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Scheda di osservazioni tecniche sul Testo unificato del disegno di legge recante “Modifiche al codice di procedura civile” (versione varata in sede legislativa dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati nella seduta del 16 luglio 2003).

 

L’ANM ha organizzato un convegno nei giorni 12 e 13 dicembre p.v. a Midas Hotel di Roma al quale sono invitati tutti i soci.

I particolari per la partecipazione sono reperibili nella home page dell’associazione.

 

 

1.  Premessa

 

L'Associazione Nazionale Magistrati ha seguito con attenzione l'evoluzione delle proposte di riforma destinate ad incidere sull'amministrazione della giustizia civile; ed affiancando, su un piano diverso, l'opera del Consiglio Superiore della Magistratura che pure, in base alla legge, esprime pareri al Ministro della Giustizia con riguardo ai temi in questione, si propone di offrire al legislatore, agli esperti e al pubblico dibattito - insieme alle considerazioni di natura politico-istituzionale già espresse in un documento generale sui problemi della giustizia civile - un contributo “tecnico” di conoscenza e di idee fondato sull'esperienza dei giudici civili, dei gruppi associativi, degli Osservatori e delle stesse attività di formazione del CSM, relativamente al Testo unificato di "Modifiche al codice di procedura civile" risultante dall'unificazione dei disegni di legge 538, 672, 1508, 2092, 2229, e 2302/C, così come approvato dalla Commissione Giustizia della Camera in sede legislativa nella seduta del 16 luglio 2003 ed ora all’esame della Commissione Giustizia  del Senato con il n. 2430.

 

 

2.   Le modifiche del procedimento innanzi al giudice di pace

 

Con riguardo al procedimento innanzi al giudice di pace, l’art. 1 innalza a cinquemila euro la competenza del giudice di pace per le cause relative a beni mobili ed a venticinquemila euro quella per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti, mentre l’art. 24 colma opportunamente la lacuna contenuta nell'art. 319 c.p.c. in ordine alla mancanza di un termine per la costituzione in giudizio, laddove la facoltà di costituirsi in udienza aveva dato origine a serie problematiche interpretative ed organizzative. 

Le modifiche della disciplina sulla competenza si muovono nel solco della concezione tradizionale che – guardando al giudice di pace come a una riedizione in forma ridotta del giudice professionale – ha continuato in questi anni ad operare secondo operazioni di taglio redistributivo, agendo soprattutto sulla leva della competenza per valore. Ma in questa stessa ottica, sarebbe stato più opportuno da un lato istituire un tetto massimo unico, senza distinzioni tra controversie “comuni” e controversie relative al risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, dall’altro far cadere – entro i limiti della competenza per valore del giudice di pace - la riserva di competenza del tribunale per le cause relative ai (diritti reali sui) beni immobili. Continuare ad operare con il criterio della competenza per valore significa in realtà che il giudice di pace è chiamato a pronunciarsi nelle materie più diverse (contratti bancari, assicurativi, tutela del consumatore, norme comunitarie varie), a condizione che il valore resti al di sotto di una certa soglia. L’attribuzione di nuove competenze civili al giudice di pace dovrebbe essere attuata, invece, facendo leva soprattutto sulla competenza per materia (con riguardo, ad esempio, alle impugnative in materia condominiale; di danni nei rapporti tra condomini e di quelli alle cose cagionati da sinistri stradali, senza limiti di valore; di appalti relativi alla ristrutturazione di appartamenti). L’attribuzione di settori specifici di contenzioso, connotati da minori difficoltà di gestione processuale e di decisione delle controversie, non può che favorire maggiore possibilità di specializzazione, conoscenza più approfondita dei fenomeni sociali sottostanti ai conflitti, più agevole possibilità di adattamento e di conformazione del rito oltre che capacità di svolgere in modo più informato e consapevole le funzioni conciliative demandate al giudice anche nel corso del processo. Essa, inoltre, è la condizione per potere proficuamente elaborare non solo moduli semplificati del rito processuale, ma anche per ridisegnare un nuovo ambito di applicazione del giudizio di equità, viceversa del tutto sacrificato  dall'art. 113, secondo comma c.p.c., come modificato dall'art. 1 del decreto legge 8 febbraio 2003, n. 18 convertito, con modificazioni, nella legge 7 aprile 2003, n. 63.

In quest'ottica, le soluzioni apportate dall'art. 1 del Testo unificato sono da qualificarsi necessariamente transitorie, in attesa di una migliore e più organica sistemazione della materia.

 

 

3.  Le modifiche al regime delle spese processuali

 

Dopo la soppressione di un originario articolo 5, che prevedeva - con un  intervento di dubbia costituzionalità - una modificazione all'art. 91 c.p.c. tesa a vincolare il giudice, nella liquidazione delle spese processuali, alla nota spese vistata dal Consiglio dell'ordine, la disciplina delle spese processuali contenuta negli artt. 92 e 96 c.p.c. viene condivisibilmente modificata per il tramite degli artt. 3 e 4 del Testo unificato.  Con  l’art. 3 si introduce l’obbligo di indicare in sentenza  i giusti motivi in base ai quali il giudice abbia ritenuto di compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti, così innovando al principio giurisprudenziale secondo cui la compensazione totale o parziale delle spese del giudizio costituisce una facoltà discrezionale del giudice del merito, sottratta all’obbligo di specifica motivazione e suscettibile di sindacato in sede di legittimità solo quando il giudice, a giustificazione della compensazione, abbia enunciato motivi illogici od erronei. Si tratta di una modifica più che opportuna, alla luce del troppo frequente, e a volte sbrigativo e disinvolto ricorso alla compensazione delle spese processuali. La pur giusta preoccupazione di sottrarre la compensazione delle spese a scelte arbitrarie – e di ridurre per la parte soccombente la speranza di sottrarsi agli oneri patrimoniali di una tutela giudiziaria che si è inopportunamente invocata o alla quale si è inopportunamente resistito -   potrebbe tuttavia essere assicurata con una diversa formulazione della norma la quale facesse salvo il principio giurisprudenziale secondo cui la compensazione disposta dal giudice non è censurabile quando la motivazione della sentenza e le vicende processuali facciano comunque emergere ragioni idonee a giustificarla.

Sull’art. 4 del Testo unificato, vedi infra, par. 5.

 

 

4.  Le modifiche dirette a una maggiore semplificazione  degli adempimenti processuali

Con gli artt.  5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13  e 23 si mira a realizzare una maggiore semplificazione delle forme, ad agevolare gli adempimenti degli uffici  giudiziari e dei difensori o a tutelare in modo più puntuale i diritti di difesa.  In particolare:

* viene prevista la  proroga per il compimento degli atti processuali svolti fuori udienza che ricadano nella giornata del sabato, e stabilito che le notificazioni non possono farsi nel periodo vigente l'ora solare prima delle ore 7 e dopo le ore 20. Nulla, invece - con una evidente lacuna -  viene  detto quanto ai tempi di notifica vigente l’ora legale;

* all’attore, in base alla modifica dell’art. 165 c.p.c., è consentito di costituirsi mediante deposito della sola copia fotostatica dell'atto di citazione. Disponendo, inoltre, che il termine di dieci giorni per la costituzione dell'attore decorra dall'ultima delle notifiche ad una pluralità di convenuti, l’art. 11 viene incontro alle difficoltà incontrate nella pratica, laddove l'originale della citazione non viene restituito al notificante prima del compimento di tutte le notificazioni;

* si prevede che l’intimazione al testimone possa avvenire anche attraverso l’invio di copia dell’atto mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

 

 

4.1.  In particolare, le modifiche in tema di notificazioni e di comunicazioni

 

L’art. 145 c.p.c. viene modificato allo scopo di avvicinare le modalità della notifica ad associazioni, enti e persone giuridiche a quelle previste per le persone fisiche. La nuova versione dell’art. 145 c.p.c pone fine ai dubbi giurisprudenziali circa la legittimazione alla ricezione degli atti da parte del portiere dello stabile ove ha sede la società nonché circa l’applicabilità dell’art. 140 c.p.c. alle persone giuridiche. La formulazione della norma appare tuttavia equivoca, giacché sembrerebbe che l’indicazione della  persona fisica cui spetta la rappresentanza dell’ente possa avvenire anche nella relata di notifica. La norma potrebbe essere riformulata, con maggior chiarezza, nei seguenti termini:la notificazione può anche essere eseguita, a norma degli artt. 138, 139 e 141, alla persona fisica che rappresenta l’ente, ove nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità” (primo comma); “se la notificazione non può essere eseguita a norma dei commi precedenti, la notificazione alla persona fisica che rappresenta l’ente, purché indicata nell’atto, può essere eseguita anche a norma dell’art. 140” (terzo comma);

* gli artt. 285 c.p.c. e 170 c.p.c. vengono modificati con estensione agli atti di impugnazione ed alle sentenze della regola che consente la notifica mediante consegna di una sola copia dell’atto anche quando il procuratore sia costituito per più parti. E’ dubbio, tuttavia,  che l’estensione ex lege agli atti di impugnazione del principio di sufficienza della consegna di unica copia, nel caso di procuratore costituito per più parti, possa valere a superare il pregiudiziale problema di ammissibilità generato dalla comprensione dell’identità della parte contro cui l’impugnazione sia diretta;

* viene previsto che le comunicazioni delle ordinanze e delle sentenze ex artt.  133, 134 e 176 c.p.c. possano essere effettuate anche a mezzo telefax. Si tratta di un apprezzabile ammodernamento del regime formale delle comunicazioni (e vedi anche, su un analogo piano di ammodernamento la previsione dell’art. 28 relativa alla possibilità che in caso di espropriazione immobiliare l’avviso possa essere inserito su appositi siti INTERNET), anche se gli articoli che introducono tale ammodernamento non impongono l'indicazione dei relativi recapiti negli atti di parte e non disciplinano le modalità di documentazione dell'avvenuto invio, che restano quelle ordinarie. Le norme avrebbero potuto essere meglio formulate realizzando tra l’altro un maggiore allineamento alla disciplina del processo telematico, e prevedendo che la comunicazione possa avvenire anche per posta elettronica, nonché prevedendo il supporto cartaceo da conservare agli atti per documentare gli invii;

* con l’art. 9 viene introdotto il principio – peraltro anticipato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale – relativo alla scissione degli effetti per il notificante ed il destinatario nelle notifiche a mezzo posta, principio che – riguardando, sempre secondo la giurisprudenza costituzionale, tutte le ipotesi in cui il procedimento non sia sotto il controllo né della parte né dell'ufficiale giudiziario - deve applicarsi anche alle notifiche all'estero, per cui sarebbe auspicabile l’inserimento nell’art. 142 c.p.c. di una specifica indicazione in  questo senso;

* costituisce frutto di adeguamento alla pronuncia della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale la notifica a mezzo di "compiuta giacenza" anche la modifica dell’art. 8 della legge 20 novembre 1982, n. 890. Nel prevedere una giacenza effettiva di sei mesi, l’innovazione introdotta dall’art. 71 del disegno di legge rappresenta un indubbio progresso rispetto all'attuazione data alla sentenza della Corte costituzionale dalle Poste Italiane, sulla base di una (irrituale) intesa con il Ministero della Giustizia, che limita a 90 gg. la giacenza; ma non può dirsi che siano pienamente soddisfatte le esigenze postulate dai parametri costituzionali di riferimento, ivi incluso quello di parità di trattamento, dal momento che  - nell'analoga ipotesi di irreperibilità a fronte di notifica da parte dell'ufficiale giudiziario - l'atto notificato sarà reperibile "sine die" presso la casa comunale ai sensi e per gli effetti dell'art. 143 c.p.c. Può dunque auspicarsi una disciplina più precisa che consenta senza limiti la rintracciabilità del plico, anche attraverso la previsione (ove sia necessaria la restituzione del plico e l'Ente Poste non sia effettivamente in grado di garantire la custodia "sine die", neppure presso servizi accentrati) di indicazioni sulla busta, da riportare nell'avviso con raccomandata A.R., nei limiti della "privacy".

 

 

5.  Le modifiche dirette a conseguire effetti acceleratori e/o deflattivi. In particolare: la disciplina della responsabilità aggravata e l’introduzione di forme di “astreintes”

 

Altre disposizioni del disegno di legge mirano a conseguire effetti acceleratori e/o deflattivi, anche colpendo la dilazione ingiustificata e l’abuso del processo. Vanno in questa direzione:

* l’inserimento (art. 18 del Testo unificato) dell’art. 195 – bis c.p.c. relativo al termine perentorio per il deposito delle osservazioni dei consulenti di parte, con scadenza anticipata rispetto alla data fissata per il deposito della relazione, in modo da impedire la prassi, normalmente costosa per la durata della lite, di chiamare a chiarimenti il consulente tecnico d’ufficio. Il raggiungimento della finalità della norma (di mantenere entro il sub-procedimento il dibattito tecnico, acquisendo da subito il riscontro del c.t.u., al fine di evitarne chiamate a chiarimenti) postula naturalmente che il c.t.u. ostenda anticipatamente ai consulenti tecnici di parte la propria relazione, che poi potrà integrare od emendare riscontrando le osservazioni dei tecnici di parte. L’intento acceleratorio, inoltre, potrebbe essere più adeguatamente realizzato imponendo non solo un controllo del c.t.u. sulle osservazioni dei consulenti tecnici di parte, ma anche stretti termini perentori per controsservazioni di questi sull’elaborato peritale; altrimenti, non vi saranno argomenti tecnici per evitare nel prosieguo della causa controdeduzioni e rilievi tecnici alle conclusioni del c.t.u.;

* l’incisiva innovazione dell’art. 96 c.p.c. (art. 4 del Testo unificato) che rende la previsione della responsabilità da illecito processuale norma di carattere ancor più generale. In particolare il nuovo testo, estendendo la responsabilità aggravata al caso della proposizione di un’impugnazione manifestamente inammissibile o infondata, fa ritenere che si sia intrapresa la strada di una valutazione della soccombenza effettuata per gradi, e quindi non soltanto in base all’esito globale della lite. La soluzione porrebbe rimedio, mediante scrupolosa attuazione del principio di causalità, alle frequenti ipotesi in cui il creditore, conseguito in primo grado un parziale e magari ridottissimo accoglimento della domanda da lui proposta, formuli gravame del tutto pretestuosamente, ove l’impugnazione sia poi puntualmente rigettata. Alla possibilità, già prevista, che il giudice proceda alla liquidazione d’ufficio del danno, si aggiunge così  quella di una pronuncia (anche) d’ufficio della istituita sanzione pecuniaria commisurata all’entità delle spese di lite, ed a prescindere dalla concreta dimostrazione del danno patrimoniale subito.

Resta invece immutata la problematica della prova della "mala fede o colpa grave", che una giurisprudenza spesso troppo rigorosa era restia a fondare su un percorso presuntivo. Potrebbe allora opportunamente inserirsi nel testo la specificazione che l'elemento soggettivo possa essere desunto dal contegno processuale ex art. 116, secondo comma c.p.c. ovvero, in alternativa, utilizzando il concetto di "normale prudenza" contenuto altrove nella medesima disposizione.

Con riguardo alla previsione che, in caso di contumacia, la somma a titolo di indennità sia devoluta all'Agenzia delle entrate, potrebbe più opportunamente prevedersi che le somme in questione vengano ad afferire direttamente, senza l'intermediazione dell'Agenzia delle entrate, al bilancio della Giustizia, depauperato attraverso la proposizione di liti temerarie per importi di gran lunga superiori al "contributo unificato", che copre solo minima parte della quota oneri riferibile a ciascuna lite.

Occorrerebbe poi prevedere un’analoga disciplina anche nel caso di condanna della parte non contumace nonché considerarsi che, se fosse il contumace a risultare vittorioso, le spese di lite non vengono liquidate dal giudice, il quale dichiarerà soltanto l'irripetibilità degli oneri sostenuti dall'altra parte. In questa ipotesi, non essendo altrimenti possibile il calcolo del triplo, dovrebbe  specificarsi che esso va commisurato sulle spese processuali che, in assenza di contumacia, sarebbero state riconosciute, parametrate a quelle sostenute dall'altra parte.

E’ apprezzabile, infine, l’espressa menzione dei danni non patrimoniali tra quelli risarcibili se derivanti direttamente dalla condotta dell’avversario, di talché la previsione viene ad inserirsi tra gli altri casi “determinati dalle legge” cui fa riferimento l’art.  2059 c.c.;

* la previsione dell’art. 14 che, ponendo il divieto di udienze di mero rinvio (un divieto, peraltro, privo di sanzioni) nega alle parti la disponibilità dei tempi del processo, in nome del precetto costituzionale di ragionevole durata. La norma, per come è formulata, sembrerebbe altresì limitare l’ammissibilità di riserve di pronuncia da parte del giudice alla sola ipotesi dell’esame di nuove istanze svolte in udienza (anche se, per la verità, l’art. 186 c.p.c. non è stato formalmente modificato), prevedendo ad un tempo termini massimi per il deposito di memorie difensive attinenti al provvedimento riservato; e forse andrebbe opportunamente chiarito che l’art. 12, laddove fa riferimento a "repliche", implica in effetti la concessione di due termini e non di uno solo. La norma potrebbe essere riformulata, ad esempio, in questo modo: ”il giudice, ove non ritenga di provvedere nel corso della medesima udienza, si riserva di decidere con separato provvedimento, assegnando termini per il deposito di memorie scritte ed eventuali repliche, non superiori a venti giorni se non si concedono repliche e non superiori a trenta giorni complessivi se sono concesse repliche";

* la modifica dell’art. 282 c.p.c. (art. 21 del Testo unificato) con la quale – al fine di rafforzare l’efficacia concreta della decisione, e di superare una grave lacuna del sistema processale, che non contiene una disciplina generale di strumenti idonei a premere sulla volontà dell’obbligato per indurlo ad uniformarsi al provvedimento giudiziale - si propone di introdurre misure di coercizione indiretta della prestazione (previsione che peraltro, in sede di Commissione Giustizia della Camera, è stata fatta cadere con riguardo alle prestazioni fungibili). Con particolare riferimento ai comportamenti lesivi dei consumatori, la situazione attuale espone l’Italia a sanzioni nei confronti della Unione Europea giacché, mentre è stata espressamente prevista, in attuazione di specifiche direttive comunitarie, la possibilità che il giudice inibisca i comportamenti lesivi dei diritti dei consumatori, non è stato introdotto alcun apposito strumento per dare concreta attuazione al provvedimento giudiziale.

Con riguardo alle previsioni del disegno di legge, sembra tuttavia opportuno  rilevare che la rimessione al giudice del potere di fissare il termine per l’adempimento e di determinare la somma conseguente all’inottemperanza è formulata in termini talmente elastici e discrezionali da incentivare per se stessi l’eventualità di impugnazioni, mentre appare del tutto ingiustificata l’esclusione della misura di coercizione indiretta in materia di lavoro e di locazione di immobili urbani. Relativamente, poi, alle prestazioni infungibili, proprio perché non eseguibili coattivamente, non si riesce a comprendere il significato della norma secondo cui “gli effetti della pronuncia dipendono dall’efficacia esecutiva della sentenza e durano finché non ne sia iniziata l’esecuzione forzata”. Pare opportuno infine ricordare che nella proposta di disegno di legge delega per la riforma del codice di procedura civile, presentata nella XIII Legislatura con il n. 7353 e riproducente lo schema del disegno di legge delega predisposto il 2 gennaio 1996 dalla Commissione Tarzia, è previsto che la fissazione di una somma per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’obbligo inadempiuto possa avvenire anche con provvedimento successivo alla sentenza ed anche da parte del giudice d’appello.

Sotto altro profilo, è stata soppressa la modifica, figurante nel testo originario del disegno di legge, in base alla quale per i crediti liquidati in forza di provvedimenti giudiziali esecutivi gli interessi si sarebbero resi dovuti in misura doppia rispetto al tasso legale. Si è probabilmente ritenuto che una simile misura, anziché produrre effetti deflattivi, potrebbe provocare conseguenze opposte. La soppressione deve peraltro essere coordinata con la normativa di cui al d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, emanato in attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento  nelle transazioni commerciali. Non può non rilevarsi, inoltre, come l’attuale disciplina in tema di interessi legali (avendo avuto una vita molto breve l’originaria previsione della novella che aveva raddoppiato il valore del saggio di interesse legale, portandolo dal 5% al 10%) sia notoriamente considerata come una delle componenti patologiche della domanda di giustizia civile e come da più parti – al fine di eliminare tale anomalia – sia  stata sollecitata una modifica normativa consistente nello stabilire che il tasso d’interesse legale al momento della sentenza si adegui ex post al tasso di mercato verificatosi nel periodo di pendenza della causa.

Più in generale, con riguardo agli interventi diretti a conseguire effetti di accelerazione e di deflazione sarebbe quanto mai utile l’introduzione di meccanismi incentivanti perseguiti - anche oltre il limite indicato dall’art. 62 del Testo unico – per tramite di esenzioni fiscali prevedendo, ad esempio, la possibilità di detrazione almeno parziale per le spese legali corrisposte sulle transazioni giudiziali.

 

 

 

5.1.  La consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite.

 

Finalità di deflazione dovrebbe avere anche la “consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite” introdotta con l’art. 62 del Testo unificato, volta a consentire - al di fuori delle condizioni previste dal primo comma dell'art. 696 c.p.c. - una vera e propria consulenza, di contenuto valutativo e non meramente descrittivo, ai fini dell'accertamento e della determinazione "dei crediti derivanti da mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito." Se le parti si conciliano, il verbale, in esenzione di imposta e giusta decreto giudiziale, ottiene efficacia di titolo esecutivo.

Si tratta di proposta direttamente ispirata al modello francese: l'art. 145 NCPC prevede che il giudice in sede di référé (o anche "inaudita altera parte", salvo contraddittorio successivo) possa concedere l'assunzione di mezzi di istruzione "in futurum", ogni qualvolta sussista un "motif légitime" che non deve essere necessariamente - come da giurisprudenza consolidata della Cassazione - un motivo d'urgenza. Attraverso il "référé préventif" si giunge, ad es., alla nomina di consulenti che assistono all'esecuzione di opere edili, risolvono con il concorso del giudice contrasti tra le parti utilizzando lo schema del "référé provision", possono relazionare nell'eventuale successivo processo ordinario. La “consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite era stata già prevista, peraltro, nell’art. 22 del disegno di legge n. 1785 presentato nella scorsa legislatura, con opportuna estensione dell’accertamento anche di diritti reali e dei conseguenti obblighi di consegna e rilascio, di fare e di non fare.

Il testo unificato del disegno di legge non si fa carico di stabilire se la consulenza in tal modo espletata, in caso di mancata conciliazione, sia idonea a fungere quale strumento probatorio nell'eventuale successivo giudizio di merito, né di chiarire – sempre in caso di mancata conciliazione - quale sia la sorte delle spese  della procedura.

Al di là di specifici settori di contenzioso (quale l'infortunistica stradale), il nuovo strumento potrebbe in realtà essere del tutto ininfluente dal punto di vista deflattivo. Con maggiore utilità nell’art. 22 del ricordato disegno di legge n. 1785 si precisava che il consulente, in caso di esito negativo del tentativo di conciliazione, desse atto delle posizioni assunte dalle parti  e della disponibilità a conciliare in riferimento al contenuto degli accertamenti svolti, e che il giudice del giudizio di merito susseguente alla consulenza tecnica preventiva,  esaminate le risultanze della relazione e le posizioni assunte dalle parti nel corso del procedimento di istruzione preventiva, nonché valutato il contenuto della sentenza che chiude il processo dinanzi a lui, potesse  pronunciare condanna del soccombente al risarcimento dei danni a norma dell’articolo 96.

 

 

 

6.  Le modifiche delle norme relative alla fase di trattazione della causa.

 

 Le modifiche agli artt. 180 - 184 c.p.c. che il Testo unificato intende apportare con gli artt. 14 e 15 si propongono da un lato di conferire maggiore duttilità alla fase di trattazione della causa, dall’altro di porre un argine a prassi burocratiche e comportamenti dilatori. La pratica applicazione del rito riformato ha evidenziato infatti come non di rado l'udienza di prima comparizione sia un momento processuale sostanzialmente inutile, e come i termini per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito ex art. 180 c.p.c. e per la precisazione e la modificazione delle domande e delle eccezioni ex art. 183 u.c. c.p.c. siano per lo più utilizzati a meri fini di dilazione, senza che le parti abbiano reale necessità di svolgere le predette attività. Di qui, in particolare – rendendosi esplicito ciò che in realtà è già possibile sulla base di un’interpretazione non meccanicistica della disciplina attuale -  la previsione che   se vi sia istanza concorde di tutte le parti costituite il giudice fin dall’udienza ex art. 180 c.p.c. procede all’immediata trattazione della causa a norma dell’art. 183 c.p.c., e quella per cui il giudice – purché, ovviamente, ne ricorrano le condizioni – possa procedere all’ammissione dei mezzi di prova sin dalla prima udienza di trattazione, con recepimento delle migliori prassi interpretative sul punto.
          Certo, sarebbe ancor più funzionale alle esigenze di concentrazione del processo, senza con ciò sacrificare il diritto delle parti al pieno dispiegamento delle proprie difese, prevedere – come è stato suggerito in dottrina – una fase preparatoria che, soppressa la distinzione tra prima udienza di comparizione e prima udienza di trattazione, si svolgesse sempre davanti al giudice ex art. 183 c.p.c. e si concludesse sempre con fissazione dei termini ex art. 184 c.p.c., anche nell’ipotesi in cui fosse stata chiesta l’appendice scritta di cui all’art. 183, ultimo comma  c.p.c. Ma la soluzione proposta dal disegno di legge ha comunque il pregio di non introdurre sconvolgimenti nell’impianto in vigore, di assicurare la dialettica tra il giudice e le parti sin dalla fase iniziale della controversia, e di preservare, con un regime temperato di preclusioni e decadenze[1], la caratteristica essenziale che il processo è (e deve essere) una funzione pubblica dello Stato anche quando sono privati gli interessi in gioco.

Tuttavia, la circostanza che la possibilità di “fusione" tra udienza di prima comparizione e prima udienza di trattazione sia subordinata all"istanza di tutte le parti costituite", potrebbe pregiudicare in concreto le finalità di speditezza, con effetti addirittura peggiorativi rispetto al sistema attuale che, pur in assenza di esplicite previsioni e senza necessità di richiesta delle parti, già consentiva tale concentrazione, salvo che nel caso di processo contumaciale. Sarebbe allora opportuno far cadere la condizione della richiesta congiunta delle parti e prevedere che il giudice, su istanza di una sola di esse, possa invitare seduta stante l'altra parte a formulare le eccezioni ex art. 180 c.p.c., procedendosi nella stessa udienza alla trattazione.

Assai importante, poi, è la modifica dell'art. 184 c.p.c. in  quanto il primo comma della nuova formulazione, assegnando al giudice un potere di valutazione sulla richiesta di concessione di termini per deduzioni istruttorie  ("..ovvero, su istanza di parte, può concedere...") e facendo cadere ogni effetto di automatismo tra richiesta delle parti e concessione dei termini, può avere un benefico effetto di responsabilizzazione, inducendo le parti a tirar fuori subito le carte e, nel contempo, responsabilizza anche il giudice nel giudizio relativo all’effettiva ricorrenza di esigenze istruttorie. Anche per questo, però, è necessario ribadire l’estrema urgenza di creare le condizioni organizzative e strutturali affinché il giudice non solo voglia, ma possa anche in concreto, con un ruolo gestibile, esercitare efficacemente  la funzione direttiva a lui demandata dall’art. 175 c.p.c.

   Occorre infine precisare che la possibilità di immediata trattazione non sembra aver comportato, sul piano sistematico, la svalutazione del  tentativo di conciliazione e dell’interrogatorio libero delle parti, e che la modifica volta a riservare al solo convenuto costituito, che ne faccia richiesta, l’assegnazione del termine perentorio per proporre le eccezioni non rilevabili d'ufficio vale a dirimere contrasti interpretativi sorti in relazione alla precedente formulazione della norma.

Riepilogando, gli artt. 14 e 15 pongono le basi di un nuovo assetto nel quale, ove sussista l’accordo delle parti, ben potrebbe realizzarsi una verifica della corretta instaurazione del contraddittorio e una definizione del “thema decidendi” e “probandi” in una sola udienza, con gli indubitabili effetti acceleratori rispetto al sistema attualmente vigente e il solo risultato negativo - ritenuto dal legislatore, non è dato sapere se consapevolmente, sacrificio congruo - di non consentire una perfetta organizzazione del ruolo ai fini della trattazione della causa e della sua possibile conciliazione. Come osservato, un ulteriore effetto acceleratorio potrebbe inoltre essere realizzato col ritorno alla disciplina originaria della novella del ’90 e l’attribuzione nuovamente di poteri discrezionali del giudice in ordine alla concessione dei termini ex art. 183 ult. comma c.p.c.  

Perplessità suscita invece la disposizione dell'art. 17 del Testo unificato che sembra imporre al giudice, in presenza dell'istanza di tutte le parti, la rimessione della causa al collegio per la decisione di questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito, con possibilità di precisazione delle conclusioni fuori udienza entro il termine assegnato dal giudice. Sottrarre infatti al giudice la valutazione circa l’idoneità delle questioni pregiudiziali o preliminari a definire la controversia può aprire un varco ad espedienti dilatori o, comunque, ad ingiustificate lungaggini del processo. La possibilità di conclusioni fuori udienza e, quindi, al di fuori della contestualità del contraddittorio, potrebbe inoltre dar adito a fondati dubbi di violazione dell'art. 111 Cost., mentre sul piano pratico, non avendo il termine di venti giorni natura perentoria, l’eventuale superamento di esso resta privo di sanzione. La norma infine appare imprecisa perché, nel subordinare la rimessione alla richiesta di tutte le parti, non distingue tra parti costituite e parti contumaci.

E’ peraltro doveroso aggiungere che, secondo altre posizioni interpretative, alla dilatazione dei tempi del processo che deriverebbe dalla modifica dell’art. 187 c.p.c. si contrapporrebbero  correlativi vantaggi sotto il profilo delle garanzie processuali e della certezza insita nella formazione di preclusioni interne al processo.

Collegata all’art. 184 c.p.c. (e perciò da esaminare in questo paragrafo) è la modifica - tramite l’art. 66 del Testo unificato - dell’art. 87 disp. att. c.p.c., con l’esclusione della legittimità delle produzioni documentali in udienza, invece che con rituale deposito in cancelleria. Si tratta di un intervento garantista, che tutela maggiormente l’interesse delle controparti alla conoscenza della documentazione prodotta aliunde; la modifica, che nemmeno pregiudica l’interesse alla celerità del procedimento, non porta alcuna conseguenza sulla rilevabilità dell’eventuale inosservanza dell’art. 87 disp. att. c.p.c., nel senso che si continuano ad applicare le regole oggi vigenti 

 

 

7.  Le modifiche della disciplina  in tema di prova testimoniale

 

Con l’art. 70 si persegue l’intento di restituire maggior rigore alla disciplina della prova testimoniale,  ripristinando il “filtro” correlato ad una soglia significativa  di valore per la prova dei contratti. In effetti la somma di lire cinquemila indicata dall'art. 2721 c. c. ha di fatto perduto ogni significato quale criterio di distinzione ai fini della prova testimoniale (e per presunzioni) del contratto, pur continuandosi a ritenere operativa la “ratio” della norma volta ad escludere, in linea di massima, la prova orale delle obbligazioni di notevole valore economico, obbligazioni che di solito vengono documentate con atto scritto e in ordine alle quali la genuinità dei testi potrebbe essere compromessa dall'entità degli interessi in gioco. Pur essendo innegabile la tendenza del diritto dei contratti verso un nuovo formalismo, là dove le forme scritte obbligatorie, sovente imposte da cornici normative comunitarie, si risolvono certamente in questioni non solo di validità dell'atto ma anche di prova del rapporto, l’innalzamento della soglia a cinquemila Euro può servire a rendere esplicito un limite altrimenti rimesso alle oscillazioni della pratica, un limite in ogni caso superabile in presenza delle condizioni indicate dal secondo comma dell’art. 2721 c.c.

È facile prevedere, come effetto della nuova disposizione, l’incentivazione della prova per testimoni relativamente ai contratti di valore non superiore ai cinquemila euro, prova cui le parti saranno indotte anche per evitare le conseguenze fiscali connesse all’uso in giudizio delle scritture contrattuali.

Nella analoga prospettiva di recupero del rigore della prova testimoniale l’art. 20 del disegno di legge introduce un adeguamento delle sanzioni previste per la mancata comparizione dei testimoni non dovuta a legittimo impedimento,   testimoni che   - in base all’art. 103 disp. att. c.p.c., come modificato dall’art. 67 del disegno di legge – dovranno essere preavvertiti delle conseguenze sanzionatorie cui possono andare incontro.

Sarebbe da auspicare che il complesso di disposizioni in parola fosse accompagnato da misure organizzative idonee a rendere effettiva la possibilità, tramite il raccordo con presidi di polizia giudiziaria di cui si invoca la costituzione a sostegno dell'attività del giudice civile (ai fini ad es. dell’assunzione immediata di informazioni nei procedimenti cautelari e possessori), di ottenere l'accompagnamento dei testi alla medesima udienza per la quale sono stati citati.

Sembra poi utile, alla fine del primo comma dell’art. 255 c.p.c. (dove è prevista la condanna dei testimoni alla rifusione delle spese cui la mancata comparizione abbia dato causa), inserire le parole “ove richieste e specificate contestualmente”.

 

 

8.  Le modifiche dei provvedimenti interinali

 

E’ del tutto condivisibile la previsione con la quale l’art. 14 del testo unificato, modificando l’art. 189-quater c.p.c., ha stabilito che l’ordinanza acquisti l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza ove la parte intimata non manifesti entro trenta giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla comunicazione, con ricorso notificato all'altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata la sentenza; ma non può non rilevarsi che effetti ben più incisivi si sarebbero ottenuti se si fosse trasformata l’ordinanza in un vero e proprio “réferé – provision”, prevedendone l’adozione anche al di fuori del giudizio di merito e, nell’ambito di questo, anche prima della chiusura dell’istruttoria, nonché facendo cadere ogni limitazione con riguardo alla tipologia di pronunce ammissibili nell’indicata forma, alla stregua di quanto oggi già previsto per la materia societaria dall’art. 19 del d.lgs. n. 5/2003.

Può dunque proporsi di sopprimere le limitazioni di applicabilità relative alle sole pronunce di "pagamento di somme ovvero ... consegna o... rilascio di beni", nonché di sopprimere l'inciso "esaurita l'istruzione" che - restringendo alla sola fase finale della lite l'adozione dell'ordinanza - rende oggi del tutto inutile l'istituto, potendo il giudice direttamente pronunciare sentenza con le forme accelerate di cui all'art. 281 sexies c.p.c.

 

 

9.  La sospensione dell'esecuzione della sentenza

 

L'art. 21 del Testo unificato modifica la disciplina dell'art. 283 c.p.c., prevedendo che il giudice di appello, su istanza di parte, possa sospendere, con cauzione o senza, l'esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado quando ricorrano alternativamente un "gravissimo danno" ovvero "fondati motivi"; ed analogamente provvede l’art. 65 - modificando l’art.  830 del c.p.c. – per quanto concerne la sospensione dell’esecutorietà del lodo arbitrale. La formula usata è indubbiamente più chiara di quella figurante nel testo attuale, ove si parla, più genericamente, di “gravi motivi”, espressione che aveva dato luogo a non sopite discussioni.

Sembra tuttavia incongruo prevedere disgiuntamente i due requisiti del "periculum" dell'esecuzione e del "fumus" dell'impugnazione. Infatti, anche in presenza di gravissimo danno, qualora i "motivi" dell'appello appaiano "ictu oculi" infondati, non si giustificherebbe la sospensione. Pare quindi opportuno proporre la rettifica del testo dell’art. 21 mediante la sostituzione della disgiuntiva "o" con la congiunzione "e", eventualmente sostituendo le parole “grave danno” all’espressione “gravissimo danno” ove si ritenesse che altrimenti potrebbe risultare pregiudicata l’attuazione del rimedio, in special modo per le cause di non rilevante valore economico (e disponendo poi analogamente con riguardo all’ipotesi di sospensione dell’esecutorietà del lodo ex art. 830, terzo comma c.p.c.).

Ciò varrà tra l’altro a contenere il rischio che possa esser contraddetto l’intento della “novella” del 1990 di riportare nel giudizio di primo grado il baricentro del processo, e ad evitare contraddizioni rispetto al rafforzamento della sentenza di primo grado che si intende attuare con la modifica dell’art. 282 c.p.c.

 

 

10.  Il giudizio di Cassazione

 

Il disegno di legge si propone di intervenire anche sulla disciplina relativa al giudizio di cassazione, sia opportunamente prevedendo che all’udienza di discussione le parti prendano la parola dopo le conclusioni motivate esposte oralmente dal pubblico ministero (art. 25 del Testo unificato), sia introducendo l’obbligo di pubblicazione del dispositivo della sentenza o dell’ordinanza entro il termine di trenta giorni dalla deliberazione salvo che il presidente, con decreto motivato da depositare entro lo stesso termine, ne disponga la proroga per ulteriori trenta giorni (art. 26 del Testo unificato). Quest’ultima previsione mira ad evitare tempi lunghi nelle decisioni della Corte di cassazione, rendendo tra l’altro più difficile la possibilità di “riconvocazione” della camera di consiglio quando siano maturati ripensamenti;  ma si corre il rischio di ridurre in modo eccessivo lo studio di alcune questioni, particolarmente delicate e  che potrebbero dar vita a volte anche a svolte giurisprudenziali, per cui si potrebbe ovviare riconoscendo al Presidente del Collegio il potere di allungare i tempi di deposito del dispositivo sino a 90 giorni. 

Con le modifiche dell’art. 70 c.p.c. e dell’art. 76 ord. giud., introdotte in sede di Commissione Giustizia della Camera (art. 2 del Testo unificato), si è poi inteso limitare l’intervento del pubblico ministero dinanzi alla Corte di cassazione alle sole cause trattate a sezioni unite ed  a quelle  in camera di consiglio, alle cause di cui al primo comma dell’art. 70 c.p.c. ed a quelle in cui sia stato parte nei precedenti gradi del giudizio, salva inoltre la possibilità di intervento negli altri procedimenti al fine di richiedere che la causa sia assegnata alle sezioni unite. La disposizione, probabilmente ispirata, almeno in parte, alla finalità di poter disporre un maggior numero di magistrati da assegnare alle sezioni civili della Cassazione, da un lato si colloca su una linea tendente a ridurre progressivamente il potere d’azione e d’intervento del pubblico ministero in materia civile, secondo una logica “privatistica” degli interessi in gioco, dall’altro sembra non considerare a sufficienza che il giudizio di cassazione va al di là della pur essenziale funzione di dare una giusta soluzione al conflitto individuale tra le parti, mirando anche ad assicurare l’uniforme interpretazione della legge, e che il pubblico ministero ha appunto il compito di rappresentare tale interesse pubblico nella dialettica processuale. Come rilevato dalla Giunta dell’ANM nel documento del 1° luglio 2003,  limitare la presenza del pubblico ministero alle udienze davanti alle sezioni unite e ai procedimenti in camera di consiglio, significa non considerare da un lato che “la nomofilachia è compito essenziale di tutta la cassazione e soprattutto delle sue sezioni semplici”, laddove “le sezioni unite svolgono al riguardo un ruolo - peraltro solo eventuale - di sintesi e di scelta nelle ipotesi di contrasti interni alla stessa Corte o di questioni di rilievo più ampio di quello riconducibile alle competenze della singola sezione”, e dall’altro che una delle richieste formulabili per iscritto dal pubblico ministero nei procedimenti ex art.  375 c.p.c. , è proprio quella che la causa sia trattata in pubblica udienza, con conseguente incoerenza della disciplina per cui all’udienza pubblica il pubblico ministero che l’ha chiesta non potrebbe poi partecipare.
             Ugualmente incongrua è la previsione secondo cui il pubblico ministero può intervenire davanti alle sezioni semplici solo per chiedere che la causa sia rimessa alle sezioni unite, essendo illogico - come si osserva nello stesso documento – “che egli debba limitarsi a tale richiesta senza formulare anche le proprie conclusioni sul merito delle questioni da decidere”.

 

 

11.  Gli interventi sulla disciplina del processo di esecuzione.    

 

Buona parte degli interventi relativi al processo esecutivo, i quali lasciano essenzialmente immutata la preesistente struttura delle diverse forme procedimentali, mirano talvolta a codificare soluzioni pratiche già anticipate nella prassi (come del resto accaduto con la lg 302/98); in altri casi a superare dubbi interpretativi sulla disciplina vigente (si pensi in particolare alla questione dell'oggetto del pignoramento presso terzi); in altri ancora ad accelerare i tempi del processo.

Ad esempio, la modifica dell’art. 492 c.p.c. attuata dall’art. 29 del Testo unificato mediante l’introduzione dell’onere dell'esecutato (debitore o terzo proprietario ex art. 602 c.p.c.) di rendere la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio nel comune in cui ha sede il giudice competente per l'esecuzione (a pena di effettuazione presso la cancelleria delle notificazioni e comunicazioni a lui dirette), consentirebbe di superare uno dei maggiori intralci alla speditezza del procedimento, determinato dalla frequente necessità di comunicazione di atti al debitore (es. prima udienza, provvedimenti adottati fuori udienza, udienza di discussione sul progetto di distribuzione), debitore che, in molti casi, volontariamente si rende non rintracciabile. Si ricordi al riguardo che la disciplina della contumacia (e quindi anche l’art. 292 c.p.c.) è estranea al processo esecutivo, con la conseguenza che il debitore dovrà essere personalmente convocato nei casi previsti dalla legge (ancorché non sia assistito da un difensore).

Se la modifica è vista da alcuni come un'esaltazione del principio del contraddittorio, in quanto diretta a   sollecitare anche un maggiore coinvolgimento del debitore nel processo esecutivo, sembra tuttavia di poter intravedere una difficile coesistenza della norma col breve termine - pur raddoppiato a dieci giorni - previsto per l'opposizione agli atti esecutivi (che finirebbe per ancorarsi ad una conoscenza solamente legale ma in realtà fittizia degli atti esecutivi), in tutti i casi (numerosi e forse in maggioranza) di debitori sprovveduti, i quali restano a lungo inerti rispetto all'altrui azione esecutiva anche perché, magari, consapevoli di non avere argomenti da contrapporre alle ragioni dei creditori, e nello stesso tempo non in grado di adempiere spontaneamente.

L’art. 29 contiene, inoltre, una norma che recepisce suggerimenti provenienti dalla dottrina e che trovano eco in esperienze ordinamentali straniere, le quali fanno leva o su strumenti di intervento di carattere pubblicistico (istanza di indagini pubbliche) oppure, più direttamente, sull’imposizione di un onere di collaborazione in capo al debitore, tenuto, come recita il suddetto art. 29, ad indicare “i beni utilmente pignorabili e i luoghi dove si trovano” a pena di sanzioni penali. L’obiettivo è quello di adeguare gli attuali carenti standards di tutela del credito ai livelli di altri paesi europei (vedi ad esempio Germania e Francia). E’ dubbio, però, che la norma possa avere  una effettiva incidenza pratica, considerata la scarsa efficacia intimidatrice che possono avere le norme penali rispetto all’interesse del debitore di difesa dei propri beni.     

In parte criticabile sembra anche la proposta di cui all’art. 30, riguardante la conversione del pignoramento disciplinata dall’art. 495 c.p.c., che ne restringerebbe eccessivamente l'ambito di applicazione ("prima che sia disposta la vendita…”): il lassismo del passato, infatti, sembra già adesso lontano, dopo che il legislatore, nel 1998, ha imposto il deposito del quinto a pena di inammissibilità ed escluso espressamente la possibilità di reiterazione dell'istanza (e dopo che, ormai da tempo, la giurisprudenza ha escluso l'effetto sospensivo automatico degli atti esecutivi). L'esperienza degli ultimi anni dimostra che l'istituto svolge un'utile funzione - per gli stessi creditori - anche quando l'istanza sia proposta dopo il termine prefigurato nella riforma (considerata altresì, a questo proposito, la ricorrente eventualità di incanti deserti), poiché l'onere di deposito svolge una sufficiente funzione dissuasiva rispetto a iniziative puramente dilatorie.

Il dato positivo è invece quello di individuare un termine finale certo per l'ammissibilità della conversione e, soprattutto, di non incidere sulla posizione dell'aggiudicatario, il quale resta spesso nell'attesa dell'esito del subprocedimento di conversione (stante la possibilità, per la giurisprudenza prevalente, che la conversione sia chiesta fino a quando l'aggiudicazione non diventi definitiva, id est, nella vendita all'incanto, fino alla scadenza del decimo giorno successivo all'aggiudicazione).

Forse basterebbe individuare come termine finale non quello del provvedimento di autorizzazione della vendita, bensì di apertura dell'incanto ovvero (nella vendita senza incanto) dell'udienza fissata per la deliberazione sulle offerte.

Degna di rilievo è la trasposizione dell’istituto dell’estensione del pignoramento mobiliare, disciplinato dall’art. 527 c.p.c. (di cui si propone l’abrogazione con l’art. 37), a tutte le forme di espropriazione, mediante la modifica dell’art. 499 c.p.c. attuata dall’art. 31 del Testo unificato. La nuova norma ha incidenza soprattutto nel pignoramento presso terzi (vedi l’art. 41 che modifica l’art. 546 c.p.c.) e costituisce un naturale corollario dell’opzione legislativa contraria alla tesi, avallata dalla giurisprudenza di legittimità, sul “pignoramento illimitato”, avente ad oggetto l'intero importo del credito pignorato, ancorché esorbitante rispetto al credito per cui si procede.

 Importante innovazione è anche quella relativa alla fase distributiva del ricavato, le cui controversie, ai sensi dell’art. 33 del Testo Unificato, dovranno essere risolte con ordinanza del G.E., opponibile ex art. 617 c.p.c.. Peraltro, se da un lato la limitazione dell'intervento ai soli creditori titolati dovrebbe ridurre l'incidenza delle contestazioni in sede di distribuzione del ricavato, non può sottacersi la difficile giustificazione sistematica della previsione di un’ordinanza e non di una sentenza sottoposta alle impugnazioni ordinarie.

Le modifiche dettate dall’art. 40 del d.d.l. in merito alla custodia del bene pignorato recepiscono gli orientamenti di diversi uffici giudiziari, nel prevedere espressamente che i provvedimenti del G.E. ex art. 560 c.p.c. sono “titoli esecutivi”, consentendo in tal modo la liberazione dell'immobile prima della vendita (uno dei punti di forza della prassi anzidetta, che consente più favorevoli realizzi in sede di vendita), anziché a cura dello stesso aggiudicatario col decreto di trasferimento, titolo esecutivo ex art. 586 c.p.c. 

Quanto alle modifiche introdotte dall’art. 46 va in primo luogo rilevato che la previsione della comparizione dell’esperto nominato per la stima dell’immobile pignorato all’udienza ex art. 569 c.p.c. potrebbe inficiare la prassi, seguita da molti tribunali in una prospettiva di maggiore efficienza delle procedure esecutive immobiliari (allo scopo in particolare di consentire la pronuncia dell’ordinanza di vendita già alla prima udienza fissata per la comparizione delle parti), di far comparire il perito, immediatamente dopo la nomina, direttamente davanti al giudice per l’accettazione dell’incarico (sulla scorta della considerazione che non si tratta di un consulente tecnico  d’ufficio ma di un ausiliario del giudice ai sensi dell’art. 68 c.p.c.) e di  concedere termine fino a 15 giorni prima dell’udienza ex art. 569 c.p.c. per il deposito della perizia in cancelleria e la contestuale trasmissione delle copie, a cura dello stesso  perito, a tutte   le parti anche a  mezzo telefax o posta elettronica (per evitare che le parti chiedano la fissazione di altra udienza allo scopo di poter esaminare l’elaborato del perito). Il recepimento nella norma di questo modus procedendi ridurrebbe di  regola ad una sola udienza il numero delle udienze tra il deposito della documentazione ipocatastale e l’incanto con evidente riduzione dei tempi del processo e razionalizzazione dell’uso delle risorse.

Sul termine di deposito della documentazione ex art. 567 c.p.c., la proposta di modifica di cui all’art. 45 del d.d.l. tempera opportunamente il regime, eccessivamente rigoroso per i creditori, introdotto dalla legge n. 302 del 1998, riguardo sia alla prorogabilità del termine sia alla non rilevabilità d'ufficio dell'estinzione. Sotto tale profilo, la riforma si fa sicuramente apprezzare, anche se essa non esclude il proporsi di difficoltà applicative. In particolare, il debitore può non sollevare l'eccezione di estinzione ma, nondimeno, la documentazione di rito restare mancante o insufficiente: in tal caso sembrerebbe doversi tornare al regime prenovantotto e, di conseguenza, alle situazioni di indefinita quiescenza dei procedimenti esecutivi. Più opportunamente, anziché escludersi il rilievo ufficioso dell'estinzione, il sistema potrebbe funzionare nel senso che il giudice dell'esecuzione, prima di provvedere eventualmente a dichiarare d'ufficio l'estinzione, assegni ai creditori un nuovo termine per consentire le necessarie integrazioni documentali, che dovrà specificamente indicare.

Un giudizio nettamente negativo deve essere espresso con riguardo  alla limitazione della nomina del custode giudiziario in sostituzione del debitore esecutato nella custodia del bene ai soli casi di inosservanza “degli obblighi incombenti sul custode ai sensi dell’art. 560”. Questa limitazione pregiudicherebbe le esperienze che hanno prodotto i risultati più significativi in termini di efficienza e che risultano incentrate proprio sulla nomina del custode giudiziario tendenzialmente in tutte le procedure esecutive immobiliari al fine tra l’altro di assicurare ai potenziali acquirenti la possibilità di visitare l’immobile, essenziale per avvicinare le vendite giudiziarie al normale mercato immobiliare ed evitare sia al debitore sia ai creditori il  danno della vendita dei beni a prezzi inadeguati a seguito di aste deserte. Si ritiene quindi necessario, per salvaguardare e diffondere queste esperienze virtuose,  che si articoli la norma prevedendo che il giudice a) proceda d’ufficio alla nomina del custode giudiziario nei casi in cui il debitore non osservi gli obblighi di cui all’art. 560 o ostacoli l’attività del perito nominato per la stima, non consentendogli l’accesso al bene, e b), previa istanza di un creditore, quando lo ritenga utile al fine di facilitare la vendita dell’immobile al suo giusto prezzo.

Particolare peso, nei termini già da tempo auspicati dalla dottrina, assume poi la modifica riguardante l'inizio dell'esecuzione per rilascio di immobili, ex art. 48 del d.d.l. ancorato alla notifica dell'avviso anziché al concreto accesso, in modo da consentire la più funzionale esigenza dell'istituto della sospensione dell'esecuzione.

Ugualmente condivisibile, oltre che invocata da tempo, è la modifica all’art. 624 c.p.c. in tema appunto di sospensione dell'esecuzione, laddove è ammessa la sospensione preventiva in sede di opposizione a precetto, mentre attualmente la Cassazione ritiene necessario e ammissibile il ricorso all'articolo 700 c.p.c. per evitare il pignoramento; in più si aggiunge l’ulteriore previsione del rimedio del reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. contro l'ordinanza che provvede sull'istanza di sospensione, avente natura essenzialmente cautelare. Si attua così un completo sistema di garanzie nella materia delle sospensione dell'esecuzione, che, oggi, il rimedio ex art. 617 c.p.c. contro l'ordinanza di concessione o diniego della sospensione, non è in grado di assicurare. Né si può mettere in dubbio il diverso ambito di applicazione della sospensiva ex nuovo art. 624 rispetto alla sospensiva da parte del giudice dell’impugnazione, in quanto il giudice dell’opposizione a precetto non potrà mai sindacare il contenuto del titolo giudiziale, ma tener conto soltanto di eventuali vicende estintive successive alla formazione del titolo.  

Un discorso a parte, infine, merita l’art. 27 – il primo degli articoli del Testo unificato avente ad oggetto il processo esecutivo – mediante il quale viene modificato l’art. 474 c.p.c.. Al riguardo si può osservare che, nonostante il chiaro intento della modifica, la previsione di titoli esecutivi di formazione stragiudiziale non può essere considerata, di per sé, un efficace strumento deflattivo, in quanto il suo effetto immediato consiste nel ribaltare l’onere della assunzione della iniziativa giudiziaria. In ogni caso, l’estensione dei titoli esecutivi di formazione stragiudiziale postula la predisposizione di strumenti idonei a sospendere l’efficacia del titolo, prima dell’inizio del processo esecutivo.

 

 

 12 (segue).  La limitazione dell'intervento ai creditori titolati

 

La limitazione del concorso dei creditori, restando ammissibile ex art. 31 del Testo Unificato il solo intervento dei creditori muniti di titolo esecutivo, risponde alle sollecitazioni di numerosi tendenze dottrinarie e si pone sul versante opposto a quello di chi, in nome della “par condicio creditorum”, critica il prevalente orientamento giurisprudenziale sulla prova scritta del credito, quale presupposto dell'intervento. Sorgono anche dubbi relativi alla posizione dei creditori ipotecari, mentre, sul piano pratico, mancando nel processo esecutivo una fase di verifica preventiva dei crediti, resterebbero superate le odierne difficoltà interpretative connesse ai necessari momenti - anteriori o alternativi alla fase distributiva - di cognizione dei crediti da parte del G.E. (ad esempio per la riduzione o la conversione del pignoramento), per i quali l'opposizione agli atti esecutivi (contro l'ordinanza del G.E.) finisce per sfociare in questioni di merito (nel nuovo sistema, ogni contestazione sui crediti dovrebbe dar luogo ad opposizione all'esecuzione).

Appare altresì corretta la previsione dell’art. 38 del d.d.l. secondo cui i creditori muniti di titolo esecutivo, i quali intervengono successivamente al termine menzionato nell’art. 525 c.p.c., ma prima del provvedimento di distribuzione, concorrono alla distribuzione della parte della somma ricavata che sopravanza dopo soddisfatti i diritti del creditore pignorante, dei creditori privilegiati e di quelli intervenuti in precedenza.

   

 

13.  Le modifiche relative alla disciplina del  procedimento d’ingiunzione

 

Con riguardo ai procedimenti d’ingiunzione, l’art. 634 c.p.c. viene modificato eliminando il requisito dell’ “autenticità” degli estratti contabili  e, conseguentemente, il requisito della loro “bollatura e vidimatura nelle forme di legge” (art. 58 del Testo unificato del ddl). Si attribuisce in questo modo rilevanza nella fase monitoria a documenti di formazione unilaterale, sprovvisti di consistenza probatoria nel giudizio di opposizione, venendo meno riguardo ad essi anche quella peculiare efficacia assicurata dall’art. 2710 c.c. nei rapporti tra imprenditori inerenti all’esercizio dell’impresa. Ciò rende ancor più probabile la proposizione di opposizione da parte del debitore ingiunto, per la maggiore facilità di muovere contestazioni all’asserita prova scritta allegata in sede di cognizione sommaria; né tale eventualtà viene meno opinando che, pur dopo l’eliminazione della parole “autentici”, debba essere sempre un notaio ad attestare la tenuta delle scritture. La disposizione, pertanto, non può annoverarsi tra quelle destinate ad avere effetto deflattivo.
            Con l’art. 59
vengono poi rese  possibili nel giudizio di opposizione la sospensione o la revoca parziale della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, con contestuale cancellazione o riduzione dell'ipoteca eventualmente iscritta ai sensi dell’art. 655 c.p.c.. La modifica dell’art. 649 c.p.c. segue quella introdotta con l’art.  9 del d.lgs. n. 231/2002, che innovando l’art. 648 c.p.c. ha introdotto la possibilità di provvisoria esecuzione parziale del decreto ingiuntivo per le somme non contestate, salvo che l’opposizione sia proposta per vizi procedurali. Un simile principio ben avrebbe potuto essere esteso sin da ora a casi  diversi dalla non contestazione come, ad esempio, nel caso di errore di calcolo, o di pagamento intervenuto fra il deposito del ricorso per ingiunzione e il deposito del   decreto.

 

 

14.  Le modifiche alla disciplina dei provvedimenti cautelari.

 

L'art. 60 del Testo unificato - mentre diluisce poco comprensibilmente da 30 a 60 gg. il termine per l'avvio del giudizio di merito -  estende positivamente anche al procedimento ordinario di cognizione l’allentamento della "strumentalità" tra procedimento cautelare e giudizio di merito già introdotto, nel campo delle controversie di diritto societario, dal d. lgs. n. 5/2003,  con la conseguenza che il procedimento di merito viene reso facoltativo rispetto alle misure cautelari ex art. 700 c.p.c., a quelle di carattere nunciatorio o comunque alle misure a contenuto anticipatorio anche in via atipica. Il giudizio di merito continuerà invece ad essere necessario con riguardo ai provvedimenti cautelari non anticipatori, quali i sequestri.

A differenza degli artt. 23 e 24 del d.lgs. n. 5/2003, nulla viene invece previsto in ordine:

- alle conseguenze sull’efficacia del provvedimento cautelare dell’estinzione del giudizio di merito;

-  all'esigenza che il giudice della cautela liquidi in ogni caso le spese, come invece previsto nel successivo art. 58 del Testo unificato per il giudizio possessorio;

- alla regolamentazione dei rapporti tra reclamo e revoca.

Restano poi da definire (a ciò non avendo provveduto neppure il d.lgs. in materia societaria) gli effetti sostanziali della domanda cautelare, laddove svincolata dal giudizio di merito.

Non appare condivisibile l’ibrida disciplina delineata dall’art. 63 per i procedimenti possessori, consentendo che alla fase sommaria possa seguire una fase a cognizione ordinaria da definirsi con sentenza, purché ne faccia richiesta -  come presumibilmente avverrà in quasi tutti i casi – una delle parti. Ne deriva che l'unico correttivo apportato dal d.d.l. all'evidente superfetazione di tutela consentita dall'attuale sistema (tutela interdittale, reclamo, eventuali revoche e modifiche, sentenza impugnabile in via ordinaria) è costituita dalla previsione di inappellabilità della sentenza; correttivo invero molto blando a fronte dell'esigenza che la tutela possessoria rappresenti, se le parti la invocano, una semplice tutela sommaria in vista dell'eventuale lite petitoria. Appare dunque opportuno prevedere che il procedimento possessorio si esaurisca con l'ordinanza conclusiva della fase sommaria, reclamabile ex art. 669 terdecies, dopo di che le parti potranno far valer le loro pretese in sede petitoria.

 Infine, mentre l'art. 61 del Testo unificato fa chiarezza in ordine al decorso dei termini per il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., problemi interpretativi potrebbe invece determinare il meccanismo di decorrenza del termine per l'inizio della causa di merito dopo i mutamenti apportati all'art. 669- octies c.p.c., ed in particolare a causa della previsione contenuta nel nuovo sesto comma. Il termine di sessanta giorni decorrerà, ad esempio, dalla comunicazione del provvedimento che ha deciso sul reclamo solo in caso di accoglimento da parte del collegio della domanda cautelare conseguente a revoca dell'ordinanza reiettiva pronunciata dal giudice di prime cure, o anche nel caso in cui il collegio abbia a confermare l'accoglimento dell'istanza già statuito dal giudice designato ? Ove fosse vera la seconda interpretazione, dovrebbe considerarsi l'ipotesi della mancata coincidenza del dies a quo per la decorrenza del termine di 60 giorni nei confronti del ricorrente vincitore ex art. 669- octies c.p.c. e di 10 giorni per il resistente soccombente ex art. 669- terdecies c.p.c., dipendendo tali termini dai momenti delle rispettive comunicazioni dell'ordinanza di accoglimento. D'altra parte, il ricorrente vincitore, cui incombe l'onere di iniziare il giudizio di merito, viene a conoscenza della proposizione del reclamo solo quando gli sono notificati ricorso e decreto nel termine fissato dal presidente del collegio, termine che in alcuni uffici si spinge ben oltre i venti giorni dal deposito del ricorso voluti dall'art. 669- terdecies, comma 4°, c.p.c. e può  eccedere persino i sessanta giorni assegnati dall'art. 669 octies c.p.c.

 

15.  La disciplina intertemporale.

 

Infine, mentre con l’art. 69 viene modificato il secondo comma dell’art. 274 c.c. in tema di azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, limitandosi  il rimedio del reclamo al solo decreto del tribunale dichiarativo dell’inammissibilità dell’azione, e nel contempo introducendosi il ricorso per cassazione contro il decreto con il quale l’inammissibilità sia stata dichiarata dalla corte d'appello,  l'art. 74 del Testo unificato stabilisce che le disposizioni in questo previste si applicano, in quanto compatibili, anche ai procedimenti "esecutivi" in corso alla data di entrata in vigore.

Si tratta di norma intuitiva, in quanto, recando disciplina processuale, la massima parte delle disposizioni, anche afferenti procedimenti di cognizione, cautelari, ecc. saranno governate dal principio "tempus regit actum".

Probabilmente la norma si giustifica alla luce del cenno alla valutazione di compatibilità, atteso che in materia esecutiva può ipotizzarsi che in fatto risultino inapplicabili norme afferenti fasi successive se fasi precedenti siano state svolte sotto l'impero della vecchia disciplina.

Potrebbe allora suggerirsi, per far salvo quanto innanzi - specificando che comunque le norme sono in generale di diretta applicabilità - la seguente formulazione:

"Le disposizioni della presente legge si applicano, in quanto compatibili, ai procedimenti anche esecutivi  in corso alla data dell'entrata in vigore".

 

 

 

16.  Ulteriori  riforme necessarie o utili per il buon funzionamento della  giustizia.

 

Anche le modifiche previste nel Testo unificato, per quanto in gran parte di semplice razionalizzazione, possono favorire il recupero di funzionalità della giustizia civile, soprattutto se ai preannunciati interventi limitati e parziali si accompagneranno altre misure in grado di incidere davvero sulle rigidità e sulle lungaggini della disciplina attuale, oltre che sulla qualità della tutela. Fanno parte di tali misure, molte delle quali segnalate da tempo anche in sede associativa:

* la semplificazione del regime della procura alle liti;

* la liberazione del processo civile e della Corte di cassazione dai regolamenti di giurisdizione e di competenza, dalla sospensione obbligatoria e dalle rimessioni al primo giudice, sostituendo al ricorso per cassazione (avverso l’ordinanza con la quale sia stata disposta la sospensione del processo) il rimedio del reclamo ex art. 669-terdecies;

* la semplificazione della disciplina relativa alla competenza territoriale ed alla prosecuzione del giudizio davanti al giudice dichiarato competente o avente giurisdizione; 

* l’attribuzione al giudice del potere di cancellare d’ufficio la causa dal ruolo qualora lo parti, dopo alcune udienze di rinvio, intendano ancora concordemente soprassedere alla trattazione;

* l’introduzione di meccanismi semplificati di decisione della causa e di redazione della sentenza, con generalizzazione delle modalità previste dall’art. 281 sexies c.p.c.;

* l’estensione del reclamo ex art. 669- terdecies c.p.c. a tutti i provvedimenti sommari o anticipatori non cautelari ma destinati ad incidere sulla situazione sostanziale delle parti; la riforma del sistema delle impugnazioni con la previsione generalizzata dell’appello (da non vanificare, poi, con la reintroduzione dei nova) e la modifica del giudizio di cassazione intervenendo sull’art. 360, n. 5 c.p.c.;

* una disciplina organica ed incisiva per dare finalmente sbocco ai nodi irrisolti del processo di esecuzione tenendo conto in particolare dei mutamenti intervenuti nella qualità della ricchezza, dell’esigenza di ulteriore e drastico snellimento dei procedimenti esecutivi, dell’urgenza di  introdurre nel terzo libro del codice di procedura civile una disciplina generale e compiuta delle tecniche di esecuzione processuale indiretta.

Con riguardo al processo di cognizione di primo grado, occorrerebbe poi:

* raccogliere il suggerimento, formulato in dottrina, di consentire all’attore l’instaurazione del processo  secondo forme e termini semplificati, con possibilità di chiusura in prima udienza mediante sentenza appellabile ove il convenuto non contesti o riconosca la domanda (o, in ipotesi da predeterminare  tassativamente, non compaia), ovvero la controversia concerna soltanto la determinazione del quantum di compensi (di arbitri, avvocati, ausiliari del giudice, liberi professionisti, ecc.), e altrimenti (ove non ricorra nessuna di queste eventualità e/o sia comunque necessaria attività istruttoria) con prosecuzione nelle forme del rito ordinario (o speciale del lavoro) previa ordinanza di mutamento di rito;

* prevedere un procedimento non cautelare a cognizione sommaria per la tutela di situazioni tipiche a contenuto non patrimoniale (o prevalentemente non patrimoniale) e cioè di situazioni per le quali l’urgenza della tutela appartiene alla sostanza stessa del diritto, non caratterizzandolo occasionalmente ma segnandone l’essenza;

* introdurre strumenti processuali adeguati alle controversie che coinvolgono la massa dei consumatori, in quanto originate da violazioni commesse nell’ambito di rapporti standardizzati e uniformi relativi alla produzione di beni e/o alla fornitura di servizi, sulla falsariga elle c.d. “azioni di gruppo”, da tempo conosciute nei sistemi di common law che consentono di trattare all’interno di un unico procedimento giudiziario una molteplicità di domande o pretese individuali originate da un unico atto illecito (c.d. mass torts) ed estendere gli effetti della decisione (siano essi positivi e negativi) nei confronti di tutti i soggetti coinvolti;

 * introdurre una disciplina dei procedimenti camerali che – a differenza di quella prevista nel d.lgs. n. 5/2003 – valga a risolvere i problemi di “costituzionalizzazione” del rito camerale che nei suoi snodi principali (disciplina delle allegazioni, dei termini, dell’introduzione della conoscenza nel processo) è tuttora rimesso alla discrezionalità del giudice.

Occorrono, infine  misure dirette a far sì che la giurisdizione diventi un tramite effettivo di tutela per tutti, abbienti e meno abbienti; a far crescere accanto e intorno al processo una fitta rete di strumenti capaci di favorire il superamento e la composizione dei conflitti senza necessità di ricorrere al giudice; a fare in modo che ogni giurisdizione si caratterizzi per omogeneità di garanzie sotto il profilo della terzietà ed indipendenza del giudice, e regole processuali capaci di assicurare la pienezza del contraddittorio e l’effettività della risposta di giustizia.



[1] Nulla di nuovo rispetto al regime attuale sembra peraltro aggiungere l’esplicita previsione che le parti, entro i termini fissati dal giudice per le deduzioni istruttorie, possano produrre documenti e indicare mezzi di prova “anche non richiesti in precedenza” .