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I timori legittimi e la strada migliore

(Corriere della Sera del 21 aprile 2002)
di VITTORIO GREVI

La decisione con cui l’Associazione nazionale magistrati ha ieri indetto una giornata di «sciopero» per il prossimo 6 giugno appare più che comprensibile sul piano del merito, cioè per i motivi posti a suo fondamento, ma suscita perplessità sul piano del metodo. Uno sciopero della Magistratura è, infatti, una forma di protesta di per sé idonea a recare danno ai cittadini, naturali fruitori del «servizio giustizia», e come tale (sia pure contenuta nei limiti simbolici di un giorno) non sembra confacente agli esponenti del potere dello Stato cui compete di garantire l’applicazione della legge. Si potrebbe osservare che negli ultimi anni anche gli avvocati hanno «scioperato», con grande frequenza e talora per lunghi periodi, creando così gravissimi problemi di paralisi all’amministrazione della giustizia (per i quali sono stati sempre censurati su queste colonne). Tuttavia la funzione istituzionale dei magistrati non è paragonabile a quella degli avvocati, che del resto in quanto liberi professionisti hanno spesso usato il mezzo dello sciopero con notevole disinvoltura e secondo una logica di strumentalità, che non potrebbe mai essere fatta propria dai primi. Detto questo per quanto riguarda le modalità della protesta preannunciata ieri, bisogna peraltro aggiungere che i magistrati italiani hanno numerose ragioni per essere preoccupati, anzi esasperati, a causa del clima di ostilità e perfino di intimidazione che da qualche tempo si è voluto creare nei loro confronti da parte di membri del governo o della sua maggioranza. Nei mesi più recenti, poi, gli attacchi si sono moltiplicati, e ad essi si è accompagnata una continua strategia di delegittimazione dell’operato della Magistratura (condotta, anche in termini rozzi, attraverso pubbliche dichiarazioni, addirittura in sedi internazionali), al punto da concretizzarsi in prese di posizione politiche esplicitamente dirette ad interferire con il contenuto di provvedimenti giudiziari o con le scelte interpretative di questo o di quel giudice nell’ambito di processi in corso. Come è accaduto, in particolare, nella mozione approvata dal Senato all’inizio dello scorso dicembre, che ha obiettivamente rappresentato un grave atto di indebita ingerenza del potere politico nella sfera della giurisdizione.
Se a ciò si aggiunge che le leggi finora approvate in materia di giustizia si sono indirizzate nel senso di una sensibile riduzione dei poteri di controllo della legalità affidati alla Magistratura (come la legge sul falso in bilancio o quella sulle rogatorie, anche prescindendo dalla loro evidente riferibilità a processi contro noti esponenti politici), ci si rende conto della fondatezza delle preoccupazioni di cui si fa portavoce la Anm. Tanto più che, dopo il recente ridimensionamento strutturale del Consiglio superiore della Magistratura, il progetto ministeriale di riforma dell’ordinamento giudiziario presenta diversi aspetti di rischio dal punto di vista dei principi di autonomia e di indipendenza dei magistrati (che non sono privilegio di questi ultimi, ma patrimonio di tutti i cittadini), mentre stanno facendosi strada alcuni disegni di legge, sostenuti dalla maggioranza parlamentare, destinati a porre in crisi la residua funzionalità dei processi: a cominciare da insidiose forme di condizionamento politico sulle indagini e sullo stesso esercizio dell’azione penale, per non parlare del previsto indebolimento della figura del giudice sul terreno della sua ricusabilità o del trasferimento dei processi in altra sede. In questo quadro è allora legittimo che i magistrati protestino, a tutela del ruolo loro assegnato dalla Costituzione. Ma, proprio in coerenza con tale ruolo, sarebbe assai preferibile che la loro protesta si incanalasse in forme diverse da quella dello sciopero. Il che è ancora possibile, se si terrà aperta la strada di un dialogo costruttivo, auspicata con forza anche dal capo dello Stato.