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Aprile 2002

The Time Machine

Titolo originale: The Time Machine

Regia: Gore Verbinski, Simon Wells

Sceneggiatura: John Logan, David Duncan

Interpreti: Guy Pearce,  Yancey Arias,  Jeremy Irons,  Phyllida Law

Durata: 96' - USA 2001

Montaggio: Wayne Wahrman

Distribuzione: Warner Bros

Mi trovo in grande imbarazzo a dovere parlare del film “The Time Machine”, sia perché è tratto da un romanzo che ho adorato da bambino, sia perché il tema dei viaggi nel tempo mi ha sempre incuriosito. I paradossi ai quali è possibile giungere, vivendo nuovamente nel passato: l’ipotesi che ogni più piccola azione possa interferire con la nostra esistenza futura (se fossi salito sull’autobus, anziché prendere un taxi, avrei conosciuto lo stesso la donna della mia vita, o avrei trascorso miseramente il tempo che mi separa dalla morte?): l’affascinante possibilità di controllare questi cambiamenti, di indirizzare a mio piacimento un determinato evento, lasciando intatto tutto il resto. Sogni da bambino o possibile realtà?

Alexander Hartdegen (Guy Pearce)è uno scienziato un po’ distratto. La sua sete di conoscenza è seconda soltanto al forte amore che prova per la sua fidanzata, Emma. Ma quando ormai si è deciso a chiederla in moglie, il destino (nelle vesti di un rapinatore che la uccide) gliela porta via. Per anni Alex lavora ad un suo progetto: la possibilità di tornare indietro nel tempo e di cambiare il futuro. Crea così una macchina capace di spezzare le barriere del continuum e di dargli una seconda possibilità. Ma la morte non può essere ingannata (Final Destination?), e Alex deciderà di vivere al di fuori del tempo, proiettandosi 800.000 anni nel futuro, in una terra selvaggia, dove due razze coesistono: gli Eloi, uomini rassegnati, e i Morloch, creature mostruose che usano gli Eloi come nutrimento.

Il film, così come il romanzo, si presta a due letture differenti: può essere una semplice storia di fantascienza, risibile nella sua semplicità, un adattamento pedissequo del romanzo, arricchito da effetti speciali e da alcuni bravi attori che lo rendono un prodotto commerciale, simile a tanti altri: oppure può diventare un modo per criticare la società dell’epoca (e, perché no? Un po’ anche la nostra), un mondo dove pochi hanno il coraggio di ribellarsi e dove il potere del singolo è preferibile alla presa di responsabilità della comunità. Insieme è possibile raggiungere risultati grandiosi, insieme si può sopravvivere e cambiare regole non giuste, e sempre insieme, si vinca o si perda, l’importante è combattere. Gli Eloi, arrendevoli e stanchi, privi del desiderio di reagire, perché il mondo è sempre stato così e loro non vedono perché cambiarlo, sono la personificazione dei mediocri, di quelli che tirano a campare e che si accontentano di ciò che la stirpe più forte è disposta a concedergli.

I Morloch, i forti, i bestiali, quelli che impongono il loro dominio con la violenza, sembrano i dominatori, ma anch’essi non sono altro che pedine di un essere (Jeremy Irons) più complesso, più intelligente, la mente dietro le loro azioni, che persegue i suoi fini e che decide chi deve vivere e chi morire. Alla fine è questo l’ultimo messaggio che il regista, Simon Welles (già regista de “Il principe d’Egitto” e pronipote del grande H. G. Welles, il creatore del romanzo originale), cerca di darci, in un finale confuso ed estremamente raffazzonato (anche se il fatto è da imputarsi al cambio di regia, a causa di una forte depressione da parte dello stesso Simon Welles): il senso della propria vita sta nel vivere nel tempo al quale si è destinati e nel quale si ritrova se stessi, la propria forza interiore e il proprio io. La scienza non potrà mai spiegarlo, ma a volte ciò che ad alcuni può sembrare una scelta sbagliata, dettata da sentimentalismi insulsi e sorpassati, è in verità l’unica cosa da fare. Almeno al cinema, dove la fantasia domina assoluta, e dove la parola “Fine” segna la definitiva conclusione di ogni storia. 

Gianandrea Parisi