di
Silvia
Ferrari
Quando
hai cominciato a occuparti di fotografia e quali sono state le esperienze
formative più significative?
Ho iniziato a fotografare alletà di circa 16 anni per
una curiosità che poi si è trasformata in passione, ma
è stato frequentando lIstituto Superiore Industrie Artistiche
di Urbino che ho acquisito le basi teoriche e tecniche che mi hanno
dato modo di crescere anche professionalmente come fotografa. Successivamente,
lesperienza a Fabrica, dove ho seguito per un anno un corso di
progettazione grafica e fotografia, è stata fondamentale per
gli scambi culturali e le fonti con cui sono entrata in contatto. Al
TPW, grazie ad una borsa di studio di Canon del premio giovani fotografi,
ho avuto modo di conoscere e lavorare insieme a personaggi come Paul
Graham, Martin Parr e Gary Knight. A questultimo in particolare
devo molto: mi ha insegnato come si possano raccontare delle storie
attraverso un percorso di immagini fotografiche; certo la sua esperienza
è molto diversa dalla mia, essendo reporter di guerra. Nel periodo
trascorso a Fabrica sono nati i miei lavori più importanti: Guardami,
un reportage realizzato in un istituto per portatori di handicap; Casa
Nostra, il reportage sul campo profughi in Slovenia, presentato
anche a Modena per la rassegna Passaggi 2002; Lavorare
Stanca, presentato nellultima edizione di Arte in
Contemporanea a Modena.
Nella tua professione ti occupi di fotografia pubblicitaria. Come
si concilia questo aspetto con quello del lavoro sulla fotografia sociale
e documentaria che tu hai portato avanti in reportage come "Casa
Nostra" o Guardami?
Effettivamente sono due aspetti contrastanti, ma non del tutto isolati
tra loro. Lavorare nella fotografia pubblicitaria significa dover sottostare
a regole di comunicazione, talvolta molto rigide, che devono tener conto
di un prodotto, del target a cui si rivolge e del linguaggio con cui
lo si comunica; nel lavoro sui reportage che realizzo non per un cliente,
ma per mia personale ricerca artistica, posso esprimermi più
liberamente. I due campi però non si osteggiano, anzi, si alimentano
tra loro e attingono luno dallaltro: così può
succedere che il linguaggio dellironia o luso dei simboli,
che vengono dalla pubblicità, influenzano anche i miei reportage
e allo stesso modo il mio modo di parlare di problemi sociali senza
sensazionalismo, ma attraverso la quotidianità influenza anche
il mio lavoro. Mi piacerebbe molto poter utilizzare sempre e liberamente
il linguaggio artistico anche nel lavoro pubblicitario: quando questo
è possibile mi sento molto gratificata.
Il lavoro Casa Nostra sul campo profughi a Postojna,
in Slovenia, corre su un doppio filo: gli interni e le persone che li
abitano, come si trattasse di un continuo lavoro sulla rivelazione di
unidentità che passa anche attraverso gli oggetti, gli
arredi, gli spazi. Il tuo è come fosse una lunghissima e particolareggiata
riflessione sul ritratto, sei daccordo?
Sì, io fotografo sempre le persone. Mi interessa mettere
in luce lumanità anche nelle situazioni più estreme.
Sarei molto felice se riuscissi a trattare con la stessa quotidianità
anche quelle esperienze che non appartengono alla vita che siamo abituati
a considerare "normale". In fotografia non mi interessa costruire
situazioni forti o realtà diverse, non ce nè bisogno.
In quel reportage ad esempio vedevo intere comunità che si sforzavano
di rendere familiari spazi angusti, stanze minuscole e dimesse; vivevano
tutti insieme in luoghi che non erano la loro casa ma che dovevano diventare:
questo bastava. Non è facile far accettare al pubblico certe
situazioni, come lhandicap ad esempio. Trattare lhandicap
non è facile: rischi di cadere nel pietismo e ti scontri con
latteggiamento di gran parte del pubblico per cui quellargomento
è ancora un tabù; molta gente vedendo il mio reportage
Guardami si sente toccata nei valori di perfezione e finzione.
Io voglio parlare della normalità dellhandicap.
Con che spirito ritorni a fotografare situazioni più comuni,
dopo reportage di questa natura?
Il cambiamento di contesto è forte, ma non traumatico. Quando
entri in una situazione e la vivi profondamente, ecco che diventa la
tua normalità. Così succede nel campo profughi, come sul
posto di lavoro. Il rischio anzi è che limmergersi continuo
in una situazione nuova tenda a far dimenticare quello che hai appena
vissuto. Poi quando in camera oscura scegli e stampi gli scatti fotografici
è come rivivere tutto di nuovo.
20
maggio 2003
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Annalisa Mazzoli è nata a Mirandola nel 1974.
Vive e lavora tra Modena e Milano.