la possibilità di un uso liturgico (forse perchè spinti a ciò dall'angustia degli spazi cronologici disponibili). Uno scarto di pochi decenni, quindi, tra la prima chiesa e il massiccio intervento che ne seguì. Probabilmente un evento traumatico interruppe la vita della prima chiesa, causando i successivi lavori di grande entità e di committenza imperiale. Se per questo pensassimo al terremoto certamente verificatosi a Roma nel 442/443, avremmo una data molto prossima a quella della dedica di S.Vitale, diciamo intorno al 400, per l'erezione del primo S.Pietro in Vincoli. A maggior ragione, poi, ammettendo che la chiesa di Sisto III-Eudossia abbia mantenuto la polifora d'ingresso, solo riducendone le arcate da cinque a tre per motivi di consolidamento statico della facciata dovuti al terremoto.
Anche la fase con ingresso a polifora della basilica di S.Clemente è stata di recente autorevolmente posta nell'ambito del V secolo, mentre per S.Maria Maggiore e S.Pudenziana bisogna notare come i due edifici rappresenterebbero le due sponde cronologiche, in avanti e indietro, rispettivamente, per il gruppo di chiese romane dall'ingresso a polifora: nel caso di S.Pudenziana non essendo possibile spingersi oltre la fine del IV secolo (pontificato di papa Siricio), con S.Maria Maggiore rimanendo invece in pieno pontificato di Sisto III.
Tutti gli edifici romani con ingresso a polifora si possono dunque situare (volendo essere prudenti nelle attribuzioni al V secolo) tra il 390 e il 420 circa: in altre parole perfettamente dentro un periodo storico-politico che si può significativamente definire "teodosiano". Un periodo il cui inizio è subito successivo a due tappe fondamentali del rapporto Stato-Chiesa sotto Teodosio, entrambe orientate verso una fattiva organizzazione ecumenico-cattolica delle cose: l'Editto di Tessalonica del 380 e il Concilio di Costantinopoli dell'anno dopo. Questi edifici si situano all'indomani di avvenimenti di tale portata (quasi integralista) da autorizzarci a guardar loro, a Roma e forse nell'Orbe intero, come a tangibili manifestazioni di un'ideologia che si afferma e sempre (sarà un caso?) materialmente grazie a iniziative di alta o altissima committenza. Un'ideologia che funge da filo conduttore a partire dal 380 almeno fino al 450 quando, con Galla Placidia, scompare l'ultima discendente diretta di Teodosio; un'ideologia che non perde in continuità ne' con l'esperienza stiliconiana ne' con l'incontrollato sviluppo del ruolo della componente gotica (e ariana) negli equilibri politico territoriali dell'epoca, e neppure per la progressiva spinta centrifuga della "Pars Orientis" dell'Impero. Solo il tracollo militare occidentale e africano che matura nel corso dei primi trent'anni del V secolo, assieme al progressivo distaccarsi delle comunità religiose orientali di marca monofisita, segnando la fine definitiva del modello cattolico-imperiale teodosiano; forse favorendo, lentamente, il progressivo vanificarsi di uno sforzo di omogenizzazione cattolica che oggi possiamo intuire dagli indizi architettonici disponibili negli edifici di culto del periodo, ma che molto maggiore traccia di se' doveva avere lasciato nella liturgia, per esempio, che si praticava nelle nostre chiese.
Purtroppo non esiste la fonte chiara e ineccepibile per la liturgia della Messa nel V secolo a Roma o altrove: questo è un dato di fatto che crea enormi problemi ai fini della corretta esegesi dei monumenti che qui si trattano. Se tuttavia prendiamo in considerazione quanto ci è pervenuto descritto nell'Ordo Romanus I per l'Occidente e nella Liturgia di S.Giovanni Crisostomo per l'Oriente (testi di cui è riconosciuta la pertinenza sostanziale ad epoca anteriore a quella delle tarde redazioni in cui ci sono giunti) riguardo il solenne rituale d'entrata e di uscita del vescovo nel tempio, non possiamo fare a meno di osservare come detti riti si attaglino perfettamente allo schema delle disposizioni architettoniche e dei percorsi che si è esaminato più sopra (vd. tav. 2 e 4 ) e all'ideologia che ritengo ispiratrice di esso. Ideale sarebbe poter definire con precisione il momento storico in cui si impone l'attenta codificazione di questa parte del rito della Messa, così fortemente tesa a porre in risalto la dignità anche temporale del Celebrante e il rispettoso distacco tra clero e popolo nel tempio. Le fonti non permettono di dire se ciò sia avvenuto in epoca costantiniana o piuttosto teodosiana (come sono propenso a credere); ciononostante il Liber Pontificalis riporta incidentalmente per gli anni 422/432 la notizia dell'introduzione dell'uso del canto dei Salmi per accogliere il vescovo in chiesa. Forse in quell'epoca si intese ulteriormente solennizare un rituale già in uso da prima? Ma c'è da domandarsi come un rituale poniamo già codificato nell'uso da epoca costantiniana, potesse essere passibile di aggiunte di tale valore simbolico dopo tanto tempo (a metà V secolo): dovendosi infatti riconoscere il canto dei Salmi all'entrata del vescovo in chiesa, equivalente ad un'acclamazione come nell'uso del cerimoniale imperiale. Un vero e proprio rapportarsi della liturgia a quel tipo di cerimoniale.
A Roma, rispettivamente sotto Innocenzo I e Sisto III, nel pieno del clima ideologico teodosiano per come lo si è individuato sopra, si recepiscono la festività orientale dell'Epifania e l'uso palestinese della celebrazione diurna della nascita di Cristo; di contro l'Oriente recepisce, nello stesso periodo, la festività occidentale del Natale al 25 Dicembre...
E' curiosamente in questo periodo, nel V secolo, che si redige un controverso testo a carattere vagamente normativo sul quomodo oportet sit aedes sacra : il "Testamentum Domini", appunto.
Tra il Concilio di Costantinopoli del 381 e quello di Calcedonia del 451 si produsse il massimo sforzo teologico verso l'ortodossia e l'omogeneità religiosa dell'Impero, nonchè la definizione drastica delle questioni di primato tra sedi episcopali: tutto grazie a un forte impulso ideologico verso l'Unità che solo dopo il 451 nestoriani e monofisiti attaccheranno apertamente (cosa che potremmo prendere a ulteriore riprova dell'entità dello sforzo prodotto in senso unitario).
In conclusione nulla ci impedisce di ritenere che tutto questo abbia avuto i suoi risvolti liturgici e quindi architettonici nella pratica delle varie comunità dell'Orbe del tempo, compresa la romana. E se logicamente non si produssero dappertutto esiti di speculare identità, si ebbe forse una stagione all'insegna di un sorprendentemente forte indirizzo generale comune, che investì, insieme, architettura e rituale sacri.

in 'Domum Tuam Dilexi' - Città del Vaticano - 1988