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di Piergiorgio Viti

Ciò che mi colpisce del tuo lavoro è la grande varietà dei temi che si susseguono con una certa ricorrenza nell’espressione della tua creatività, senza mezzi espressivi predefiniti passando con una grande disinvoltura dalla grafica all’installazione. Quale è la molla che fa scattare l’ispirazione? Come nasce un tuo lavoro?
Ci sono amori, suggestioni, che mi porto dietro da molti anni; opere che hanno cambiato la mia vita, come la visione della “Processione delle vergini di Sant’ Appollinare, “L’Esercito di terracotta cinese”, oppure la lettura di Pirandello con “Uno Nessuno Centomila”…insomma quello che si dice il background. A tutto questo vanno aggiunte le influenze epocali, il peso della vita di tutti i giorni, il fatto che appartengo ad una delle prime generazioni cresciute con la televisione, con i cartoni animati e con Quark.
Un mio lavoro nasce con tutti questi presupposti e si avvale di un elemento portante che è rimasto più o meno costante nel tempo: il voler rappresentare il limite tra il bene e il male, il bello ed il brutto il buono e il cattivo

Le tue opere hanno un carattere estremamente autobiografico, come ad esempio “specchio delle mie brame” presentato per la rassegna “Slow Food Fast Mood!” in cui un bestiario diventa motivo di autoanalisi, dove gli animali assumono forme antropomorfe per somigliarti. In serie come “ho superato le dosi consigliate” oppure “tutti i mali che vengono per nuocermi” l’autobiografismo si ritrova fortemente nel titolo ma non si rileva in maniera altrettanto palese nel iconografia. Da cosa deriva questa scelta? Quali sono le analogie e le differenze di questi lavori?

Ho iniziato a lavorare sul senso del pericolo, sull’ambiguità, “tutti i mali che vengono per nuocermi” o “ho superato le dosi consigliate” sono lavori che sono seguiti ad installazioni quali “la valle degli orti” o “non disperdere nell’ambiente dopo l’uso”; lavori questi ultimi dove io partivo già da titoli che suggerivano un senso di indeterminatezza. Sono poi arrivata a individuare me come protagonista del lavoro: il pericolo non è più generico ma mi minaccia in prima persona. Il passo per diventare io stessa fonte di pericolo è stato breve: “ specchio delle mie brame” è un ciclo di vizi e virtù….vizi che ho e virtù che mi mancano. In ogni ritratto si ripetono degli elementi, la posizione frontale o di profilo, quasi militaresca, denti aguzzi e mani minacciose: c’è poco da star tranquilli!

Le tecniche che usi sembrano rispecchiare una sorta di messaggio che traspare dalle opere. La matita, i colori a pastello, i post-it, danno una sensazione di effimero e fugace. Che relazione c’è effettivamente tra opera e tecnica di realizzazione?
Mi piace dire che per me è il mezzo che giustifica il fine, la tecnica è il veicolo principale del messaggio, la visione e la lettura del lavoro ne è condizionata. Alcune mie installazioni, come “non disperdere nell’ambiente dopo l’uso”, sono realizzate con stoffa imbottita: sono partita dal presupposto che ognuno di noi ha posseduto nella vita un peluche, un pupazzetto, per cui il vedere un lavoro che ricordasse questo poteva ben disporre lo spettatore…in pratica metto in scena uno spettacolo usando però specchietti per allodole: costruisco, come una strega cattiva, belle casettine di marzapane. Uso lo stratagemma inverso di alcuni insetti che con il loro colore dissuadono l’eventuale predatore dal mangiarli.
A volte, come per “tutti i mali che vengono per nuocermi”, la tecnica e il materiale sono quasi traducibili letteralmente: sono 365 disegni , come i giorni dell’anno; sono disegni su postit: pezzetti di carta destinati ad un uso veloce e provvisorio ma io li ho usati per disegnare con la costanza di un miniaturista…il risultato voleva essere quello di un diario in apparenza veloce, disinvolto, ma, nella sostanza, tragicomico…

Il tuo ultimo lavoro “se son rose…” sembra una trasposizione di “specchio delle mie brame” e sottende allo stesso principio del work in progress: il lavoro infatti non è definito in un numero preciso di opere. Entrambi sembrano una sorta di autobiografia provvisoria che si arricchisce in ogni opera. Da cosa nasce questa necessità?
Una cosa che spero emerga dai miei lavori è che non esiste una linea netta che separa in bene dal male, il bello dal brutto…insomma, da sempre mi sono concentrata sull’impossibilità di giudicare, di dare sentenze definitive; da quando lavoro sulla mia vita, metto in atto un sistema di introspezione, di analisi intima ma, in uguale misura, mi descrivo come unità indistinta, variabile, ambigua, multipla, così come credo sia la condizione umana…. “se son rose…” è un lavoro dove utilizzo il linguaggio dei fiori per esprimere le mie intenzioni; come in “specchio delle mie brame”, dove mi addossavo tutti i difetti e desideravo le migliori virtù, nel mio ultimo lavoro dichiaro varie situazioni, spesso anche contrastanti e sempre comunque ambigue…pur rischiando di cadere nella psicanalisi spicciola, mi sembra di lavorare sull’insostenibile pesantezza dell’essere….

17 maggio 2003

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Josephine Sassu è nata a Emstetten (DE) nel 1970.
Vive e lavora in Sardegna.