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Si riportano qui di seguito due significativi documenti dell’avvocatura sulla riforma dell’ordinamento giudiziario

Senato della Repubblica
Commissione giustizia
Ufficio di Presidenza allargato ai rappresentanti dei gruppi
Audizione del Consiglio nazionale forense
Roma, Mercoledì 2 aprile 2003,

Osservazioni sull'Ordinamento giudiziario
(“ maxiemendamento” del Governo al disegno di legge
di riforma dell'ordinamento giudiziario)


Professionalità e qualifiche - L’avvocatura è consapevole dei motivi ispiratori delle riforme Breganze e “Breganzona” e del compito da esse assolto storicamente, ma ritiene che oggi gli effetti prodotti da quelle riforme non abbiano più riferimento con i valori (di autonomia e indipendenza) che si intendevano tutelare, mentre sono evidenti le controindicazioni in termini di inefficienza, appiattimento economico e professionale, conseguente demotivazione e assenza di stimoli per i migliori, consolidamento dei difetti corporativi e dei singoli, assenza di riscontri obiettivi e obbligatori per la valutazione delle capacità, la qualificazione e l’aggiornamento professionale (quest’ultimo affidato essenzialmente alla buona volontà dei singoli e alla sensibilità dei capi degli uffici, nell’aderire o meno ai corsi del Csm e ad altre iniziative scientifiche e didattiche).
Posto invero che un complessivo recupero di efficienza del servizio giustizia ha bisogno della revisione dell’intero ordinamento giudiziario (prospettiva tuttora assente dalla riforma in discussione) e delle circoscrizioni giudiziarie, nonché di riforme processuali e sostanziali che sappiano contemperare entrambi i profili del nuovo articolo 111 Costituzione (elevato sistema di garanzie ma ragionevole durata del processo), è certamente necessario far emergere e valorizzare, anche economicamente, le migliori professionalità.
Per questo il Cnf è favorevole all’abolizione della progressione automatica delle qualifiche e del trattamento economico, e all’individuazione di criteri di avanzamento legati esclusivamente alla professionalità e all’effettivo conferimento di funzioni.
Separazione delle carriere - In questo quadro l’accentuata separazione delle carriere - a prescindere dal “nomen” utilizzato e dal dibattito sulle modalità delle riforme - certamente può contribuire alla valorizzazione sia delle professionalità dei magistrati, sia della terzietà del giudice rispetto alle parti processuali.
Ovviamente l’unico, irrinunciabile limite alla distinzione tra la funzione giudicante e quella requirente, è costituito dalla conferma delle prerogative e dello status del magistrato (e non solo dell’ufficio o del capo dell’ufficio) in termini di autonomia e indipendenza, naturalmente a garanzia e tutela della funzione, non dell’irresponsabilità del singolo.
A tale proposito merita particolare attenzione la proposta riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, in cui appare condivisibile l’indirizzo di attribuire maggiori responsabilità di coordinamento al capo dell’ufficio (indirizzo auspicabile anche per gli uffici direttivi giudicanti), per esempio in tema di misure cautelari, insieme con l’accentuazione del carattere impersonale dell’ufficio nei rapporti verso l’esterno (per esempio nei rapporti con la stampa, per evitare personalismi e spettacolarizzazioni, anche quando siano involontarie); appare invece molto più problematica - anche sul piano costituzionale - la previsione (nuovo articolo 5) che il procuratore della Repubblica sia «il titolare esclusivo dell’azione penale», anche al fine di assicurarne «il corretto ed uniforme esercizio».
Valutazione e progressione in carriera - In linea generale, e per quanto riguarda la progressione in carriera e l’attribuzione delle funzioni direttive, l’indirizzo riformatore del Governo sembra privilegiare un ricorrente meccanismo concorsuale, rispetto alla periodica valutazione di professionalità (pur presente nel progetto, ma in misura minore e con esiti complementari a quelli dei concorsi). L’effettiva idoneità di tale opzione a perseguire gli obiettivi voluti (anche in termini di controindicazioni, sul piano pratico, per quanto riguarda l’efficienza), meriterebbe una più attenta verifica, considerato l’ampio, e nel tempo ricorrente, coinvolgimento di magistrati, sia pure a rotazione, tanto tra i concorrenti, quanto tra i componenti delle commissioni giudicanti.
Limiti dell’intervento normativo (la magistratura onoraria) - A parte ogni rilievo sulla adeguatezza delle misure proposte, le finalità della riforma appaiono evidenti in termini di qualità del servizio e di responsabilità dei singoli e dei capi degli uffici; appaiono invece fortemente carenti rispetto al necessario recupero di efficienza (che ovviamente produce effetti indiretti ma rilevanti anche sul piano qualitativo e del rispetto dei canoni del giusto processo).
In particolare la riforma non risolve le generalizzate disfunzioni soprattutto con riguardo alla ragionevole durata dei singoli processi; non affronta l’assetto della magistratura onoraria, che costituisce un problema rilevantissimo sia sul piano quantitativo (le varie tipologie di giudici e magistrati onorari superano ormai di gran lunga, numericamente, i magistrati ordinari), sia sul piano qualitativo.
Inoltre la riforma del giudice unico prevedeva un generale riordino della materia entro un quinquennio (e cioè entro il prossimo anno), per il quale dovrebbe almeno formularsi una proposta concreta, tra i cui princìpi dovrebbe figurare un preciso ruolo attribuito ai Consigli dell’Ordine (per gli aspiranti giudici onorari provenienti dall’avvocatura).
Infine, andrebbe sancito il principio che il giudice onorario non può essere alternativo al giudice togato (fino ad oggi l'assegnazione delle cause avviene sulla base della casualità dell’assegnazione dei fascicoli nel singolo ufficio, ovvero dalla diversa presenza tra uffici giudiziari: è il caso dei giudici onorari di tribunale), mentre dovrebbero essere valorizzate e migliorate le funzioni del giudice di pace.
Consigli giudiziari - Sull’inserimento a pieno titolo di avvocati nei Consigli giudiziari (come pure nelle diverse commissioni previste dalla riforma) il Cnf esprime pieno favore e soddisfazione, anche per l’equilibrato sistema di designazione concertata tra ordini del distretto e Consiglio nazionale forense. Stupisce, sul punto, il permanere di contrarietà di tutte le rappresentanze istituzionali e associative della magistratura.
Temporaneità degli incarichi direttivi - La riforma è da tempo sostenuta da gran parte della magistratura associata e l’avvocatura non ha motivi di contrarietà, anche percependone la finalità di evitare e prevenire il consolidarsi di posizioni di potere o di condizionamenti favoriti dal tempo e dalla consuetudine dei rapporti (in tal senso va anche il limite di permanenza nello specifico incarico, anche per chi non chieda il trasferimento ad altro ufficio). Tuttavia occorre valutare bene la cumulabilità e la coerenza tra la periodica valutazione di professionalità e il meccanismo concorsuale nell’attribuzione degli incarichi direttivi, con un criterio di rotazione che nell’arco di una generazione di magistrati determinerebbe l’attribuzione di incarichi direttivi a parecchie migliaia di loro (non meno di un terzo dell’organico, secondo una stima inevitabilmente approssimativa anche per l’impossibilità di prevedere quanti, per mantenere l’incarico direttivo, sarebbero disposti a trasferirsi e concorrere ad altro ufficio; ovvero quanti otterrebbero dal Csm il beneficio della proroga biennale rispetto al quadriennio ordinario). Il criterio di sottoporre a valutazione periodica anche i capi degli uffici, senza alcun automatismo di rinnovo dell’incarico o di permanenza nell’ufficio, ma con possibilità, per i meritevoli, di essere riconfermati anche per più quadrienni, potrebbe ottenere gli stessi obiettivi, senza le evidenti controindicazioni: stimolare i migliori a sottoporsi a concorsi per ottenere riconoscimenti economici e attribuzione di incarichi, per poi sostituirli con i meno dotati o i meno volonterosi, nel tempo può trasformarsi in una beffa, con effetti boomerang; l’alternanza e il capovolgimento del rapporto gerarchico, oltre ad apparire contraddittorio con i princìpi della riforma, può scatenare non facili problemi di carattere interpersonale; il mantenimento della retribuzione conseguita può determinare nel tempo un nuovo appiattimento economico, rivitalizzare un sostanziale automatismo della progressione di carriera (sia pure a rotazione) ed economica, e anche comportare costi complessivi diversi da quelli preventivati.
Tipicizzazione degli illeciti disciplinari – E’ indispensabile addivenire alla redazione di un codice deontologico per i magistrati così come già era stato ipotizzato nelle precedenti legislature (vedi, ad esempio, il pacchetto Flick).
Altre questioni meritevoli di eventuali osservazioni.
- Il riequilibrio dei requisiti per l’accesso ai concorsi per uditore giudiziario (rispetto alla prevista equiparazione tra il possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione e il diploma delle scuole di specializzazione, che invece è solo un parziale requisito, insieme con la pratica, per essere ammessi all’esame di abilitazione forense).
- La facoltà di avocazione dei procuratori generali (articolo 5, lettera g)
- L’unificazione della giurisdizione
- La carenza di principi e criteri direttivi per la revisione della geografia giudiziaria
- Testo base ed emendamenti richiedono ulteriori coordinamenti (sia rispetto ai requisiti costituzionali delle deleghe, sia rispetto ai canoni di tecnica legislativa raccomandati in Parlamento e, per il Governo, dalle direttive della Funzione pubblica). Ci sono norme-delega estremamente dettagliate, al punto da coincidere necessariamente con la futura norma delegata (articoli 1 e, in parte, 2); e altre molto vaghe (articolo 8, sulla revisione delle circoscrizioni giudiziarie). L’articolo 6 sulla temporaneità degli incarichi direttivi appare ripetitivo rispetto all’emendamento all’articolo 1.


Osservazioni particolari
sulla “Scuola superiore delle professioni giuridiche”
(“maxiemendamento” del Governo
al disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario)


Premessa
Quello della Scuola potrebbe prima facie apparire come un argomento secondario nell’ambito del progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario. Così, ovviamente, non è; in termini generali, le dinamiche propriamente culturali giocano un ruolo sempre decisivo nei processi di trasformazione, tanto è vero che quello della Scuola è stato un terreno di confronto assai aspro (la magistratura associata ha osteggiato in particolare la scelta della Cassazione, a discapito del Csm, di cui alla prima formulazione governativa).
Non pare pertanto inopportuna una breve riflessione sul punto, con riferimento a quanto di più diretto interesse per il Consiglio nazionale forense, anche in considerazione dello sforzo da tempo intrapreso dall’organo di rappresentanza istituzionale dell’Avvocatura sul terreno della formazione e dell’aggiornamento degli avvocati.
Osservazioni specifiche.
1) L’emendamento governativo segna innanzitutto un riconoscimento importante: la Scuola amplia i suoi orizzonti e diviene una “…struttura didattica stabilmente preposta anche all'organizzazione delle attività (...) di aggiornamento professionale dei magistrati ed avvocati”. Non è più (soltanto) una Scuola per magistrati (o aspiranti tali), ma una Scuola superiore delle professioni giuridiche. Ne consegue che quello dell’aggiornamento professionale degli avvocati assurge evidentemente ad interesse pubblico, perché ritenuto coessenziale alla corretta amministrazione della funzione giurisdizionale. Della qualificazione pubblicistica dell’interesse in parola il trattamento normativo proposto dal Governo presenta infatti i caratteri tipici: l’istituzione di un ente preposto alla cura dell’interesse stesso (la Scuola, appunto), la precisazione della fonte pubblica delle risorse destinate alla copertura degli oneri finanziari, l’assegnazione di personale pubblico all’ente, eventualmente con il ricorso all’istituto del distacco. Si tratta di un passaggio politico che non va sottovalutato, e che crediamo possa essere salutato con soddisfazione dall’Avvocatura. Ove entrasse in vigore una tale normativa, difficilmente potrebbe in futuro il legislatore ritenere quello dell’aggiornamento un “affare privato” della categoria, senza oneri e responsabilità per lo Stato.
2) Una Scuola dei magistrati è indubitabilmente una questione che riguarda essenzialmente i magistrati, probabilmente il ceto accademico (sempre che non si pensi ad una formazione autoreferenziale, gestita in esclusiva dalla categoria), ma anche gli avvocati.
Infatti, una Scuola superiore delle professioni giuridiche che ha tra i suoi compiti l’aggiornamento professionale degli avvocati non può che coinvolgere gli avvocati, e non in una misura esclusivamente “ornamentale”. Così, del tutto incongrua è la previsione di un Comitato direttivo costituito da 4 magistrati, un avvocato espresso dal Cnf, un professore ordinario e un componente nominato dal Ministro (senza precisazione della categoria di provenienza, o alcun riferimento ad un minimo di qualificazione culturale e/o scientifica). Non vale a giustificare la notevole differenziazione la circostanza che agli aspiranti avvocati sia riservato solo il 25% dei posti disponibili, giacché questa prescrizione riguarda solo i corsi biennali di preparazione al concorso di accesso alla magistratura ed all’esame di abilitazione (si tratta della lettera n, comma 1, articolo 3; le lettere da m a r del medesimo comma si riferiscono esclusivamente a questi corsi biennali, sui quali vedi il punto successivo) e non dunque l’aggiornamento!
Appare così del tutto evidente che la competenza in materia di aggiornamento degli avvocati richieda un ruolo effettivo del ceto forense. Non si vede poi la ragione della discrasia rispetto al regime delle Scuole di specializzazione per le professioni legali, dove le componenti professionali sono rappresentate paritariamente (due magistrati, due avvocati, due notai), mentre in questa Scuola il rapporto appare così sbilanciato. Si propone pertanto una composizione del comitato ispirata a pari dignità tra magistrati e avvocati (tendenzialmente paritaria, o almeno di quattro a tre).
3) I corsi biennali di accesso alla magistratura e all’avvocatura costituiscono invero un aspetto assai problematico. Il sistema non è coordinato con le Scuole di specializzazione universitarie, né tantomeno con le Scuole forensi. Innanzitutto per la durata, posto che, andando a regime la riforma degli studi universitari (il cosiddetto “tre più due”), la durata delle Scuole dovrebbe essere solo annuale; e poi perché si tratta di un doppione poco giustificabile del percorso di cui alle Scuole universitarie. Qui in effetti viene alla memoria il rilievo mosso a suo tempo da Michel Focault, per cui ogni pretesa di scientificità ed ogni rivendicazione di sapere cela in realtà un atto (o un processo di acquisizione) di potere. In questo caso addirittura compare l’aggettivo “superiore”, quasi a porre in condizioni di “inferiorità” gli altri possibili modi di prepararsi all’accesso alla professione di avvocato. Parrebbe forse più ragionevole che la Scuola superiore si dedichi appunto alle altre sue importanti funzioni, e non anche a preparare candidati all’esame di avvocato.
4) Desta infine qualche perplessità la prescrizione relativa all’imposizione di un limite di durata (oltretutto assai breve) di due mesi per i corsi destinati ai magistrati (lettera e). Sembrerebbe più opportuno lasciare l’articolazione del corso all’autonomia didattica della Scuola, che potrebbe effettuare valutazioni più flessibili, in relazione alle diverse esigenze formative. In taluni casi, due mesi possono rivelarsi insufficienti.




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Senato della Repubblica - Commissione Giustizia
Ufficio di Presidenza allargato ai rappresentanti dei gruppi
Audizione dell’Associazione italiana giovani avvocati
(
Roma, Mercoledì 2 aprile 2003, ore 14)


Riforma dell’ordinamento giudiziario

Al Sig. Presidente della Commissione giustizia del Senato

Il presente documento mutua la premessa di un precedente scritto diffuso dall’Aiga all’indomani dell’approvazione, da parte del Cdm, del maxiemendamento al disegno di legge sull’Ordinamento giudiziario e costituisce ulteriore approfondimento, per quanto sintetico, dei giudizi espressi in quella sede.
            Tutte le forze politiche hanno considerato il “problema giustizia” quale punto qualificante dei programmi presentati agli elettori ed hanno consequenzialmente assunto un preciso impegno a rinvenire soluzioni di ordine sistematico, nella consapevolezza della inutilità o, peggio, dannosità, degli interventi emergenziali che spesso hanno caratterizzato l’attività di normazione.
            A distanza di quasi due anni dall’avvio della XIV legislatura, molto poco è rimasto dei progetti declamati e dell’impegno promesso: la normativa da emergenziale è divenuta estemporanea e scarsamente significante, i dibattiti si svolgono al di fuori dei naturali spazi, le proposte più disparate sono rilanciate sui quotidiani e nei talk show, le regole processuali ed ordinamentali sembrano potersi stabilire mediante sondaggi o applausometri.
            Tanto la maggioranza parlamentare quanto l’opposizione hanno dimostrato di non avere un vero progetto di riforma della giustizia e, di conseguenza, di non riuscire ad instaurare – in ossequio ai richiami del Presidente Ciampi – un sereno e costruttivo confronto sull’insieme delle cose da fare, riuscendo solo a scambiarsi reciproche accuse in un clima rissoso ed inconludente.  
La politica della giustizia ha lasciato il posto ad una politica attraverso la giustizia che, naturalmente, trova luoghi, tempi e modi di elaborazione irriconoscibili per quanti hanno di mira il miglioramento del sistema e, soprattutto, trova soluzioni che, senza risolverli, sfiorano o spostano i problemi.
La vicenda del maxiemendamento al disegno di legge sulla riforma dell’Ordinamento giudiziario costituisce l’ennesima replica di questo sconfortante copione.       
            Il Guardasigilli aveva da tempo presentato un disegno di legge alla Commissione Giustizia del Senato ed aveva anche affrontato un lungo e tormentato confronto con l’Anm, culminato con una giornata di astensione dei magistrati. Tale protesta non ha fermato l’azione del governo che, nelle intenzioni, ha sempre dichiarato di non voler arrestare il processo riformatore, ancorché, nei fatti, abbia lasciato che il progetto si arenasse presso la Commissione giustizia del Senato. Per riavviarlo, a distanza di un anno, lo schieramento di maggioranza ha dovuto costituire una sede ad hoc (cosidetto direttorio dei 4 saggi) ove trovare un punto di mediazione.
            La blindatura di questo confronto interno alle forze di coalizione governativa  ha, ovviamente, impedito qualsiasi dialogo con l’Avvocatura pur se, a parole, tutti hanno promesso l’imminente coinvolgimento del mondo forense  nel processo di riforma della giustizia. In questo clima è maturato il maxiemendamento al disegno di legge presentato al Senato.
            L’incertezza, il ripensamento e la confusione che ha sotteso un simile modus procedendi è, di per sé, emblematica riprova di quella mancanza di progettualità cui si faceva riferimento in premessa.
Un vulnus originario che, se non rimosso, finirà per incidere inevitabilmente su ogni sforzo emendativo, destinato perciò a risultare inidoneo allo scopo politico declamato (e promesso) dagli stessi autori delle proposte riformatrici ed utile solo ad alimentare il clima rissoso di cui, sopra, pure si è fatto cenno.
Il maxiemendamento appare, già ad un primo giudizio, stravolgere la impostazione dell’originario disegno di legge sulla riforma dell’Ordinamento giudiziario. Esso risulta particolarmente animato dalla volontà di rendere difficile il passaggio orizzontale delle funzioni (requirenti e giudicanti) nonché di sottrarre al Csm ogni prerogativa in materia di avanzamento di carriera affidandola a specifiche Commissioni di concorso (pur sempre nominate dal Csm ancorché esterne ad esso).
Al di là delle osservazioni formulabili in relazione alle specifiche proposte (di cui in seguito) non può sfuggire che, nel complesso, il meccanismo proposto appare del tutto ingestibile sia per la improvvida previsione di percentuali (non sempre ricavabili dai numeri a disposizione) sia per la eccessiva burocratizzazione del sistema di copertura dei posti. Tale ultimo aspetto, peraltro, costituirebbe terreno fertile per alimentare logiche corporativistiche (molto spesso addebitate al Csm) e favorire l’introduzione di indebite  interferenze del potere esecutivo. Sotto questo aspetto, dunque, il maxiemendamento, non elimina quei centri di potere da sempre avversati dall’Avvocatura ma  si limita a trovar loro una nuova e diversa dislocazione, lasciando così impregiudicati i veri nodi che una riforma dell’Ordinamento giudiziario dovrebbe sciogliere per liberare  la macchina giudiziaria da vecchi e nuovi privilegi e porre la funzione magistratuale al servizio del cittadino. 
Nello specifico.
a) Il maxiemendamento propone di risolvere il problema della separazione delle carriere prevedendo un unico concorso di accesso alla magistratura con prove specializzanti per le funzioni inquirenti e giudicanti da affrontare anche nel caso di passaggi (non prima di 5 anni e comunque in altro distretto) dall’una all’altra funzione.
Il sistema proposto è, in primo luogo, eccessivamente macchinoso (sarebbe stato più semplice prevedere un esame scritto per tutti gli aspiranti uditori ed una prova orale specializzante da sostenere tanto per l’accesso quanto per il passaggio orizzontale di funzioni) - nessuno può dubitare che giudici e pubblici ministeri continueranno ad essere ed a considerarsi “colleghi” perché continueranno a condividere lo stesso concorso, lo stesso Csm e lo stesso Consiglio giudiziario.
L’attuale sistema servirà solo ad impedire, di fatto, il passaggio orizzontale di funzioni: ma l’Avvocatura non si era dato questo obiettivo bensì quello di evitare che l’accusa ed il giudice fossero e si sentissero “colleghi”.
La riforma proposta riesce a scontentare tutti: quelli che, pur contrari ad una separazione, avrebbero tuttavia potuto accettare una separazione delle funzioni, lamentano gli eccessivi ostacoli frapposti al passaggio orizzontale (perché sarebbe bastato il divieto di assunzione delle nuove funzioni nel medesimo distretto di provenienza), quelli che anelavano ad una separazione delle carriere lamentano, ovviamente, la loro insoddisfazione per la promessa mancata.
b) Il maxiemendamento propone di risolvere il problema della responsabilità dei pubblici ministeri rafforzando il potere gerarchico dei capi delle procure. L’Aiga - nel proprio “pacchetto giustizia” licenziato nel giugno 2002 - aveva, in verità, proposto di rafforzare i poteri di coordinamento dei procuratori aggiunti: ma aveva giustificato tali nuovi poteri in funzione di definite e maggiori responsabilità cui tali dirigenti dovevano essere sottoposti ed in forza delle quali sarebbero stati chiamati  a rispondere (pena la inidoneità funzionale) della produttività dei loro sostituti, sia sotto l’aspetto quantitativo sia sotto l’aspetto qualitativo. All’uopo si proponevano periodiche verifiche effettuate raffrontando, da un lato, misure cautelari, condanne richieste ed impugnazioni proposte con l’esito definitivo dei processi, nonché raffrontando tali esiti con i costi sopportati (per intercettazioni, consulenze tecniche ecc..).
A tal ultimo proposito, il maxiemendamento non contempla, come l’Aiga aveva auspicato, l’introduzione di un sistema che possa consentire di monitorare le spese effettuate da ciascun ufficio inquirente.
Merita, al contrario, apprezzamento la previsione di una concentrazione nelle mani del procuratore Capo dei  rapporti con gli organi di informazione; insufficiente è, invece, la generica previsione di una attribuzione impersonale delle attività dell’ufficio senza un espresso divieto di pubblicazione del nominativo del magistrato.
Del pari insufficienti sono, in generale, le modifiche che si intendono introdurre in materia disciplinare (valevoli ovviamente anche per i giudicanti) senza una rimodulazione del sistema di promozione dell’azione disciplinare in modo da consentirne una concreta articolazione anche in sede decentrata (ad es. da parte dei Procuratori Generali presso le Corti di appello).  
c) Il maxiemendamento propone di lasciare impregiudicato l’avanzamento automatico del trattamento economico, ma di sganciarlo dalla progressione della carriera che dovrebbe sempre corrispondere all’effettiva assunzione delle superiori funzioni il cui passaggio avverrebbe sempre e comunque mediante  concorso per titoli ed esami.
Al di là degli intuibili problemi di copertura degli organici che potrebbero derivare da un probabile disinteresse a concorrere per ragioni diverse da uno scatto economico, sono fin troppo note le distorsioni che un tale sistema ha generato in passato e che hanno indotto a sopportare i mali del vigente meccanismo. Mali ai quali si potrebbe porre rimedio – come ha proposto l’Aiga – mettendo a concorso una percentuale dei posti vacanti (d’altra parte oggi già esiste l’applicazione alle funzioni superiori) e lasciando inalterato, per la rimanente parte dei posti, il meccanismo della progressione automatica. Sempreché quest’ultima sia   sottoposta ad un più rigoroso vaglio in “negativo”, nel senso che vanno moltiplicati i momenti di verifica (effettuabili da parte di un Consiglio giudiziario strutturato in maniera completamente diversa dall’attuale configurazione) che “arrestano” la carriera nel caso in cui il magistrato non abbia rispettato gli stantards di professionalità.
Sotto questo profilo, invece, il maxiemendamento evita, sorprendentemente, di proporre un sistema serio di verifica della professionalità dei magistrati, anzi sconfessa la necessità ontologica di una tale esigenza dal momento che essa sarebbe, nel disegno avanzato, prevista solo in via resdiuale rispetto a coloro che non sosterranno i concorsi per l’avanzamento in carriera e, per giunta, in termini quasi del tutto simbolici (al 13°, 20° e 28° anno dall’assunzione delle funzioni).  
È venuta meno, in tal modo, quella rivoluzione copernicana che l’Aiga pure aveva  auspicato allorquando ha sostenuto la necessità di porre al centro del servizio giustizia il binomio produttività – responsabilità, facendone derivare ogni coerente conseguenza sul piano della professionalità, della progressione in carriera, della idoneità alla funzione; non essendo pensabile che un dipendente statale (per quanto soggetto solo alla legge) possa ritenersi svincolato da qualsivoglia dovere di produttività verso il proprio datore di lavoro. Ed anche sotto questo profilo, l’assenza di una progettualità della classe politica ha prodotto un rovesciamento di fronti: chi aveva annunciato fuoco e fiamme contro presunti privilegi dei magistrati tace e subisce quasi lo smacco di chi, come una parte della magistratura associata, tenta (almeno) di proporre l’introduzione di criteri di valutazione della professionalità.
Del pari insoddisfacente è la proposta di modifica dei Consigli giudiziari la cui strutturazione e le cui funzioni meritano una rivisitazione capace di spingersi ben oltre le timide rimodulazioni avanzate nell’originario disegno di legge presentato nel marzo 2002 alla Commissione giustizia del Senato. Merita, in ogni caso, di essere segnalata la inopportunità che il Consiglio giudiziario sia presieduto dal presidente della Corte di appello (essendo spesso parte in causa per le questioni trattate) e la incomprensibile esclusione dei membri designati dal Consiglio regionale dalla maggior parte delle attività di competenza del consiglio. La trasformazione auspicata dall’Aiga, come proposto nel “pacchetto giustizia 2002”, è nel senso di modulare i Consigli giudiziari sullo schema del Csm che vedrebbe, per tale via, decentrate su base territoriale una serie di competenze.
d) L’introduzione della Scuola Superiore delle professioni giuridiche, proposta dal maxiemendamento,  potrebbe incontrare possibile condivisione (se gestita dal Csm) per l’aggiornamento dei magistrati, ma non quando viene estesa alla formazione per l’accesso all’esame di uditore giudiziario in quanto si sovrapporrebbe alle vigenti Scuole per le professioni legali (cosiddetta Bassanini).
f) Il maxiemendamento propone l’abolizione dei Tribunali per i Minorenni anche in riferimento alle competenze penali. In via di principio l’Aiga è d’accordo per l’unicità della giurisdizione, ma appare estremamente rischiosa l’abolizione delle figure di supporto dei magistrati togati le cui conoscenze tecnico – giuridiche necessitano certamente di essere integrate da  altri saperi richiesti dal delicato campo in cui opera questo settore giurisdizionale.
            Il vulnus che vizia le proposte qui commentate mette bene in evidenza che il progetto governativo sortirà – quasi ricalcando l’intervento legislativo che ha  riformato il Csm – un effetto opposto a quello annunciato.
            I soggetti inquirenti vedranno aumentare i loro poteri senza essere tenuti ad ulteriori responsabilità; le correnti della magistratura associata rafforzeranno la loro funzione ontologica perché, attraverso i Consigli giudiziari ed il Csm, saranno chiamati ancor più ad esercitare una funzione protettiva e corporativistica dei magistrati che avranno bisogno di progredire nella carriera od essere tutelati nei confronti del capo dell’ufficio; i procuratori avranno la possibilità di realizzare una discrezionalità, non controllabile, dell’esercizio dell’azione penale.
            Tutto questo verrà realizzato a dispetto di quanto declamato più o meno da tutte le forze politiche all’indomani della nota sentenza della Corte di Assise di appello di Perugia, ovvero di riportare l’Ordine giudiziario nella sua corretta dimensione.   
Quel che è più grave è che non sono stati affrontati in maniera appropriata tutta una serie di rilevanti questioni che costituiscono passaggio obbligato per ottenere un mutamento sostanziale degli assetti politico - strutturali della magistratura.
Non è stata proposta una risistemazione dello status ordinamentale della magistratura onoraria, ancorché ad essa spetti, ormai, la maggior parte del contenzioso.
Non è stato proposto (ancorché ci si sia preoccupati delle incompatibilità parentali) un espresso divieto (o quantomeno una restrittiva disciplina ) degli incarichi extragiudiziari dei magistrati: a causa dei quali, per un verso, si sottraggono indefinitivamente risorse agli uffici giudiziari con intuibili disagi nell’amministrazione della giustizia e, dall’altro, si creano situazioni di pregiudizio della effettiva ed apparente imparzialità del magistrato. 
Sulla scorta di queste considerazioni appare difficile provare a proporre modifiche al disegno di legge sull’Ordinamento giudiziario sì come trasformato dal maxiemendamento proposto dal Governo.
Il mancato coinvolgimento dell’Avvocatura nella fase di ideazione del progetto con cui si vuole perseguire l’ammodernamento dell’Ordinamento giudiziario lo ha privato dell’indispensabile apporto di quanti, per la quotidiana esperienza e per la conoscenza dei problemi della giustizia italiana, avrebbero potuto indicare migliori soluzioni di annose questioni dalle quali dipende l’efficienza del servizio giustizia che questo Paese vuole offrire ai propri cittadini.