Prefazione di Francesco Casula

Nessuna sintesi può dare anche solo una pallida idea dei personaggi e delle vicende che popolano la Silloge poetica “Lugore de luna” di Maddalena Frau; tanto meno può esprimere il flusso ininterrotto di parole e canti, di affezioni, di sentimenti e di situazioni dell’ animo, di impeti, fremiti e di gorgogliamenti di passioni che in essa vibrano.
Non disponendo inoltre della leggerezza, della rapidità, dell’ esattezza, della visibilità e della molteplicità, cioè delle qualità e dei valori della letteratura e del critico letterario che Calvino in “Lezioni Americane” assegna al millennio appena iniziato, rinuncerò a un’ analisi complessiva del discorso poetico di Frau e mi limiterò ad esprimere emozioni e sensazioni, convinto come sono che la poesia dovrebbe essere letta, gustata e goduta piuttosto che commentata, chiosata e valutata.
Accennerò solo rapidamente alla dimensione stilistica, metrica e strofica, ritmica, musicale e tonale, per soffermarmi invece da una parte sulla lingua sarda utilizzata, dall’ altra sul versante tematico, che risulta vario e plurale.
Il primo versante è quello de sos ammentos: dello smagato e tenero ricordo dell’ infanzia, un mondo di figure vive e fraterne e duncas de sa bidda nadìa, Ollolai, che così viene entusiasticamente celebrata: “Sa bidda assetiada in sa montanna/diffitzile a iscalare che cuccanna” famosa per: “aghera frisca, sana, montannina/cun Funtana de abba cristallina”. Con Ollolai ricorda e celebra i propri avi antichi: “Fiant sos jajos meos corazosos/che abiles sordados valorosos/E nen Cartazinesos nen Romanos/che los ant vintos in tempos lontanos/Fit una bidda timia e potente/ca fit de Iolau dipendente/Barbara tzittadina ospitale/a s’ antigu fit issa capitale”.
S’ ammentu permane anche se l’ autrice da decenni vive lontano: anzi forse proprio per questo: “non m’ ismentigo de sa bidda mia/mancari in terra anzena eo sia…/cando mi che so depia allontanare/apo nadu: za torro a t’ agatare!/Mancari parentes pagos nd’ aìa/che dassavo una parte ‘e vida mia”.
La rivendicazione orgogliosa delle proprie raighinas, del proprio limbazu, la vuole partecipare anche ai figli, perché anche loro non dimentichino mai origini, passato e identità linguistica: “Cando sos fizos meos andant a lettu/los allego cun cuddu dialettu/cun su limbazu meu barbaru e duru/ca imparare lu cherent issos puru”.

Nel ricordo dell’ infanzia, arcana e felice, le parole si disnodano e si animano in immagini tenere, si traducono in fremiti affettuosi, si disciolgono in ritmi e suoni. E con essi Maddalena Frau canta e vagheggia: in modo commosso e accorato ma mai svenevole.
Canta e ricorda teneramente il padre: “Bellu che istiarvu de istatura/Liveru de proerzu ereditau/irvelliu e abistu de natura/babbu meu da tottus rispettau”; la madre: “Nobant’ annos che tenet tzia Rita/ma sos sensos los tenet tottu sanos” e sos contos di lei: “Zai nde l’ ischit de contos mamma mia/chistidos in su tempus seculare/e non sunt de brulla o de fantasia/ma veros, pretziosos che dinare”; la nonna: “Jaja mia, jaja Columbu/arganzande su trippone/connoschiat bene su mundu/E teniat puru resone”.
Canta e ricorda con nostalgia struggente e tenera la propria nascita, ormai distanziata e depurata nella memoria e perciò tanto più limpida: Una die so naschia/in custa Sardinna mia/Custu mamma mi l’ at nadu/e no l’ apo ismentigadu/Fit su trinta de Aprile/a sas chimb’ ‘e s’ impuddìle/Naschia a lugor’ ‘e luna/Pitzinnedda bella bruna!/Naschia a lugh’ ‘e istella/pitzinnedda bruna e bella” e con essa gli scherzi: “ Sa botza preparà pro su tziòmo/lia ghetto a s’ ischina a su tzieddu” e i giochi dell’ infanzia, con filastrocche divertenti e deliziose come: “Comaredda comaredda/a benies a zogare/a soddos e perdigheddas/a sa fune e a botzare/A zogare a mistieris/a Maria Pesabòla/a ladros, carabineris/e a mastras de iscola”, tanto da creare un’ atmosfera arcana, librandosi verso un tono di più completa e placata trasfigurazione, che comunica un’ impressione di letizia, come se fossimo ritornati a un’ età amabile e felice, solcata da lampi di magia e di armonia, che creano nel lettore stati d’ incanto: “In cudd’ iverru, in cudd’ arregore/supra sas cammineras ghiatzadas/supra su nive cantas istrumpadas/de alligria e de bonumore!”; “Sos thirrios in artu, s’ alligria/in aghera bolavant che puzone/Sos annos bellos de sa vida mia/In cue tenent su primu muntone”. Canta e ricorda affettuosamente in “Sas umbras ismentigadas”, una delle più belle liriche di tutta la Silloge, le donne di Ollolai che iscrariant pro fagher corves, coinzòlos e canisteddas. Ecco come riesce a schizzarle, con brevi ritratti, con rapidi bozzetti, quasi in punta di penna:

“Palas a sole umbrande/in terra a coda lada/tzias iscrariànde/sutta sa contonada/…Tiravant sa currìa/a mossos e a ungreddas/sa vida consumìa/umbrande in sas mureddas/Prenavant sos cherrìgos/corves e coinzòlos/de brullas, de antigos/contos amorazòlos/…Cussas manos nodosas/tottu pinnicronàdas/nde torravant grabosas/bellas innadigadas/Nde faghiant trumentu/cussas manos nieddas!/Ite divertimentu/pro sas criatureddas!”
Alle liriche del ricordo, dell’ identità e degli affetti seguono sos cantos de bonumore e de alligria, da cantare appunto, particolarmente divertenti e ironici – e spesso sotto metafora – in cui balenano frequenti gli echi della vasta produzione della tradizione orale ma anche scritta, della letteratura infantile in lingua sarda, fatta di ninne-nanna, duru-duru, fiabe, scioglilingua, filastrocche, indovinelli, proverbi, berbos contro la malattia e contro la malasorte.
Quindi alcuni canti aventi per tema Sos males de mundu: dal fenomeno dei sequestri: “Isorve-li derettu sa cadena!/Da cussentzia moe-ti su pesu!/Si no su mundu e Deus ti dat pena/si su pitzinnu galu dassas presu”; all’ inquinamento della civiltà -o inciviltà?- industriale, con la terra che non produce più fiori perché sono: “Abbados cun venenu” proite” non b’ at abba currente”: “Niedda, addolorada/pranghes in dogni logu/ti brusiat su fogu/s’ erba naschinde/Tottu si-ch’est morinde/profumos e colores/Ube los as sos frores/terra mea?”; dal fenomeno della droga, alla prostituzione, all’AIDS, all’ emarginazione degli anziani.
Infine la tematica e la dimensione religiosa, particolarmente sentita e vissuta dall’ autrice, la cui fede vivifica, illumina e aiuta l’ esistenza.
Ma non si respira nella religiosità della Silloge “Lugor’ ‘e luna un’ aria da sacrestia. Il Cristianesimo dell’ autrice è intimamente e totalmente lievitato dal messaggio evangelico, in contrasto con ogni forma di dottrinarismo astratto o di formalismo religioso ipocrita. Voglio dire che per Maddalena Frau lo spirito religioso si fa morale quotidiana per cui la verità cristiana non naviga nei cieli, non è una verità metastorica e disincarnata, separata dalla cultura, dai linguaggi della vita, ma accetta la baraonda e la confusione di chi vive drammaticamente i mali, il dolore e l’ angoscia dell’ esistenza. Le sue liriche religiose si risolvono perciò in preghiere, che invocano il perdono e la conversione:

“Su mundu torret a bonu/ comente nat su Sennore”; chiedono al Signore la liberazione dal male, dal dolore, dalle guerre e invitano all’ unità, all’ amore e alla concordia: “In custu mundu chene confinu/non b’ at controllu nen frontiera”; “Pro tottu nois e pro cudda zente/chi a cada momentu sunt in gherra/pro cuddos de levante e de ponente/ca semus tottu frades in sa terra”; “Ma non ti pedo ne prata ne oro/bati in su mundu paghe e armonia”.
Come si sarà capito la Silloge è scritta in lingua sarda,-la versione in italiano è una semplice traduzione- : una lingua che l’ autrice ben conosce e padroneggia, curvandola e piegandola a suo piacimento, fondendo sapientemente gli elementi che le derivano dagli studi linguistici con quelli assorbiti dalla cultura orale, appresi in famiglia ma anche dal frugare dentro le pieghe della tradizione sarda, -specie barbaricina- dei contadini ma soprattutto dei pastori, tradizione che conserva ancora pressoché intatta la memoria della nostra peculiare civiltà, che affonda le sue radici nel profondo della propria storia, atipica e dissonante ma centrale rispetto alla coeva storia europea e mediterranea.
La poesia in limba di Maddalena Frau manifesta cioè radici lontane, i cui punti di partenza potrebbero essere cercati proprio nella narrativa orale isolana, ovvero in sos Contos che sicuramente ha sentito ripetere e raccontare in famiglia, nel vicinato, nel proprio villaggio.
Si tratta di una limba ricca e concisa, incisiva e sobria e insieme robusta e pregnante, espressiva e altamente significante ma soprattutto musicale.
L’ autrice denota infatti una naturale attitudine al canto -soprattutto popolare- e al verso che sembra carezzare e coccolare e che nelle liriche più belle tesse abilmente tanto che il suo lavoro si risolve spesso nella cadenza della strofa, nel terso nitore della parola, nel giro musicale della frase, nella misura metrica di ritmi sapientemente scanditi e guidati da un orecchio musicale che riesce a ordire fini ricami di immagini con acuta selezione di lessemi, aggettivi e fonemi. Crea così nelle liriche più suggestive, quando la poesia si flette più agevolmente, sinfonismi e fonie, onomatopee e cromatismi, ritmi e assonanze, attraverso una tessitura metrica lineare e abilmente alleggerita con invenzione di movimenti e scatti musicali che consentono all’ autrice di giocare a suo piacimento con la materia che tratta e canta,

costruendovi pregevoli architetture linguistiche e musicali: ma non solo di sottile gioco verbale e poetico si tratta. Non solo cioè di incontro e scontro di suoni e di ritmi, o di esplorazione, ricerca e sperimentazione di un progetto di lingua sarda: che pure sono abbondantemente e sapientemente presenti.
Tottus sas cantones e sos cantigos della Silloge poetica di Maddalena Frau -e dunque anche quelle in cui prevale il lampeggiare di un riso pungente e divertito, il gusto giocoso dell’ ironia e del motteggio o la battuta scherzosa e persino salace- sono attraversate da una acuta sensibilità intellettuale, sociale e morale; da una visione del mondo in chiave gnomica e sentenziosa; da un forte messaggio di solidarietà, di fraternità e di concordia; da una passione accorata e sincera per il diritto delle genti e il riscatto dei diseredati. Ma non solo: Lugore de luna ci rappresenta anche -per non dire soprattutto- un mosaico e labirinto di segni, un bastimento carico di squarci di passato e di presente, un incunabolo dell’ identità etno-nazionale dei Sardi. Da questo punto di vista offre un prezioso contributo, culturale, etico, etnico e testimoniale per la valorizzazione e il recupero del senso di appartenenza ovvero “di quell’ umore esistenziale del proprio essere sardo, come individui e come gruppo che, in ogni momento, nella felicità e nel dolore delle epoche vissute, ha reso i Sardi costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l’ attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente, dalle catene imposte dal dominio esterno” (Giovanni Lilliu).
Per cui le liriche di Maddalena Frau devono certo essere gustate e godute per la loro bellezza estetica, musicale e tonale, ma anche perché rappresentano un documento antropologico, etnologico e persino storico e linguistico di una Sardegna che deve continuare ad attingere ai potenti valori- della solidarietà e del comunitarismo in primo luogo- che costituiscono il lascito più prezioso del suo passato; di una Sardegna che deve difendere e valorizzare la propria Identità, senza che questa debba tradursi in forme di chiusura autocastrante o di separazione. La nostra Identità e specificità dobbiamo infatti accettarla e riconoscerla come la condizione base del nostro situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, senza cedere alla tentazione “di usare la nostra differenza come ideologia e di caricarla a seconda delle fasi -come osserva acutamente il filosofo sardo Placido Cerchi- ora di significati autodepressivi ora di arroganze etnocentriche”.

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