Un diario dell’anima
di Rosario Portale (*)



Scriveva il grande poeta austriaco Hugo Von Hoffmannsthal: “La nostra gente cerca volentieri dietro una poesia ciò che essa chiama il “vero senso”, come le scimmie, che così cacciano le mani dietro uno specchio, quasi là ci fosse un corpo da afferrare”.
Ebbene, nelle poesie di Geppina Macaluso il vero senso è tutto là, nella sua fresca nudità lirica, nella sua fresca naïveté lessicale, nel suo delicato raccontarsi, ora nitidissimo, ora allusivo. Se le poesie contenute nella prima raccolta Stiddi a primavera e in Comu acqua di surgiva, sua felicissima prosecuzione, sembrano a prima vista staccate, diverse, monadi, scaglie, frammenti, non inganni, però, la loro apparente diversità. A mio avviso, infatti, le composizioni poetiche di Geppina Macaluso non vanno viste come una pura e semplice raccolta di attimi ispirativi calati e cesellati in verso, ma piuttosto come un breve, continuo, intenso “diario dell’anima” a sua volta specchio e riflesso di un pensoso itinerario esistenziale, in cui presente e passato, realtà e fantasia, momento ed eternità si scambiano, si fondono, si lasciano e si riprendono in un incessante turbinio di suoni, di luci, di colori, di sensazioni, di sospiri, di fruscii lievi e delicati, di desideri ardenti ma rattenuti e, non ultimi, di sconvolgimenti interiori talora semanticamente bruciati nella fiamma di una metafora.
In questi suoi poetici diari dell’anima, Geppina Macaluso ripropone temi argomenti e topoi che si rifanno alla grande tradizione classica ed europea, come, per es., la vita e la morte, il mistero della natura, il mutar delle stagioni, il fuggire inarrestabile del tempo, le urgenze del vivere, la fragilità dell’anima, il grido, il sorriso, la provvisorietà della vita e, sopra tutto e tutti, l’amore, quel sentimento sconvolgente ma così umano che solleva uomini e donne sulle vette più inebrianti della gioia o li getta negli abissi più profondi della disperazione; l’amore con i suoi turbamenti, fremiti, tremori, dubbi, certezze, speranze e paure... Nell’ordito che regge il variegato tessuto delle due raccolte poetiche, per esprimere, dar corpo, sostanziare sulla pagina i sottili, mutevoli legami fra memoria, immaginazione e realtà, Geppina Macaluso non ricorre né a immagini artificiose o astratte, né a complicati meccanismi linguistici né, tanto meno, ad abusati strumenti ermetici ma a versi essenziali, netti, chiari, pausati da assensi sapienziali, densi nell’incastro dei sintagmi, incantati nella delicatezza di certe immagini. E’ proprio con quei versi riesce a disvelare gli anfratti della mente e del cuore, riesce a trasmettere il soffio dell’universo e le scansioni dell’esistere, si sofferma sulla soglia del mistero e del nulla, ridisegna attimi di vita, accadimenti lievi o determinati, momenti assoluti o emblematici della sua, della nostra quotidianità.
Credo, infine, che Stiddi a primavera e Comu acqua di surgiva possano anche leggersi in filigrana o su un doppio registro: c’è la Geppina Macaluso di certe pause meditative e di certi struggimenti di donna che ascolta le proprie intermittences du coeur, e c’è la Geppina Macaluso “storica” della propria coscienza di donna e di donna siciliana, insomma; di un essere vibrante di sensazioni dolcissime e delicate filtrate attraverso la lente d’ingrandimento del proprio io, distese in un’aura di quasi religiosa e classica compostezza, espresse in una lingua dialettale che è intrisa degli stessi colori intensi, abbacinanti, magmatici, tipici delle nostre albe e dei nostri tramonti.
Geppina Macaluso, durante una conversazione telefonica nella quale mi felicitavo anche per questa sua seconda raccolta poetica e la invitavo a proseguire, candidamente mi esponeva queste considerazioni: “...io l’inspirazione non la cerco, non l’ho mai cercata... E’ lei che è venuta da me, così... Per esempio, quando scrissi la poesia Stiddi a primavera, avevo qualcosa dentro di me... qualcosa che covava, che covava... che covava...”. Ebbene, io che purtroppo poeta non sono, ma che ho sempre amato, che mi sono nutrito e mi nutro di poesia, a Geppina Macaluso e a tutti coloro i quali leggeranno le sue poesie, voglio sottoporre queste considerazioni del grande poeta romantico inglese Percy Bysshe Shelley tratte da quel saggio - straordinario ma misconosciuto - che emblematicamente porta come titolo A Defence of Poetry (Difesa della Poesia): “La poesia, diversamente dal raziocinio, non è un potere che possa esercitarsi d’accordo con la volontà. Un uomo non può dire: “io voglio comporre poesia”. Non può dirlo nemmeno il più grande poeta, perché la mente, quando crea è come una brace che sta per spegnersi e che una qualche invisibile forza, simile ad un vento incostante, ridesta ad un momentaneo bagliore. Questo potere nasce dal di dentro, come il colore di un fiore che cangia e trascolora nel suo divenire, e noi non siamo in grado di prevedere consciamente quando quella forza divina si avvicini o si allontani da noi... La Poesia è testimonianza degli istanti più belli e più felici delle menti più felici e più belle. Noi percepiamo consapevolmente visitazioni evanescenti di pensiero e di sentimento, talora associate a luoghi o a persone, talaltra solo alla nostra stessa mente, le quali sorgono sempre imprevedibilmente e spontaneamente si dileguano, nobili e deliziose oltre ogni dire sicché, anche nel desiderio e nel rimpianto che lasciano, altro non può esserci che il piacere, in quanto esso partecipa della natura e del suo oggetto. Avviene quasi la compenetrazione di una natura più divina nella nostra, ma i suoi passi sono come quelli del vento sul mare che la calma del mattino cancella e di cui rimangono solo tracce sulla sabbia ondulata... Tali e simili condizioni d’essere sono soprattutto provate da coloro i quali possiedono una delicatissima sensibilità e la più vasta immaginazione, per cui lo stato d’animo che ne deriva è nemico di ogni basso desiderio. L’entusiasmo per la virtù, per l’amore, per il patriottismo e per l’amicizia è intimamente legato a queste emozioni e, mentre queste durano, l’io si rivela per quel che è: un atomo di fronte all’universo. I poeti non sono soggetti soltanto a queste esperienze in quanto spiriti più finemente dotati, ma sanno colorire tutto ciò che compongono con le luminose evanescenze di questo mondo etereo... La poesia traduce tutte le cose in amore, esalta la bellezza di ciò che è più bello e aggiunge bellezza a ciò che manca di grazia; sposa l’esultanza e l’orrore, il dolore e il piacere, l’eternità e il mutamento: tutte le inconciliabili cose unisce sotto il suo giogo leggero...” E queste considerazioni del grande Shelley, credo possano servire come nostra “risposta” alle considerazioni e alle felici “visitazioni” della nostra Geppina.

(*) Cattedra di Letteratura Inglese all'Università di Catania





La forma degli affetti
di Filippo Salvatore Oliveri (*)



Non è facile oggi, con la crisi della parola, trovare delle belle poesie in grado di regalare al lettore attimi di serenità e di riflessione sulle cose del mondo. Parlo della poesia di Geppina Macaluso, donna sensibile e colta; la sua poesia, infatti, è espressività armoniosa che unisce ciò che apparentemente sembra diviso, discontinuo, disordine incompreso. La parola si riappropria a piccoli passi, dei linguaggi quotidiani, manipolati dagli uomini, dai rituali, per riprendere i concetti, affinché i destini umani particolari diventino un tutt'uno con l'universale, che tentiamo fugacemente di raggiungere.
E' una poesia essenzialmente sociale, ricca di allegrezze che suscitano dubbi, impressioni, sicurezze, paradigmi soggettivi, vissuti, trame - le trame profonde del dolore, gli enigmi della malattia e della morte.
La poetessa vive assieme al padre l'esperienza della morte e la rende un evento credibile a noi stessi e al mondo, mettendo in crisi il mito dell'eternità. Il dolore - Chiantu di figlia, Nun ridi cchiù 'stu cori, Fa quasi 'n annu… - è sì un vissuto soggettivo ma si offre come un evento totale, che fuoriesce - come direbbe Umberto Galimberti - “dai confini del corpo e pervade l'intera vita modificando la forma degli affetti, la considerazione di sé”. Il male, invece, è un dato localizzabile nei confini del corpo e non riesce a frantumare l'anima, lo spirito.
La poesia che tenta con molta semplicità di cogliere gli aspetti essenziali del dramma esistenziale dell'uomo e il tempo nel suo scorrere perpetuo non collassa le due componenti passato-presente, anzi, rafforza le loro sequenze: una poesia che ci invita all'esperienza, a capire il fondamento anche dei riflessi, soprattutto, quelli insoliti, inaspettati.
Il dialetto, qui, dà capacità espressiva alla lingua comune, rende tutto ciò che non può esistere in un "codificato" linguistico, e afferma così delle posizioni umane intrinseche, degli intrecci-segni-simboli che non vogliono rimanere in disparte, sulla soglia. Non per nulla questa sua seconda raccolta di liriche porta il titolo: Comu acqua di surgiva (di sorgente, in effetti, non avrebbe senso); surgiva come acqua che sta ancora più sotto, nelle viscere della terra; surgiva, che è esigenza - e Sergio Cristaldi ha ragione - “di mettersi in cammino verso il reale, di penetrare nel suo cuore”. Ecco, allora: …'Na nuvola ca balla ammenzu l'aria leggia…; …'Stu celu ca talìu cu occhi novi, 'stu ventu ca passannu canta amuri, 'sta luna 'nte na parma addurmintata…; … 'Na lingua 'i focu scinni da muntagna, nto scuru di 'na notti china 'i stiddi, pari si rapi u celu e nesci sangu, d'amuri di odiu di lamentu… E come possiamo mai pensare di fare analisi grammaticale o andare alla ricerca nostalgica di forme estetiche di fronte a simili versi che spingono a ripensare il ruolo della parola?
Il compito dei poeti è quello di sistemare le sregolatezze della lingua; perciò concordo col poeta Davide Rondoni che funzione della poesia “è quella di custodire il mondo”. La poesia non è mai né in ritardo né in anticipo; a essa piacciono le cose serie, non certamente i pettegolezzi (spesso, così Pier Paolo Pasolini rispondeva a critici, giornalisti e commercianti di fumo).
Custodire il mondo, significa, per Macaluso, “prendere a cuore qualcosa che c'è”, e penso che questo sia uno dei più grandi messaggi che può dare la poesia contemporanea. Nella provvisorietà della vita, la poesia diventa il principio di riflessione del mistero che avvolge la vita stessa. Sta proprio qui, la responsabilità del poeta: caricarsi del mistero, spiegare in parole semplici i problemi che ci avvolgono e affliggono.
Poesia, quella di Geppina Macaluso, che traduce gli aspetti lieti e tristi della vita con le sue contraddizioni: la vicenda, quindi, del poeta e della parola; poesia che nel suo continuo divenire non perde la speranza di riprendere i nomi che appartengono alla storia, alla civiltà.


(*) Etnoantropologo