Memorie dai sotterranei della Nevskij Prospekt

Era giunto il tempo della predilezione degli uomini per le gallerie. Costruite come riparo dalla “Calamità che verrà” erano vere e proprie città sotto le nostre. Ogni tanto, appoggiando le orecchie come ventose sull’asfalto, si riusciva quasi a sentirli (ma forse era solo suggestione) gli abitanti di sotto che confabulavano tra di loro, sembrava chiaro a tutti che si stessero divertendo un mondo, anche se nessuno di noi avrebbe mai potuto scommettere se quei rumori scaturissero tutt’al più dallo scorrere delle acque sotterranee, da mormorii di tribune politiche o di conferenze su Dostoevskij. Qualche volta c’era chi di noi voleva convertirsi al buio sotterraneo: bussava ad una delle botole che davano sui condotti principali ed una voce secca e roca rispondeva: “Non potete entrare in Galleria, avete scelto il vostro destino ed ora non vi rimane altro che la vostra Superficie”.

   Pochissimi erano coloro che decidevano di compiere il percorso inverso: sicuramente ciò era sempre possibile, nessuno in Galleria aveva interesse ad opporsi. Ma quando costoro tornavano in Superficie erano davvero restii a raccontare ciò che accadeva nel mondo sotterraneo. Qualcuno si limitava a dire che era un luogo come un altro, governato da regole, usi, costumi affatto differenti da quelli degli altri mondi. ‘Quali altri mondi?’ mi sarebbe venuto da chiedere loro. Dicevano che i popoli della Galleria si stavano organizzando  per creare nuovi sotterranei; presto presero a scavare sottogallerie e non facevano altro che tendere sempre più giù. Questa situazione mi fu confermata anche da un anziano e distinto signore che si vantava di aver creato grandi ricchezze laggiù: “Ma qui sopra  i soldi che ho acquisito sotto non valgono niente , non vi è alcun rapporto di cambio tra le due monete” lamentava. Ciò accadeva anche tra la Galleria e la prima sottogalleria e tra questa e quella ancora più giù. Nei mesi successivi seppi che gli abitanti delle gallerie riuscirono perlomeno ad unificare le proprie diverse monete.

   Col tempo ,se qualcuno riusciva a salire ,gli abitanti della Galleria cominciavano ad accettare l’idea che questi poteva essere sostituito da chi era desideroso di scendere. Ma nessuno sapeva secondo quali norme tutto ciò fosse regolamentato, se ci fosse un modo per prevalere sugli altri. Di certo non vi erano né concorsi né esami ma solo registri periodicamente e puntigliosamente aggiornati. E ciò in modo da mantenere un inalterabile equilibrio.

   Mi sono chiesto spesso, a quei tempi, quale fosse il fascino della Galleria. Probabilmente avrebbero dovuto esserci delle cose meravigliose tali da poter sostituire i cieli , i mari o le cime dei monti. Una cosa era certa: coloro che salivano a malapena riuscivano a riprendere le abitudini della Superficie. Molti si chiudevano nelle proprie case e quasi non uscivano più fuori. Impauriti dalla “Calamità che verrà” si procuravano enormi scorte di cibo ed un cannocchiale: i cannocchiali ed i binocoli andavano davvero a ruba.

  

   Nelle notti estive, estenuato dal caldo, mi rigeneravo sulla mia terrazza al piano attico. Era la mia croce e la mia delizia ed io avevo imparato a conoscerla da tutte le angolazioni possibili. Spesso, tornando dalle mie passeggiate,  alzavo gli occhi , ma amavo salire lentamente con lo sguardo dai primi piani verso il cielo. E fino al nono era tutto il solito susseguirsi di balconi perfettamente identici di un palazzo nel centro della città; erano quasi tutti studi di liberi professionisti che non si curano di abbellire le proprie facciate di piante rampicanti, non c’è ragione se non si tratta della propria abitazione; magari qualcuno di maggiore sensibilità disponeva qualche piantina  giusto fuori la sala d’attesa , ne ero certo, ma da laggiù i vasi, celati dai parapetti, non potevo vederli. Alzando lentamente gli occhi mi rincuoravo che prima o poi l’immagine a cui le mie pupille si stavano abituando era destinata a mutare. La terrazza dell’attico dominava sull’intero palazzo ed è diversa da tutti gli altri balconi. E il mio occhio poteva spaziare tra i varchi della ringhiera nera di ferro. Già, la ringhiera. Quando mi trovavo sulla terrazza mi spaventava; il timore che appoggiandomi , lasciandomi andare, sarebbe potuta crollare nel vuoto ed io con essa (difficile che potesse accadere, effettivamente) mi tratteneva alla giusta distanza. E così, non potendo ammirare la strada, mi rigiravo intorno. Nelle giornate d’inverno , anche quelle più assolate, il vento mi impediva prolungate soste in terrazza, la polvere negli occhi bagnava di lacrime , sfocandolo, il panorama. Ed io, in questo modo, pensavo che in quelle giornate dovesse esserci una sorta di tifone ghiacciato , mi intabarravo ben bene pronto a scendere quei dieci piani e mi ritrovavo nella città tra le leggere folate di un fresco venticello invernale. Allo stesso modo il sole d’Agosto arroventava il ruvido pavimento della terrazza e le mura esterne. Sembrava che fosse l’inferno ,ma più sotto le persone sembravano respirare serenamente nell’afa estiva. Quel vento, quel caldo incessante, distruggevano ogni forma di vita vegetale con cui osavo adornare la terrazza. Sopravvivevano soltanto delle stranissime ed irregolari piante grasse. Tutta intorno, la ringhiera non era che una debole protezione.

  

   Una notte non riuscivo proprio a prendere sonno. Oltre il fuoco ardente della mia camera da letto dovetti sorbirmi l’incessante lamento dell’antifurto d’una abitazione attigua. Era partito da solo, non appena nella zona venne a mancare la luce, probabilmente per l’alta tensione suscitata dal gran numero di climatizzatori accesi. I padroni di casa evidentemente erano fuori, forse in villeggiatura, forse in Galleria, così non avemmo, tutti quelli dell’isolato, niente altro da fare che sopportare finché l’antifurto non si fosse scaricato per conto proprio. E pazientemente finimmo con l’accettare un rumore sempre meno chiaro, quasi fosse catarroso, finché non rimase che un lento vagito infernale , quasi irreale. Le nostre orecchie non poterono, così, neppure abituarsi, dato che ogni minuto che passava si presentava all’attenzione dei nostri timpani un ininterrotto ma cangiante ululato. Quindi, così’ come era iniziato, morì nel nulla. Descrivo la vicenda al plurale perché sulle prime io stesso non mi ero accorto che nessun altro oltre me si era curato di quella rogna d’una notte di mezza estate: infatti fu solo allora, non appena dominò il silenzio ed ormai fuggito a tempo indeterminato il mio sonno leggero che, improvvisamente, mi accorsi di una scena curiosa. Una donna ,molto giovane e piacente, si cambiava continuamente la biancheria intima davanti ad uno specchio che dava esattamente sulla finestra. Mi venne come un’illuminazione; subito diedi uno sguardo al balcone di fronte e mi accorsi che un signore di mezza età osservava attentamente la ragazza col suo cannocchiale. Per la cronaca, era intento a fare quella cosa che, da bambini, ci dicono che faccia divenire ciechi. Di fronte a questi, poco sotto, una donna lo spiava col suo binocolo, occupata a fare la stessa cosa. Occhi vitrei si scrutavano l’uno con l’altro, approfittando di piccole fessure, riflessi di specchi e quant’altro. Ai  piani alti  vi era chi dava avvio allo spettacolo, quindi si creava una catena di lussuria. “Neanche fosse tutto organizzato” sussurrai a me stesso ed andai a letto incurante nel disperato tentativo di forzare il ritorno del sonno latitante.

   Un giorno bussarono alla mia porta. Erano due signori, vestiti con abiti scuri e portavano gli occhiali da sole.

   “Lei è stato scelto come primo della Catena” .

   Il mio sguardo allibito li fece sentire oltremodo obbligati a concedermi ulteriori informazioni.

   “Lei deve semplicemente appoggiare uno specchio di fronte alla finestra. Non deve fare altro che spogliarsi. E’ chiaro che se deve fare sesso…è meglio che porti il letto davanti allo specchio…Qualsiasi cosa, insomma, che sia necessaria a dare l’avvio alla Catena”.

   Mi dissero che c’erano parecchi soldi e molteplici interessi in ballo nell’affare. Sarei divenuto ricco insomma, facendo più o meno le cose di tutti i giorni. Solo, senza più alcun senso del pudore. Trascorsi il resto della giornata a meditare sul da farsi: dovevo davvero prestarmi a far parte della Catena? Mi chiedevo se il mio assenso a quella operazione fosse davvero necessario, del resto fino ad allora, e credo si trattasse già di qualche mese, avevano fatto a meno di me, e vista la perfetta organizzazione di cui io stesso ero stato testimone involontario la sera precedente, non credevo che la prestazione di un goffo spogliarellista senza alcuna esperienza potesse giovare alla causa. La ragazza che abitava all’attico che si ergeva sul palazzo di fronte al mio, dall’altra parte della strada, era una modella di biancheria intima, sapeva come muoversi e spogliarsi. Ma , più probabilmente, ciò che interessava ai guardoni era un semplice stimolo alla fantasia, a nessuno interessava che si trattasse di consumati professionisti. Ma era davvero così difficile creare nella propria mente una personalissima immagine che provocasse la pur minima eccitazione? Esistono milioni di uomini più piacenti di me nel cui letto le donne del vicinato potevano immaginarsi e questo valeva di certo anche per i miei vicini di sesso maschile. Per non dire che c’erano comunque i partner ed i consorti che non avrebbero certamente esitato ,nella maggior parte dei casi, a dar vita a prestazioni reali e non virtuali. Forse avevano bisogno di qualcosa di nuovo, forse si erano accomodati sui terrazzini del retro a dar vita ad altre catene.

   Quando giunse il buio volli affacciarmi per controllare la situazione. Notai una ragazza che aveva già disposto il suo binocolo verso di me, mi segnalava di non perdere tempo  poiché la Catena era già stata approntata. Solo allora compresi la necessità della mia partecipazione, solo io mancavo all’appello, il tassello più importante , colui che poteva rendere tutto possibile o meno. Non ero sicuro di voler cominciare , rimasi bloccato per qualche attimo , anche troppo per le esigenze della Catena. Come se provenisse dal nulla, improvvisamente cominciò ad ondeggiarmi sopra la testa un elicottero. Mi apparve insolito il fatto che non fossi riuscito ad udire già qualche minuto prima il caratteristico rumore di quel velivolo che si appressava sopra la mia terrazza, oggi mi chiedo se sia esistito davvero quell’elicottero o non sia stata una mia suggestione. Il passeggero accanto al pilota mise un megafono alla bocca e iniziò a dire qualcosa che giunse fin troppo confusamente alle mie orecchie. Notando che io rimanevo bloccato avvicinò un aggeggio al suo orecchio, qualcosa mi dice che si trattasse di una ricetrasmittente. Fu allora, dopo qualche secondo, che suonarono alla porta. Erano i due sicari vestiti di nero che volevano intimarmi con le buone o con le cattive di cominciare? Niente affatto: era un uomo. Disse di chiamarsi Supplente, nessun nome ,nessun cognome ma solo Supplente. Entrò, senza permesso alcuno, e sicuro di sé  prese a spogliarsi come avrei dovuto fare io. Così la Catena fu avviata. Per quanto mi riguardava  presi la sana e consapevole decisione di cambiare casa , ma capii che sarebbe stato inutile andare ad abitare ai piani più bassi, mi ero fermato a pensare come ogni elemento della Catena fosse necessario. Se qualcuno era restio a partecipare, gli altri di sotto rimanevano bloccati. Pensai che, comunque, al primo piano sarei stato finalmente escluso da tutto ciò. Più per pudore e vergogna che per altro.

   Cercai così di adattarmi a quell’angusto balconcino sul quale si fiondavano un vento invernale sicuramente più blando ed un caldo sopportabile. Gli interni dell’appartamento erano inevitabilmente più bui, un paio di decine di metri verso il livello del mare erano stati più che sufficienti a celare una buona fetta di raggi solari. Le mura di casa erano molto più spesse rispetto a quelle dell’attico di più recente costruzione, in tal modo il freddo e l’afa venivano maggiormente temperati. Sulla sdraio, alla sera, potevo solo alzare gli occhi al cielo , ogni volta che mi voltavo la fuga del mio sguardo si scontrava contro il parapetto. Almeno c’erano le mie piantine a farmi compagnia, qualche geranio ma niente di più, c’erano anche la macabre ombre nascoste di alcuni pesci rossi a cui il padrone di casa precedente, una volta morti, aveva dato sepoltura in quei vasi. Ma il mio appartamento al piano terra  mi rendeva più ardua del previsto la dolce visione del cielo e delle stelle. Lassù sembrava quasi di poterle accarezzare quelle stelle ,che se ci si fosse alzati in piedi su una sedia si sarebbero potute afferrare e portar via. Laggiù erano lontane come forse lo erano davvero. A questo punto mi sembrava davvero inutile rimanere in quella parte di mondo. Ancora poche decine di metri più giù e quegli sprazzi insufficienti di sole, pochi ed apparentemente inutili tanto da farmi pensare che fosse meglio non goderne alcuno, si sarebbero definitivamente celati ai miei occhi. Ma ciò non poteva spaventarmi ed inorridirmi più del pensiero che durante il sonno notturno gli echi del battere delle pale degli elicotteri assumevano nel mio inconscio le fattezze di insetti orribili e surreali che divoravano i miei sogni : locuste verdissime, scarabei rinoceronte, tenebrioni mugnaio, cimici arlecchino, reduvi, notonette, bombardieri, criocere dell'asparago, cerambicidi, afidi, acari, blatte germaniche e rosse, scutigere e scolopendre. Mi presi di coraggio e mi iscrissi nella lista d’attesa per la Galleria. Dovetti aspettare pochi giorni. Nessun messaggero dal mondo sotterraneo si mostrò ai miei occhi, ‘non li vedi mai quelli’ mi dissero qualche tempo prima; trovai soltanto una lettera sotto l’uscio di casa con un laconico annuncio riguardo la mia accettazione e il giorno in cui mi sarei dovuto presentare fornito dei miei essenziali (da come mi era stato raccomandato) bagagli alla botola più vicina. La sentinella si scostò lasciandomi giusto lo spazio che necessitavo per scendere la scala arrugginita ed io, diversamente da tutti gli altri che immediatamente si guardavano intorno, bloccai il mio sguardo verso la botola che lentamente, spinta da una forza illusoriamente misteriosa solo perché nascosta allo sguardo era la mano che la muoveva, si stava chiudendo sopra di me eclissando la luce. Improvvisamente un boato risuonò nella Galleria e trionfò la penombra. Ero sicuro che non sarei più tornato in Superficie, essa mi aveva  oltremodo deluso. Ma pensavo, anche, che se l’avessi voluto avrei potuto di nuovo ammirare il bagliore del giorno, un bagliore che segue e precede un buio senza elicotteri , insetti e guardoni.

 

   I primi giorni quaggiù furono parecchio tristi: non incontrai nessuno che avevo avuto modo di conoscere, la gente non sembrava molto disponibile al dialogo ed il luogo mi dava decisamente il voltastomaco, l’alternanza tra il giorno e la notte era stata subdolamente malcelata da una incessante luce fioca di neon elettroluminescente.

   Le gallerie dovete immaginarle come quelle case antiche fornite di altissimi soffitti e lunghi corridoi con le stanze ai lati. Quaggiù le stanze sono i negozi e le case della gente. Immaginate il percorso della metropolitana: si alternano corridoi più stretti, che di solito ospitano le abitazioni popolari ed in genere sono situati nelle periferie delle grandi città sotterranee, e più larghe piattaforme dove la gente è solita passeggiare, incontrarsi per scambiare quattro chiacchiere. Diverse da quelle della Superficie sono certe mansioni tipiche delle gallerie: qui, ad esempio, ci sono gli ‘scaricatori di pioggia’, cioè  veri e propri operai che si dispongono su delle impalcature appositamente create e ad ogni ordine del Governo centrale gettano acqua attraverso giganteschi colabrodo, disposti poco sotto il soffitto ,ma ad esso perfettamente paralleli. Altrettanto caratteristiche sono le stanze fornite di soffitto a raggi ultravioletti, più o meno forti a seconda della stagione, dove la gente solitamente si reca ad abbronzarsi. E saltuariamente, agganciate alle funi che attraversano queste stanze, vengono giostrate delle  finte nuvole fatte di materiale opaco al fine di creare necessarie zone d’ombra. Quaggiù il clima è stabilito a tavolino quotidianamente a seconda degli umori della maggioranza dei componenti del Governo.

   Camminavo in lungo e in largo cercando di trovare un luogo da far mio. Finalmente, un giorno, incrociai un vecchio amico.

   -Anche tu qui?- mi domandò sorpreso.

   -E’ l’unico modo…

   -L’unico modo per far cosa?

   -…Per sognare…penso…

   -Sognare? Cosa vuoi sognare?

   -Neanche qui ci sono più sogni? Ma allora  a cosa serve tutto ciò?

   -Non mi dire che non hai notato la Catena…

   -Sì…lassù…è a causa sua che sono fuggito…

   -Ma non capisci che la Catena è infinita? Non si può fuggire dalla Catena, sarebbe come scappare da se stessi! Tutto questo è stato creato per la Catena! Solo che quaggiù siamo più discreti. Ci sono botole ovunque…e da queste guardiamo i piani terra delle case di Superficie coi nostri binocoli e quindi  si scende al solito modo. Lassù c’è un’organizzazione precisa ed anche quaggiù. Chi non vuole partecipare se ne può anche andare via, ma non vi è alcun accordo tra noi e la Superficie. Se uno del piano terra di sopra non vuole partecipare, noi non possiamo obbligarlo. Ma…sai…ti confido un segreto : nessuno qui è più disposto a subire angherie da quelli della Superficie che non vogliono partecipare. O noi o loro, non abbiamo scelta…

   Lo salutai ed andai via. Da quella discussione capii immediatamente che anche la Galleria non era fatta per me. Era chiaro che, se la situazione era quella prospettata dal mio amico, neanche i sotterranei  possedevano qualcosa di peculiare che mi potesse in qualche modo attrarre. Almeno lassù c’era la luce, quella vera del sole, non i fatui neon artificiali. E c’era il cielo, persino quello confuso e timido dei piani bassi era migliore degli insignificanti soffitti della Galleria. Giravo in lungo ed in largo alla ricerca dell’ufficio che si occupava del disbrigo delle pratiche di coloro che desiderano fare ritorno in Superficie. Mi dissero che mi avrebbero rilasciato un lasciapassare, anche se mi prepararono alla rinomata lentezza burocratica del mondo sotterraneo. Urgevano dei controlli accurati sulla psicologia di coloro che presentavano la propria richiesta, occorreva inoltre il benestare del Governo centrale, dato che quaggiù avevano ritenuto inutile e dispendioso un susseguirsi, dall’alto verso il basso, di amministrazioni pubbliche a carattere territoriale. Invano cercai l’ufficio che mi interessava. Tutti mi davano sempre indirizzi differenti, c’era qualcuno che sosteneva che fosse stato soppresso. Questi ultimi non potevano che fare spallucce quando io chiedevo quale fosse il modo alternativo di ottenere il lasciapassare. Magari mi dicevano di rivolgermi altrove, ad un altro ufficio che mi desse le informazioni che necessitavo. Mi fecero rimbalzare per mesi come una pallina da ping-pong. Ogniqualvolta riuscivo a trovare questi famigerati uffici , gli addetti mi prospettavano un destino parecchio arduo: domande in carta bollata o preferibilmente autenticate da ufficiali giudiziari che attestassero la mia capacità di intendere e di volere (con tanto, ovviamente, di perizia psicologica), incartamenti da inviare al Governo centrale che spesso cambiava sede e nome. In caso positivo, mi avrebbero mandato il lasciapassare per posta, ma neanch’io avevo una dimora fissa, pochissimi ce l’avevano per quel che ne sapevo. Preferii rinunciare e tentare di adattarmi come facevano tutti gli altri.       

  

   Ogni tanto mi giungevano notizie sui rapporti tra la Superficie e la Sacra Alleanza delle Gallerie. Tutti sostenevano che l’Alleanza era più forte , che sempre più gente fuggiva da sopra per venire giù , che era stato abolito ogni limite, c’era bisogno di nuova gente , nuovi cecchini sempre più infallibili per minacciare o addirittura giustiziare gli abitanti di sopra.

   Nel frattempo, tra l’Indifferenza generale, avevo approntato una luna di cartapesta luminescente. Avevo, inoltre ,appeso al soffitto delle palle natalizie, anch’esse di cartapesta, che quasi mi ricordavano i pianeti. Utilizzando il nastro delle videocassette feci una stella ebrea parallela al soffitto affinché creasse un suggestivo gioco d’ombre. Ai miei conterranei apparentemente poteva sembrare che io non fossi un artista ma uno che si divertiva a costruire paesaggi celesti immaginari improvvisando. In effetti ero come quei bambini che si avvicinano con innocenza ad i loro nuovi giochi, ne scoprono lentamente i segreti commettendo errori su errori fino a conoscerne perfettamente ogni minimo aspetto e finiscono per annoiarsene e porli lontani dalla propria vista pronti a chiederne degli altri. Mi sedevo davanti questo dolce spettacolo e davo adito alla mia immaginazione mossa dalle fosforescenze di quei materiali illuminati dai neon. I miei sogni notturni venivano come ‘fotosintetizzati’ da quelle luci, sì filtrate, ma talmente più sincere e calde di gas nobili, incolori e inodori, tanto da divenire albe che rendono incandescenti i nembi mattutini lasciandomi l’illusione della presenza divina e della nostra eternità. Ogni tanto quello splendore era disturbato dai ricordi del sole di sopra, della luna come tutti l’avevamo fin da sempre conosciuta, dalle stelle che si susseguono nell’arco celeste implodendo ed esplodendo. Mi annoiavo, abbandonavo quel luogo e riproponevo altrove i miei finti astri approfittando di nuovi ed affascinanti rivoli di luce che nella semioscurità bagnavano i ruscelli d’acqua bonificata. Quindi , ancora nomade, ancora solitario, mi spostavo altrove. A volte qualcuno ,che sembrava appoggiare la mia causa, sedeva accanto a me in silenzio. Una volta, uno di questi prese a parlare con me. Mi raccontò che le cose stavano andando sempre peggio. Si diceva che tutti, ormai , volevano un mondo unico. E se fosse stata l’Alleanza a prevalere? Diceva che sarebbero rimasti tutti quaggiù comunque, che la vittoria non comportava la riconquista della Superficie. C’era sempre la “Calamità che verrà”, non si poteva essere mai troppo sicuri lassù. Secondo questo signore quelli della Superficie avevano già perso. Era la paura a renderli più deboli ogni giorno che passava. Mi confidò:

   -Sono sempre di meno , o li uccidiamo tutti o si convertono, non vi è scelta…Cos’hanno più di noi del resto. Grazie a lei , abbiamo anche il cielo e le stelle.

   -E’ la stessa cosa secondo lei?

   Annuì, non vedeva differenza alcuna. Mi sentii un mostro, avevo contribuito, involontariamente, alla causa dell’Alleanza. Lassù si diceva che fossi il “Signore della Galleria”. Ero già stato condannato a morte in contumacia da quelli della Superficie: ero stato accusato di aver donato all’Alleanza il cielo e le stelle. Una cosa era certa: non potevo tornare sopra, sarei stato ucciso. Ma non potevo neppure rimanere tranquillo quaggiù: c’era chi aveva cominciato ad odiarmi ,mi credevano un profeta , un messia o chissà cos’altro. Cominciai a nascondermi. Ora , meno che mai, potevo fuggire dalla Galleria le cui botole erano controllate perennemente da artiglieri armati fino ai denti. Ed in ogni caso, per andare dove? Incontro ad una condanna per tradimento? Quaggiù, nel buio, è più facile scomparire nel nulla senza lasciar traccia di sé. E’ più facile persino mascherarsi, cambiare identità e non essere riconosciuti. Intanto il mio lungo peregrinare mi aveva condotto sotto le botole di San Pietroburgo. Era curioso il fatto che tale cognizione mi giungeva proprio dalla Galleria stessa: avevano approntato ,infatti, indicazioni ad immagine e somiglianza di quelle della Superficie invece che dar vita a città e strade con nomi originali. Per quello che ne sapevo era l’unico vero legame tra quaggiù e lassù una volta che erano cessati i rapporti della Catena. Sopra di me, al di là di quel limite che su chiamate asfalto e qui soffitto vi erano le notti bianche, la Città Eroica dei novecento giorni di assedio nazista. Quaggiù di quello splendore rimanevano soltanto le composizioni in ferro battuto che adornano i cancelli , i caminetti , le scale , i cornicioni ed i lampadari. Nessuna traccia delle cento e uno isole su cui si erge la vecchia Leningrado, nessuna dei caffè bar della Nevskij Prospekt, nessuna delle prospettive che improvvisamente mostrano ,illuminando a giorno il bulbo oculare, le chiese ed i palazzi neoclassici e barocchi.

  

   Come accade spesso nascevano delle leggende popolari, giungevano notizie da ogni dove , ma come fossero venute alla luce (o al buio nel caso specifico), quale fosse la fonte originaria di quelle informazioni non era dato saperlo. Alcuni dicevano che la “Calamità che verrà” era finalmente giunta, aveva spazzato via la Superficie, nessuno sapeva con precisione come e quando. Alcuni parlavano di maremoti, altri di piogge acide senza fine, altri ancora , addirittura, scomodavano mostri mitologici, marziani e meteoriti. Le ipotesi più curiose facevano capo agli attenti lettori del climatologo Lamb: forse , dicevano, i continui e bruschi movimenti delle mani intente a masturbare avevano innescato il celebre meccanismo a catena dei piccoli vortici che ripiegando su se stessi conducono al verificarsi di violenti tempeste fino alla totale glaciazione della Superficie.

   Ma l’incertezza e l’imprecisione delle testimonianze , unita alla insistente considerazione di una “Calamità che verrà” e non già “che è venuta”, mi fecero comprendere come non fossero altro che le tipiche voci di corridoio cui nessuno in fondo badava, ma su cui tutti spettegolavano per darsi importanza e mostrarsi informati. Era una sorta di gioco del telefono senza fili. In quel periodo fu nominato (da chi e secondo quale formula non saprei dire e non sono il solo, visto che nessuno di noi cittadini era stato chiamato alle urne) il nuovo Capo di Stato maggiore, quale fosse il suo nome non mi risultò molto chiaro: Siròla, Siròga, Saràgo, Siringo, Serghelli; le opinioni erano contrastanti; un giorno ,uno che si vantava di essere molto informato dei fatti dello Stato maggiore (il nuovo nome del Governo centrale) scoppiò a riderci in faccia: “sergente Parola!” e si faceva beffa di noi. Mi veniva da chiedergli come poteva mai essere possibile che un sottufficiale d’esercito avesse potuto acquisire una così importante nomina , ma preferii tacere. Fu così che fummo travolti dalle notizie dei fasti del fantomatico sergente Parola, Paròga, Parelli o come diavolo si chiamasse (non si placava, imperterrito, il telefono senza fili). Ogni volta le informazioni giungevano sempre più incomprensibili e confuse, probabilmente ciò era dovuto al fatto che non appena partiva un messaggio, due o tre ore dopo era già vecchio e doveva essere modificato, così ne facevano circolare uno nuovo e così via, fin quando dieci o venti voci di corridoio si accavallano e giungevano alle nostre orecchie come un unico e paradossale sunto. I pettegoli , inoltre, sembravano dare parecchie cose per scontato, non si fermavano a spiegare il perché ed il come di certe loro affermazioni, le declamavano solennemente come fossero uscite da un roveto ardente e fossero inconfutabili. Continuamente veniva modificato il nome del Governo centrale: c’era chi l’aveva chiamato Stato maggiore, Assemblea di Stato, Commissione degli affari di Stato , a volte anche Stato e basta, persino tutte le definizioni insieme.  

   Intanto la mancanza di sole cominciava ad ucciderci lentamente. Non potevamo neanche aprire le botole per cambiare l’aria. La Superficie, che evidentemente non era stata annientata da nessuna ‘Calamita che è venuta’, iniziò a riprendere forza e fiducia nei suoi mezzi (secondo i rivoluzionari). E costruire un sole di cartapesta non sarebbe servito stavolta (secondo me). Lassù, del resto, troppi sembravano i danni di una lunga battaglia (secondo i reazionari).

   Venni a sapere, ma poteva benissimo essere una burla, che l’Alleanza e la Superficie sarebbero giunte ad un accordo. Infatti, se gli Alleati avessero potuto comunicare con la Superficie avrebbero avanzato la proposta di incaricare due Sacerdoti, uno per parte, a sorteggiare col testa o croce quale sarebbe stato l’Unico Mondo Possibile. Tre su cinque, con eventuale ripetizione di lanci caratterizzati da monetine che si infilano, condotte da un obliquo destino, in fessure di mobili o pavimenti. Pensavo sorridendo che forse si sarebbero di nuovo dichiarati guerra per il disaccordo riguardo a quale moneta usare , se l’unica in corso quaggiù o una delle migliaia di lassù. E ancor di più sorridevo nel pensare che al di là di fantasie popolari, telefoni senza filo ,verità scolpite chissà su quali tavole venute fuori da immaginifici rovi ardenti, c’è sempre il Mio Mondo, questo è certo. Magari lo possono cambiare, ma niente e nessuno può sopprimere il Mio Mondo. Ebbene sì, morirò quaggiù, soffocato dai miei ultimi sogni che vivono della luce non più di quel sole che si staglia sui vostri cieli e di cui ormai la mia memoria è sfuocata, ma perlomeno delle reminiscenze del mio finto sole, delle mie fittizie stelle e della mia evanescente luna , già anch’esse così vicine e così lontane. Devo nascondermi adesso e non posso più dare adito alla mia immaginazione se non con ciò che nasce e viene costruito dalla mia mente. Io non sono disposto ad alcun sorteggio.

Luca