I MAGISTRATI italiani sciopereranno. Era prevedibile e
solo i tartufi se ne meraviglieranno. Ventitré distretti giudiziari su ventisei lo
chiedevano e hanno ottenuto l'astensione generale nonostante il tardivo appello del Capo
dello Stato e l'ambiguo invito al dialogo del presidente del Consiglio che, da impresario,
non ha esitato a lanciare sul piatto la "disponibilità a valutare la complessa
questione del trattamento economico delle magistrature". Come se in gioco fosse il
dané e non l'identità, la funzione e il ruolo del magistrato.
Per capire le ragioni di quel che molti chiameranno "uno strappo istituzionale"
bisogna rievocare uno schema e immaginare il futuro. Lo schema lo abbiamo avuto sotto gli
occhi il 16 aprile con l'astensione dal lavoro di 13 milioni di italiani. La modifica
dell'articolo 18, nelle intenzioni del governo Berlusconi, dovrebbe riformare il mercato
del lavoro. Con la modernizzazione di quel mercato, la riforma dell'articolo 18 non ha
nulla a che fare, come vanno spiegando anche i più pragmatici tra gli imprenditori. Quel
disegno di legge mette in gioco soltanto il diritto fondamentale di chi lavora a non
essere licenziato senza giusta causa, e quindi i diritti delle persone, i diritti del
lavoro, i diritti della cittadinanza. Così un confronto sociale è diventato una
"battaglia di civiltà" (Sergio Cofferati).
Quel che accade tra governo e sindacato si ripete, con implacabile simmetria, nel
confronto tra governo e magistrati. Identici metodo, procedure, tartuferie, obiettivo.
Tutti d'accordo a scrivere una riforma che sappia modernizzare la machina iustitiae
accentuandone razionalità, efficienza, equità e rapidità. Per ottenere questo
risultato, sostiene il governo, bisogna por mano all'ordinamento giudiziario. Anche i non
addetti possono comprendere che l'ordinamento giudiziario "riformato" non
taglierebbe di un solo giorno i tempi di un'istruttoria, di un processo, di un appello. In
realtà, in fabbrica come nelle aule di giustizia, è in gioco soltanto la risposta a
queste domande: chi comanda?, con quali poteri?, con quali limiti?
Il nuovo ordinamento giudiziario proposto dal governo, come la correzione dell'articolo
18, non velocizza né modernizza l'amministrazione della giustizia: è soltanto una
risposta a quei tre interrogativi. La risposta suona così: nei tribunali e nella
consorteria in toga deve essere ascoltata la voce (leggi, la volontà) dell'Esecutivo. Non
è una rappresentazione brutale della questione. La riforma dell'ordinamento spoglia il
Consiglio superiore della magistratura di alcune prerogative; lo impoverisce degradandolo
a organo d'amministrazione. "Spettano al Csm, secondo le norme dell'ordinamento
giudiziario, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti
disciplinari nei riguardi dei magistrati", recita l'articolo 105 della Carta. La
scorciatoia, utile a evitare un confronto di riforma costituzionale, è indicata
dall'inciso. E' sufficiente riscrivere l'ordinamento giudiziario per limitare
l'autogoverno dei magistrati. E' quel che intende fare il governo.
Nasce una Scuola di formazione. Avrà il compito di organizzare tirocini per gli uditori e
aggiornamenti professionali che decideranno della carriera, delle funzioni, degli
incarichi, dello stipendio delle toghe. Sarebbe auspicabile che la Scuola fosse
organizzata in autonomia dal Csm, con le regole del Csm. Viene istituita invece presso la
Corte di Cassazione, sindacata da un comitato di cinque membri eletti: due dal presidente
della Suprema Corte e tre dal Csm con il concerto del ministro di Giustizia. E' il primo
intervento che mostra come si allunghi la mano del potere esecutivo su quello giudiziario.
La mossa e lo scopo sono più trasparenti se si racconta quanto accadrà nella Corte di
Cassazione.
Oggi la Cassazione ha il governo del meccanismo giurisprudenziale. Sistemata al culmine
dell'apparato giusdicente, impone letture uniformi dei testi cancellando le decisioni
infedeli. Ne fanno parte magistrati con 20 anni di anzianità giudicati idonei dal Csm.
Nella mutazione genetica programmata dal governo la Suprema Corte, già coccolata dal
governo con qualche beneficio pecuniario, diventa un organo superiore di controllo e di
indirizzo capace di regolare la meccanica, le gerarchie, le giurisprudenze, le carriere e,
perché no?, anche le teste.
Ne faranno parte magistrati con 10 anni di anzianità, selezionati per metà tra coloro
che hanno superato un concorso speciale dinanzi a una commissione presieduta dal primo
presidente della Cassazione e per l'altra metà vagliati da una "commissione speciale
per funzioni di legittimità", composta interamente da persone scelte dal Csm in una
rosa di nomi indicati dal ministro di Giustizia. "Tra Scuola e Commissione speciale,
l'Esecutivo recupera trionfalmente i vecchi poteri", ha scritto qualche giorno fa
Franco Cordero. (Repubblica, 17 aprile). Meglio è difficile dire.
Vediamone l'esito. E' il ritorno della magistratura a un'organizzazione
piramidale-burocratica che ha al suo vertice una Corte di Cassazione dove i magistrati
sono selezionati con i criteri politici imposti dalla volontà del governo o cooptati
tramite i vari gradini di una carriera, chiusa a "teste storte" e "toghe
rosse" e aperta a coloro che, più accorti e docili, applicano la sua giurisprudenza.
Ora bisogna immaginare il futuro di una simile riforma. Per farlo, non occorre avere
fantasia, ma memoria. E' necessario voltarsi indietro e guardare agli Anni Cinquanta. Per
toccare con mano che cosa concretamente significhi il nuovo, "riformato" taglio
architettonico della magistratura, rispetto ai conflitti sociali o agli interessi più
deboli e meno protetti, bisogna sfogliare la giurisprudenza di quegli anni o le quotidiane
miserie piccolo-impiegatizie raccontate nel Diario di un giudice del magistrato Dante
Troise (accusato da Aldo Moro di avere compromesso il prestigio dell'ordine giudiziario,
gli fu poi inflitta la sanzione della censura nonostante i lucidi argomenti a difesa di
Alessandro Galante Garrone).
O ancora: tenere a mente come, in quegli anni lontani, la Cassazione poteva disporre di un
formidabile strumento di controllo dei processi in cui erano coinvolti i soggetti forti
della politica e dell'economia: la rimessione (trasferimento del giudizio in un'altra
sede). Qui vale la pena solo richiamare il processo per la strage del Vajont, sottratto al
tribunale di Belluno e celebrato all'Aquila, o il processo per la ribellione di Genova al
congresso del Msi. "Rimesso" da Genova a Roma dove tutti gli imputati furono
condannati. E' alquanto agevole prevedere quale sarà la traccia asimmetrica di una
giustizia così riformata. Severissima con i deboli, indulgente con i forti. Lo stile del
"riformismo" giudiziario del governo, infatti, "implica un lassismo
selettivo: mano dura sul disordine basso; via libera ai colletti bianchi" (ancora
Cordero). Prima che i valori fondanti della Costituzione conquistassero tono e rispetto,
è un'asimmetria che il Paese ha già vissuto.
Accadrà di nuovo? L'Italia ne sarà di nuovo vittima? Questa è, dunque, la posta dello
sciopero della magistratura che, in tutta evidenza, non può essere soltanto affare dei
magistrati, ma è faccenda che riguarda ognuno. Perché, se cancellare i diritti del
lavoratore significa mortificare i diritti delle persone e della cittadinanza, un
ordinamento che piega la magistratura al potere politico, limitandone l'indipendenza,
deforma il fondamentale principio che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. E'
una seconda "battaglia di civiltà" che vale la pena di affrontare.
(21 aprile 2002)
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