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HASTA LA VICTORIA SIEMPRE, 2003, fotografia montata su alluminio, cm. 100 x 125
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HASTA LA VICTORIA SIEMPRE, 2003, fotografia montata su alluminio, cm. 100 x 125IL PONTE SUL SECCHIA, Borgo Venezia, Sassuolo, ottobre/novembre 2002
DANTE CORTI, Borgo Venezia, Sassuolo, lunedì 9 dicembre 2002, ore 14,00
IL CIRCOLO A.R.C.I. ALETE PAGLIANI, Borgo Venezia, Sassuolo, ottobre/novembre 2002
MONUMENTO A NORMA BARBOLINI, Borgo Venezia, Sassuolo, ottobre/novembre 2002


di Serena Goldoni

Gianmaria, le fotografie esposte a “Passaggi”, fanno parte di un progetto ben più ampio, “Eravamo tutti uguali”, articolato in diverse sedi, che si è concentrato su una personale rivisitazione dell’esperienza partigiana nella nostra provincia. Sotto quale punto di vista hai riflettuto su questo argomento?
L’argomento attraverso il quale risulta più semplice avvicinarsi alla mostra, é l’uso politico della memoria. Ho immaginato un percorso che, attraverso le tre sedi in cui é stato costruito l’evento, Galleria Civica di Modena, Istituto Storico della Resistenza, Circolo Alete Pagliani di Sassuolo, sviluppasse questo tema. Per prima cosa, in Galleria Civica, attraverso una serie di fotografie, si poteva prendere atto di come attorno al patrimonio della Resistenza ci sia stata una forte strumentalizzazione. Ho immaginato in realtà, questo evento, come una sorta di percorso “alchemico” che dalla constatazione dei fatti, ci conducesse al recupero di un’esperienza, di un pezzo di storia che, l’eccessivo abuso politico ci ha sottratto. Tutta la mostra è in realtà un invito a recuperare la nostra storia, la storia raccontata, la storia delle persone comuni che l’hanno fatta e ad abbandonare quella ufficiale e politica, una concezione se vuoi sentimentale a dispetto di un’altra più rigorosa ma anche strumentalizzabile. In questo senso l’intera operazione è anche una riflessione sul significato dell’utopia, sia nei rimandi del titolo della mostra, Eravamo Tutti Uguali, cioè a quella momentanea condizione di uguaglianza, dei due anni di Resistenza in Italia, in cui le differenze sociali e di classe e le istanze di esclusione si erano annullate, sia, come ti dicevo poc’anzi, nel tentativo di recuperare la storia raccontata a dispetto di quella politica.

All’Istituto Storico invece, attraverso una serie di interviste audio, che ho fatto io stesso agli ex-partigiani, ed un video, ho tentato di mettere in atto quella restituzione dell’esperienza partigiana di cui parlavamo prima e ho lavorato anche, specificatamente, sullo spazio, sul suo significato. L’Istituto è un luogo di memorie ricchissimo, depositario della nostra storia locale contemporanea, vi sono raccolti gli archivi del P.C.I. e della C.G.I.L., i documenti della Repubblica di Montefiorino, i giornali locali dagli anni ‘30 fino ai giorni nostri, un serbatoio enorme per la storia della città. Mi sono subito reso conto, di come quel luogo, proprio perché appartenente ad una certa cultura politica e ad un certo mondo, vivesse una sua forma d’esclusione rispetto alla città, cosa che lo rende luogo non vivo nonostante gli sforzi del direttore e dei suoi collaboratori. Ho cercato di eliminare questa sorta di limbo culturale su quel luogo, realizzando un evento d’arte, con tutti i significati altri che questo comporta, proprio lì dentro. Credo fortemente nella capacità dell’arte contemporanea di spostare i significati consolidati, di farsi luogo interstiziale e non codificato.

Infine, la parte che a livello umano mi ha dato maggiormente, proprio perché partecipata dalle persone, è stata al Circolo Pagliani di Borgo Venezia a Sassuolo. Devo dire che ho scoperto completamente una generazione, che è poi quella dei nostri nonni, ho trovato delle persone di grande semplicità, magari anche di bassa scolarizzazione ma soprattutto di valori morali ed etici fortissimi. La consuetudine alle cose, molto spesso, c’impedisce di comprenderle veramente.
Lì, se vuoi, ho fatto qualcosa di molto semplice, ho realizzato un video legato al luogo in cui è stato ucciso, assieme ad altri 10, il partigiano che dà il nome al Circolo, Alete Pagliani appunto, attorno al quale gran parte del lavoro è stato fatto. Avevo voglia di dare qualcosa a questa gente che si é messa completamente a disposizione e ho avuto la fortuna di trovare la casa dove è accaduto il fatto, pressoché immutata rispetto a 60 anni fa. Non ho fatto nient’altro che riprenderla con tutti i suoi rumori e silenzi naturali, quelli della campagna, é come se avessi creato una sorta di sospensione che rimanda al fatto storico e che è rotta, verso la fine del film da alcuni spari che fungono da catalizzatore e da accento al fatto stesso.
Ma l’aspetto più interessante che viene fuori da un agire estetico di questo tipo è stata senz’altro la discussione scaturita dalla visione del film. Io credo che il vero lavoro non fosse tanto il video quanto l’aver coinvolto e reso partecipi le persone in un progetto che le riguarda direttamente e che ci ha condotti insieme, ad una riflessione e una presa di coscienza sui temi della mostra e non solo. Immagina 70/80 persone tra giovani e vecchi che discutono e fanno domande per più di un’ora, sui metodi di trasmissione della memoria, che fanno una critica al film appena visto che si relazionano e si pongono problemi, a mio avviso una tra le più belle discussioni di estetica e di critica d’arte cui io abbia mai partecipato.

Rimanendo sulle fotografie esposte a Modena: gli ex-partigiani sono stati ritratti con indosso magliette che riportano il loro volto, reso come l’immagine di Che-Guevara. Che cosa hai voluto sottolineare? E perché hai voluto utilizzare come set il circolo Alete Pagliani di Borgo Venezia a Sassuolo?
Come ti dicevo la parte di lavoro in Galleria Civica comportava, ai fini del progetto, una “denuncia”. Si è trattato quindi di compiere una piccola violenza su queste persone che hanno 80 anni e più, facendogli indossare le magliette con il loro ritratto e fotografandoli in un vero set per più di un’ora. Tutto questo mi è servito per mettere in evidenza, ovviamente con una certa ironia, la violenza ben più grande che ha compiuto la politica su queste persone. Sono stati trasformati in icone del nostro tempo e attraverso questo processo si è perso e raffreddato il significato politico, sociale, morale, etico e umano di quel momento. Per quanto riguarda il Circolo mi è sembrato da subito un luogo perfetto, ha per me una sua forma di bellezza e poi ancora una volta è un luogo di una certa cultura, un luogo tipo che corrisponde ad un’idea che abbiamo di certi luoghi. Ci sono poi anche ovvie ragioni logistiche, gran parte delle persone vivono attorno al circolo o nelle immediate vicinanze, così una parte del lavoro è risultata più semplice.

Tu hai lavorato spesso sul tema della memoria, molte volte legata ad una sfera personale. Che importanza ha per te la memoria, e quale significato acquista in una operazione come questa?
Marco Scotini, curatore della mostra, ha usato una metafora molto azzeccata a proposito del mio procedere da un uso personale ad altro di carattere sociale nell’uso della memoria, gli anelli concentrici di un albero.
All’inizio di questo progetto, in fase di riflessione, cercavo un luogo che potesse definire una terra, mi sembrava che la Resistenza e il Comunismo fossero due ottimi momenti per parlare dell’Emilia. La memoria nel mio lavoro è sempre legata all’identità, non è mai il passato come luogo temporale, ma il passato come luogo di definizione dell’io come sua messa in crisi. Mi sono formato negli anni ’90, che sono stati caratterizzati dal crollo degli ideali e come molti ho lavorato sulla ri-definizione dell’io a partire da una condizione che non permetteva più di dare certe cose per date. La differenza tra il lavoro che facevo allora e che faccio adesso sta nello sguardo che ha mutato prospettiva, rivolto all’interno prima, verso l’esterno adesso. Nel corso di questo lavoro pertanto il legame affettivo e identitario con l’Emilia ha lasciato il posto al concetto di utopia, di ribellione, di uso politico della memoria.

16 maggio 2003

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Gianmaria Conti è nato a Sassuolo nel
1970. Vive e lavora a Milano.